Report a cura di Chiara Franchi
Ci sono parecchie cose di cui potremmo parlare in questa introduzione. Potremmo disquisire (anche alla luce dei recenti facimenti, disfacimenti e rifacimenti di Grupponi Storici) sulla legittimità o meno di sostituire membri fondamentali della propria line-up senza che ciò comporti, di fatto, la trasformazione di una band in una coverband di sé stessa. Potremmo parlare del fatto che i Death To All sono, formalmente, né più e né meno di una coverband. Anche se si tratta di una coverband i cui membri hanno inciso i brani originali del proprio repertorio; anche se si tratta di una coverband con in formazione gente come Gene Hoglan e Steve Di Giorgio. Potremmo, o forse dovremmo, spendere due parole su “Individual Thought Patterns”, monumentale colonna portante di questo European Thought Patterns Tour: un album che ha chiarito oltre ogni (ir)ragionevole dubbio la portata del genio di Chuck Schuldiner, l’uomo a cui tutte le ciambelle riuscivano col buco e che se solo avesse trascorso più tempo in questo sgangherato mondo… chissà. Ma abbiamo talmente tante cose di cui parlare che andremo dritti al dunque. O quasi.
CARVED
Persi (vedi nota in calce all’articolo). Peccato, perché i presenti ci assicurano che, nonostante le dieci persone in sala, la band ligure non ha fatto una grinza, portando a termine la performance con grande professionalità.
BODYFARM
Quando arriviamo al Deposito, i Bodyfarm hanno appena cominciato. Potremmo definire il genere proposto dalla formazione olandese come “Cinquanta sfumature di death metal”, visto che il loro granitico muro di suoni è un pot-pourri di varianti sul tema. Il misto di spunti old school, swedish, americani, schuldineriani e perfino vagamente death-black (per lo meno nei pezzi tratti dal recente “Battlebreed”) suona come mille cose che abbiamo già sentito, ma c’è da dire che a suo modo sta in piedi. Merito soprattutto della buona capacità tecnica della band, che riesce a conferire ai brani quell’onesta nota di mezzo cingolato che tanto dona a questo stile musicale. Quanto al pubblico, se all’inizio si era mostrato un po’ titubante – complici forse anche i suoni non eccelsi, del tipo “tamburi che suonano come fustini del Dixan” (cit.) – con il calibrarsi dei volumi sembra prenderci gusto, fino a partecipare con un certo coinvolgimento alla parte finale dello show. Del resto, vista la netta predominanza in sala della fascia d’età over-30, non stupisce che questo tipo di proposta un po’ legata ai primi anni Duemila e alla sana, vecchia viulenza del death vecchia maniera possa trovare terreno fertile. Gli ultimi brani del set assicurano ai Bodyfarm un’uscita di scena a testa alta, con un sound che valorizza appieno il loro lavoro e con qualche centinaio di spettatori plaudenti. Niente di nuovo sotto la pioggia (il clima esterno è impietosamente padano), ma i circa quarantacinque minuti della performance passano bene.
DEATH TO ALL
Sono le 21:50 quando i Death To All salgono sul palco davanti ad una platea di circa cinquecento persone. Lo spettacolo inizia dove “Individual Thought Patterns” finisce, dunque con “The Philosopher”. I suoni sono impeccabili fin dalla prima nota. Ma fossero anche pessimi, siamo davanti a gente che tirerebbe fuori cose stellari anche da dei bidoni e da dei manici di scopa con attaccato un elastico. Menzione speciale al gigantesco (in tutti i sensi) Steve Di Giorgio, che imbraccia un basso a tre corde. Se Di Giorgio è il frontman de facto, la rockstar della serata è senza dubbio Gene Hoglan: vederlo suonare “Leprosy”, “Left To Die” e la fucilata “Suicide Machine” con l’espressione che noi comuni mortali abbiamo quando guidiamo sul tragitto ufficio-casa è qualcosa di impagabile. Restiamo un po’ sorpresi quando subito dopo la sempre ottima “Overactive Imagination” e “Trapped In A Corner” parte l’inconfondibile riff iniziale di “Raining Blood”. L’esecuzione è eccelsa, il pezzo ha fatto scuola, ma… che diavolo c’entrano gli Slayer adesso? No. Cioè. Perché? Boh. Poco male, perché torniamo presto a “Human” con “Lack Of Comprehension” e “Flattering Of Emotions”, sulla quale ‘Porco Gino’ (indovinate come il pubblico friulano abbia composto questo simpatico moniker…) fa cose semplicemente ufologiche dietro la batteria. Dopo “Destiny” e una dovuta ovazione al chitarrista Bobby Koelble, ecco arrivare “Symbolic”. E qui il pubblico per un momento si ferma in religioso silenzio, a salutare la grandezza e la maestosità di questo capolavoro di canzone. La calma dura più o meno trenta secondi, poi riparte il pogo selvaggio. Segue un altro arciclassico dallo stesso arcidisco, ovvero “Zero Tolerance”. Siamo al pezzo numero dodici e ci rendiamo conto di non aver ancora sentito Max Phelps spiccicare una parola. L’uomo seduto sulla scomoda sedia che fu di Chuck Schuldiner mantiene un profilo discreto, limitandosi (si fa per dire) a tenere un altissimo livello di concentrazione sulla sua non facile performance. Volendo fare la punta alle matite – o ad altro – la voce di Phelps ricorda parecchio il secondo Schuldiner e poco il primo; inoltre i suoi soli risultano un po’ freddini se confrontati con quelli di Koelble. Ma francamente il ruolo gli si addice: maionchiamente parlando, per noi è sì. Stiamo ancora formulando superflue considerazioni su quanto Phelps assomigli o non assomigli a Schuldiner, quando arriva lei: la riconosciamo dalla prima nota. Chiudiamo il libretto degli appunti e ci isoliamo dal resto del mondo. “Spirit”. “Crusher”. Proviamo un’invidia feroce per chi ha sentito questa canzone eseguita dai “veri” Death, suonata e cantata dall’uomo che l’ha scritta, e ci sorprendiamo ancora una volta, dopo averla ascoltata fino allo sfinimento, di come ci siano più buone idee in questo brano che in interi album. Il momento commozione prosegue quando, prima dell’encore, riecheggia per il Deposito una registrazione originale della voce di Chuck Schuldiner. Parla di cosa sono per lui i Death, di cosa significa per lui fare musica. La magia si rompe con un’intro che fa subito alzare una foresta di corna: “Zombie Ritual”, quasi una nemesi del brano che l’ha preceduta, ma altrettanto grande. Siamo ai saluti. La setlist si chiude con una coppia di assi, “Crystal Mountain” e “Pull The Plug”. Ci associamo al ragazzo davanti a noi, che non appena si accendono le luci commenta così quanto ha visto e sentito, in un inequivocabile accento mestrino: “Oh che concerto, fioi… ghesboro, son sconvolto”.
NOTA CONCLUSIVA
Erano circa le 19:20 e noi stavamo ancora sorseggiando spritz, quando abbiamo appreso del repentino cambio di programma della serata. Neanche un’ora prima, infatti, il Deposito aveva annunciato dalla pagina Facebook dell’evento che l’apertura dei cancelli era stata anticipata dalle 21:00 alle 19:30, con inizio concerti alle 19:40. Follia? No. Soltanto l’ennesima revanche del buon vecchio vicinato del Deposito, che come avevamo già spiegato nutre un’indomita quanto indefessa ostilità verso qualsiasi cosa emetta dei suoni in un raggio di cinque metri dal locale. Quando le band sono arrivate alla venue, in tarda mattinata, hanno trovato il locale sigillato e le forze dell’ordine già sul posto. Volendo citare la stampa locale, il concerto è stato autorizzato soltanto “per questioni di ordine pubblico”: dal giorno dopo, il Deposito poteva considerarsi chiuso per l’ennesima volta, con uno dei migliori cartelloni dei mesi a venire (Motorpsycho, Soilwork, Protest The Hero) messo a rischio dal cosiddetto “Comitato del Silenzio”. Ora. Rispettiamo il sacrosanto diritto al riposo delle poche persone che vivono nei pressi del Deposito. Chi lavora, tiene famiglia e si sbatte tutta la settimana per tirare avanti la carretta merita di stare in pace almeno il sabato sera. Per contro, siamo un po’ perplessi dalla perentorietà dei metodi di cui da sempre queste persone si servono per ribadire il proprio diritto alla quiete. Ci auguriamo che la soluzione proposta alla Procura in questi giorni possa risolvere definitivamente un problema che si ripresenta ciclicamente ad ogni cambio di gestione e che è costato più volte la chiusura di quella che è, senza dubbio, una delle sale da concerti più interessanti del Nordest. Talmente interessante che, secondo il Messaggero Veneto, lo scorso 2 aprile ci hanno suonato nientemeno che i Nirvana (seguono prove fotografiche).