Il rosa è il colore del metal. Estremo. E preferibilmente black. Siamo svalvolati del tutto? Forse. O più semplicemente, siamo in pieno trip da Deafheaven, band che ha spiccato il volo verso la Gloria con l’acclamato – e odiato, quando si arriva in alto gira così – “Sunbather”. Ancora più della musica, a fare andare di traverso gli americani ai detrattori è il lato visuale, dalle facce pulite e dal taglio di capelli dei componenti, alla spiazzante e urtante cover rosa pastello dell’ultimo lavoro su lunga distanza. La musica, infine, ha l’ardimento degli uomini della frontiera, quelli che esplorano per la prima volta un territorio pressoché vergine e osano l’impensabile mandando a convolare a nozze sonorità in partenza assai antitetiche. Rodatissimi sul fronte live, i Deafheaven tornano in Italia a un solo anno di distanza dall’apparizione nella primavera 2013 al Lo-Fi. Il concerto inaugura di fatto la stagione open-air del Magnolia, che si annuncia carica di gloria anche per questa estate (andatevi a leggere il programma completo dei prossimi tre mesi, please). Un solo gruppo di supporto, gli Hyperwülff, di recente formazione e con all’attivo solo un ep promozionale, breve anticipazione di quanto andrà a finire sul full-length d’esordio. Allo scoccare delle 22, si va in scena.
HYPERWÜLFF
Gli Hyperwülff c’entrano quasi nulla con gli headliner, ma, trovandosi davanti a un pubblico generalmente di ampie vedute e attento a contaminazioni ed elucubrazioni attorno a innumerevoli concetti metallici, possono esprimersi liberamente senza paura di non essere apprezzati. Sul palco sono solo in due, un formato di line-up abbastanza in voga nell’ultima manciata d’anni. Il grande escluso, come spesso capita in questi casi, è il basso, compensato da un ponderoso lavoro sulla distorsione della sei corde e sugli effetti. Vi è un cordone ombelicale piuttosto spesso che tiene attaccati i Nostri al mondo sludge/stoner, lo si ode nel martoriamento ossessivo dei tamburi e nella densità scorbutica dei riff formato sequoia in caduta libera sulle nostre teste. Non ci si assesta mai su schemi sicuri, e dalle cariche a testa bassa provocanti scapocciamenti in serie, fregiandosi di rimandi a Crowbar e Corrosion Of Conformity, si passa agevolmente a solenni marce Neurosisiane, con sensibili distaccamenti verso la disperazione degli Amenra e qualche improvvisa accelerata da montagna russa tipica dei vecchi Mastodon. Gli Hyperwülff hanno dalla loro buone strutture e impatto, nonché una discreta inventiva, che si rende maggiormente evidente quando si sciolgono in andamenti ampi e dilaganti di scuola post-metal. Il concerto va in crescendo, il duo si svela poco a poco, passando dai registri relativamente facili dei primi minuti a costruzioni più ricche nella forma e nella sostanza. Vincono la loro battaglia, lanciando il guanto della sfida per diventare gli Eagle Twin italiani.
DEAFHEAVEN
A guardare l’affluenza di stasera, è chiaro che i Deafheaven abbiano messo radici nell’animo di ascoltatori dal background più disparato, e che una buona fetta di chi li apprezza si interessa tendenzialmente a suoni molto lontani dal metal estremo. Ad osservare le facce e il look dei presenti, sembrerebbe che i metallari puri non siano affatto lo zoccolo duro, composto al contrario dal fruitore di sonorità alternative a tutto tondo. Al termine di un cambio palco molto breve, i Deafheaven si presentano on stage in leggero anticipo rispetto al programma, silenziosi e concentrati, senza lasciar trasparire nessun tipo di emozione. Gli occhi cadono fatalmente sull’istrione alla voce, George Clarke, vestito in impeccabile camicia nera, capello pettinato perfettamente ed espressione fin troppo seria. Per chi lo osserva per la prima volta, potrebbe dare l’idea di tirarsela di brutto, di essere uno che si prende maledettamente sul serio. Le sue mosse sono teatrali, paiono studiate, ma ci si rende conto molto in fretta che sono attraversate da una concentrazione e da una introspezione talmente forte da influenzare ogni atto, ogni minimo sussulto, e sono in verità la naturale estrinsecazione del tumulto di forze che agitano cuore e mente del cantante. Parte “Dream House” e scoppia un arcobaleno di colori mai visti, combinati in gradazioni, quantità, densità che non riusciamo a descrivere, a ricollegare, ad un’esperienza uditiva minimamente simile. Nei Deafheaven tutto è anomalo e tutto è perfetto, è pazzia di sentimenti che si dibattono, collidono l’un sull’altro, un po’ si uniscono e un po’ si respingono. Tempeste di melodie ariose, turbinanti come migliaia di petali di rosa infiocinati da mille spine nell’occhio di un ciclone, fuoriescono da chitarre massimaliste, intente a produrre soavità senza derogare all’impatto sconvolgente del black metal più intenso. Il miracolo sta nel riuscire a spazzar via tutto e tutti con le armi del tremolo picking e di un drumming alla Hellhammer dalla scansione di colpi originale e lievemente sincopata anche sulle partiture più fulminee, e contemporaneamente adagiare in un profumato involucro di seta con melodie evocative e visionarie. Clarke canta da dio, il suo screaming calzerebbe a pennello nel più maleodorante e satanico dei gruppi old-school, crediamo che anche chi vede i Deafheaven con il fumo negli occhi debba ammettere che linee vocali del genere siano tra le più sradicanti e pungenti che si possano trovare in circolazione. Si sospetta, dopo aver udito il primo intermezzo registrato proveniente dall’ultimo disco, che i Deafheaven abbiano deciso di proporre “Sunbather” per intero. L’indizio si tramuta in prova inconfutabile con l’avvio della title-track, altro viaggio nella mutevole bellezza di un Sole al tramonto che irradia le sue ultime energie. I cinque di San Francisco hanno oramai nelle corde non solo un’esattezza esecutiva da musicisti al top per abilità tecniche, ma la nobiltà della band che ha svoltato dallo status di promessa a quello di star assoluta di un movimento. L’idea astratta di una musica che annerisca e faccia sognare, diventata realtà su disco, centuplica la propria sensazionalità dal vivo. Ci sono un’autenticità e un’intensità insostenibili nei Deafheaven, viene da trattenere il fiato nelle parti più tranquille per non rompere la tensione sottile che si crea, e si acuiscono i sensi quando la band riprende a martellare e a piroettare tra shoegaze e dream pop, per la paura di perdersi qualche dettaglio e di non riuscire a processare tutti i segnali in arrivo dal palco. Le pause sono vissute dalla band con calma monacale, Clarke proferisce qualche parola di ringraziamento qua e là, ma si vede che vorrebbe riprendere immediatamente a suonare per non rompere l’incantesimo. Nonostante ciò, i Nostri non risultano affatto freddi, solo su un piano rialzato rispetto alla normalità, e quindi per forza di cose sfuggenti come la loro stessa musica. Chiusa la rilettura integrale di “Sunbather”, i ragazzi abbandonano il palco, per farvi ritorno pochissimi minuti dopo con l’acclamata “Unrequited”, salutata a gran voce da un pubblico fino a quel momento poco rumoroso, probabilmente per l’incapacità di riuscire a dare una risposta sensata a chi stava suonando. La lunga introduzione prepara il terreno a gesta epiche nel fuoco elettrico che immediatamente segue; un altro castello volante di sentimenti ci dà il colpo di grazia e ci rimette in armonia con l’universo. Come è giusto che sia, al termine di un concerto di tale livello, si forma una nutrita coda al banchetto del merchandising per accaparrarsi una testimonianza di quanto udito, e perpetrare per quanto possibile nei giorni a venire l’irrealizzabile chimera sonica appena vissuta.
Setlist:
Dream House
Sunbather
Vertigo
The Pecan Tree
Unrequited