Report a cura di Giuseppe Caterino
Un weekend dedicato a suoni pesanti e lisergici; un festival dislocato attraverso un pugno di storiche venue musicali della scena live inglese, tutte situate attorno alla stazione di Camden Town; un bill poderoso e trionfalmente ricalcante gli stilemi della dissolutezza degli anni ’70; un po’ una vetrina di quello che è oggi la punta di diamante della scena sludge – doom – stoner e non solo. Il Desertfest nasce a Londra nel 2011 e nel corso degli anni, con dei partner berlinesi, ne è nata un’edizione ad Anversa mentre il prossimo ottobre ci sarà la prima versione ateniese. A bilanciare questa Expo di depravazione ed elettricità occulta, tre giornate di Sole arrivate ad uopo dopo un periodo post-invernale che aveva anchilosato non poco l’aprile londinese. Sebbene le esibizioni si siano svolte tutte al buio delle location, è anche vero che l’area merchandise (e quartier generale del festival), situata di fronte al Black Heart, è stato fulcro di un viavai di facce truci ma contente, birrette all’aria aperta, toppe degli Sleep e magliette in cui il 90% delle volte c’era scritto ‘Acid’, il tutto aiutato appunto dal clima mite. Una festa più che un festival, organizzato egregiamente e con un rispetto degli orari tipicamente britannico, un’occasione per gustare sia act già forti di una propria fanbase che – soprattutto – una manciata di nomi da (ri)scoprire. I concerti si sono tenuti ovviamente in contemporanea ed è sempre un piacere vedere quest’orda di metallari con reminiscenze settantiane aggirarsi per una Camden affollatissima (come sempre, nel weekend) con guida dei concerti alla mano, sotto l’occhio attento di una security mai invasiva; un plauso allo staff è d’obbligo, anche per queste piccole accortezze. La kermesse di tre giorni (che per motivi lavorativi abbiamo potuto seguire solo nelle giornate di sabato e domenica) è stata plasmata in base a suoni cangianti e, se al sabato le vibrazioni sono state pesanti e claustrofobiche, alla domenica hanno lasciato il posto ad una verve più dedicata alla psichedelia e alle contaminazioni. Eccovi, infine, il resoconto del quinto Desertfest londinese!
CONAN
Arriviamo esattamente quando i Conan si apprestano a cominciare il loro show all’Electric Ballroom, uno dei locali più iconici di Londra, dove dal 1930 (sì, trenta!) sono passati alcuni nomi da capogiro a tenere acceso l’underground albionico. Sono solo le quattro del pomeriggio, ma il forsennato trio inglese ha letteralmente riempito il posto, segno inequivocabile del valore del combo, che sembra aver conquistato più di qualcuno anche grazie all’ultimo “Revengeance”. Sul palco si apre una battaglia le cui sonorità sono semplici quanto essenziali nel loro ribattezzato ‘caveman battle doom’, tra dissonanze, grida e bassi che entrano nello stomaco. L’incappucciato trio si dedica con pervicacia a quanto di più pesante possibile, senza teatralità o spettacolarità varie, semplicemente buttandosi dentro con tiro, sudore e qualche strobo a tirare le corde ai propri strumenti e ad urlare il marcio che hanno dentro. Il pubblico percepisce la genuinità dell’esibizione e batte le mani fino all’ultimo brano. Concertone.
SLOMATICS
Con ancora le orecchie che fischiano ci dirigiamo all’Underworld, dove gli Slomatics stanno già scaldando il nutrito pit all’interno del locale. La proposta è decisamente volta ad uno psych-doom piuttosto diretto e pragmatico, che ben si accosta ai Conan, e, sebbene la band sembri vagamente impacciata, la performance è divertente ed interessante, anche se a tratti monocorde (perfino parlando di doom). Ma il trio irlandese con batterista cantante consegna ai posteri la propria asettica esibizione uscendo comunque tra gli applausi.
SPIDER KITTEN
Il tempo di una birra all’aperto e ci dirigiamo al Black Heart, dove i gallesi Spider Kitten stanno finendo il check. Siamo piuttosto curiosi rispetto alla proposta della formazione, che da una base stoner-doom ha definito il proprio sound un’evoluzione che prende in considerazione anche il drone, il country, il grunge, avendo peraltro pubblicato in completa autonomia un EP no-wave sotto il nome Kitten Youth. Quello che viene suonato è fondamentalmente un doom con forte connotazione sludge ed i Black Sabbath sono (manco a dirlo) la fonte di ispirazione maggiore per il riffing; ma effettivamente non manca una componente dronica che sfocia nel noise senza tralasciare un ché di ambient, che fa benedire il fatto che al Black Heart distribuiscano tappi per le orecchie. Applausi anche per loro, che non risparmiano un grammo di energia e che comunque escono forti di un’esibizione convincente.
PELICAN
Con i Pelican i discorsi si fanno decisamente interessanti, benché il cambio di sonorità lasci vagamente storditi i più grevi tra i rocker presenti. C’è una certa attesa attorno all’esibizione degli statunitensi e l’Electric Ballroom è gremito di follower della band, attesa a cui il gruppo non manca di tener fede facendo un ingresso sul palco granitico e preciso così come la propria proposta musicale impone. Il connubio tra post-rock e post-metal strumentale che corrobora la formazione irrompe tra gli astanti con sonorità limpide, un supporto da parte del pubblico che dura per tutto lo show, con aperture melodiche ed in taluni casi progressive, come nel caso di “GW”, con incedere trasognanti nell’incitatissima “Ephemeral” o ancora in “Mammoth”, che chiude perfettamente quella che è un’esibizione ‘ariosa’ e, sebbene un po’ pragmatica, di certo da incorniciare.
SAMOTHRACE
Abbiamo poco tempo per non perdere i posti buoni per gli headliner della giornata, i Russian Circles, ma riusciamo comunque a fare una corsa all’Underworld per un paio di canzoni dei Samothrace (che comunque vuol dire una buona ventina di minuti). Pesanti come ci aspettavamo, i Nostri si districano attraverso diversi aspetti crust e sludge a fare da contralto ad un doom ‘grosso’, pesante e dritto come un treno in corsa. Ci ricordano vagamente gente come gli YOB e si divertono assai sopra il palco; e a giudicare dal fatto che il locale sia stipato fino all’inverosimile, possiamo affermare che oltre a godersi il momento i Samothrace sanno intrattenere a dovere. Da riscoprire.
RUSSIAN CIRCLES
Potremmo aprire e chiudere dicendo solo: eccezionali. Ma non renderebbe giustizia all’ora e venti circa che i Russian Circles hanno sciorinato mediante il loro post-rock preciso e trasognante, e probabilmente anche il più truce dei metalhead presenti non ha potuto che tributare applausi al trio di Chicago. Un mix di emozioni strumentali e progressive (nel senso buono del termine) che hanno trasceso tra post-metal e psichedelia, con una precisione che ha dello straordinario e che fa risaltare la band anche all’interno di una giornata tanto buona dal punto di vista musicale. Le arie create dalla formazione sono pesanti quanto bastava, eppure squisitamente gustose, con reminiscenze math rock in alcuni casi e del chirurgico nella riproposizione di brani quali “Geneva” o “1777”, in un compendio di drammaticità e una certa propensione per l’oscuro. Complimenti anche in questo caso all’organizzazione per aver scelto una band di questo tipo per chiudere un bill improntato a sonorità probabilmente più dirette, scelta che a giudicare dalla risposta totalizzante degli spettatori ha pagato appieno.
MANTAR
Come si dice dalle parti di chi scrive ‘l’ultimo si è sempre fatto’, perciò, benché provati dalle oramai sette ore di musica senza soste, andiamo a bere l’ultima pinta e a sentire l’ultima manciata di note al Black Heart, dove i Mantar, maleducatissimo duo tedesco formato da batterista e chitarrista-cantante, iniziano lo show conclusivo della giornata. ‘It’s only rock and roll’ sembrano dire dal palco ed infatti, lanciando ogni etichetta alle ortiche, i due sciorinano quasi un’oretta di rock di tendenza doom Seventies, urlato con fare punk e quasi industrial in certe scelte, seppur appunto preferendo andar dritti per la loro strada con un riffing piuttosto semplice e groovy, improntato su mid–tempo. Non nascondono un certo amore per i Melvins e, neanche a dirlo, il locale è pieno fino allo spasimo.
Finito il sabato del Desertfest 2016, uno spettacolo eccellente a fronte di una forza organizzativa encomiabile: torniamo a casa contenti seppur stremati, pronti per la domenica che, come già scritto, promette emozioni di diversa fattura, nonché un probabile aumento del già folto pubblico, visti i nomi in ballo.
THE MOTH
L’aperitivo andiamo a farcelo al Black Heart, abbandonando il sole, che anche questa domenica ha deciso di abbracciare il nord-londinese, per immergerci nelle oscurità proposte da questo trio tedesco, che sin dalla prima nota sa farsi piacere con il suo doom prettamente sabbathiano suonato con distorsioni che ricordano più il thrash metal (!), accostamento quanto mai bizzarro ma che attira le attenzioni dei presenti, non tantissimi ancora (lo ammettiamo, è difficile abbandonare una giornata calda e piacevole come quella odierna). Reduci da un tour con i Conan, i The Moth offrono uno spettacolo interessante e perfetto, col quale cominciare questa nuova giornata di dissolutezza.
STINKING LIZAVETA
Eravamo curiosissimi di questo combo proveniente dalla Pennsylvania, visto che si sente parlare di ‘doom jazz’, ‘swing doom’ e altra roba che sulla carta più di tanto non ci convince, unito a proclami di show sconvolgenti e inaspettati. Arriviamo all’Underworld non senza un po’ di pregiudizio e non possiamo che restare basiti, invece, di fronte all’eccezionale spettacolo offerto dal trio. La batterista Cheshire Augusta è una tarantolata macchina da guerra, basso e chitarra inventano qualcosa di nuovo in prosecuzione continua, senza però abbandonare quello che sarebbe di più un atteggiamento da garage sporco e puzzolente che non il club per palati sopraffini. Non manca il gusto al trio che, pur esagerando in ogni contesto, riesce ad essere sempre entro gli ambiti dell’interessante; e sono parecchie le persone con la bocca aperta di fronte a qualcosa che, effettivamente dobbiamo ammetterlo, ci ha colto impreparati. A corredo dell’estro dei musicisti, durante una parte totalmente noise, il chitarrista scende dal palco e toltosi la chitarra la fa imbracciare ad uno spettatore a caso, che a modo suo (e grazie ai suoni ipereffettati) riesce a barcamenarsi con il pezzo improvvisando. Da non perdere se ne avete l’occasione.
ORANSSI PAZUZU
E’ l’ora di ritornare nel palco grande, quello che è di fatto il main stage del Desertfest (che oggi però se la gioca con lo stage teatrale del KOKO), per uno dei nomi che più ci incuriosivano all’interno della kermesse. Difatti eravamo trepidanti di vedere come gli Oranssi Pazuzu – che di certo non associamo al panorama desertico – si sarebbero comportati sia all’interno della giornata in sé, più che in ambito di risposta da parte del pubblico. Gli psyco-blackster finlandesi sono autori di un ultimo album di qualità eccelsa e dal vivo sanno esprimere un senso di disagio non convenzionale: sebbene alla fine del check notiamo che la gente è ancora poca, ma dopo le prime due note che aprono “Saturaatio”, ecco che la sala si riempie repentinamente. Sono di fatto i brani dell’ultimo “Värähtelijä” a fare la voce grossa, ad esempio la title track o “Lahjia”, che lasciano senza parole i presenti; l’impatto scenico è semplice ed espressivo, poche, pochissime parole dal palco e tutto il tempo viene lasciato ai suoni spaziali e prepotenti (continuiamo a ringraziare il Black Heart per gli inestimabili tappi per le orecchie!). Il concerto, che di base è true rock and roll nel senso più letterale del termine – sia il look che il modo di porsi del combo sono rock and roll, concettualmente inteso come strappo e rottura – si svolge all’interno di una proposta artistica di alto impatto e che conferma gli Oranssi Pazuzu come una delle formazioni più interessanti nel panorama musicale odierno. Sul podio con Russian Circles ed Electric Wizard, sebbene non sappiamo come sia andata venerdì con i Corrosion Of Conformity.
SIENA ROOT
“Root Rock Pioneers” si intitola una delle canzoni…e cosa potevamo aspettarci se non una band in odor di revival anni ’70, sin dall’abbigliamento post-figli-dei-fiori, per arrivare alla strumentazione e alla proposta che riempie l’Underworld di suoni che ricalcano pedissequamente Led Zeppelin, Deep Purple, Uriah Heep, Sabbath? Non c’è molto da aggiungere, se non che il locale è gremito ed entusiasta, segno che certe sonorità non moriranno davvero mai, e che la band svedese, con il proprio background bluesy–hard rock, non manca certo di tiro e groove, facendo divertire e divertendosi.
BLOOD CEREMONY
Quello dei Blood Ceremony era un altro nome particolarmente atteso: l’ultimo album, “Lord of Misrule”, è piaciuto un po’ ovunque, è stato Top Album su questo portale, e quella dell’Electric Ballroom è l’ultima data della prima parte del tour a supporto dell’LP. Saremo del tutto franchi: effettivamente una certa stanchezza traspariva nell’esibizione dei canadesi, che di fatto – forse anche per la grande aspettativa che gravava attorno al loro nome – non sono sembrati brillare. Il vasto stage pit appare più vuoto che nelle altre esibizioni (stiamo comunque parlando di una sala molto grande) e la concomitanza con l’inizio degli Electric Wizard non ha certamente aiutato la band, che dal canto suo è sembrata un pochino svogliata. Non hanno aiutato nemmeno i suoni di chitarra, a giudizio di chi scrive totalmente freddi e inappropriati alla proposta rispetto a quanto sentito nel pur buonissimo “Lord of Misrule”, e sebbene siano godibili composizioni quali “Goodbye Gemini”, “Lord Summerisle”, “Old Fires” e la title-track dell’ultimo nato, e la presenza scenica dell’incantevole strega Alia sia ineccepibile, rimaniamo un po’ con l’amaro in bocca; nonostante tutto sembra che il pubblico presente apprezzi e si diverta sotto le influenze del flauto magico della frontgirl e del contesto ritualistico, benché, come scritto, lo show degli headliner alle porte faccia scappare un po’ di persone prima della fine dell’esibizione. Da rivedere.
ELECTRIC WIZARD
Non ci sarebbe nemmeno molto da scrivere, quando ci si trova di fronte a spettacoli come quelli dei massicci Wizard. Il KOKO è gremito all’inverosimile, riusciamo a trovarci un angusto spazio all’interno della seconda parte del pit e niente, lì ci fermiamo di fronte alla nefandezza sonora proposta dagli inglesi che, giustamente, incarnano la band perfetta per chiudere una tre-giorni che si chiama Desertfest e che è dedicata a sonorità che devono molto anche agli Stregoni del Dorset. Coadiuvati come sempre da immagini a tutto schermo in onore a Satana, vampiri, streghe, tette, motociclette e sangue, la band senza tanti giri di parole abbassa le accordature e sciorina, dritta come un Iveco, pezzi da novanta quali “Dunwich”, “Satanic Rites of Drugula”, la salmodiata “Black Masses”, fino a chiudere nel trionfo di un’orgia lisergica con “Funeralopolis” (da quel compendio di malattia che è “Dopethrone”) un concerto pazzesco, disturbante, asfissiante nella propria capacità di racchiudere in un pugno di note tutto il marcio che sta dietro al movimento doom. Il pavimento letteralmente trema di fronte alla corazzata dello Stregone Elettrico e il pubblico resta in visibilio fino all’ultima nota, giustamente: la band è in forma smagliante e viaggia a cento all’ora – pardon, a cinque all’ora, stiamo pur sempre parlando di doom! – e sebbene si potrebbe discutere sul fatto che negli ultimi anni gli Electric Wizard siano diventati un po’ attenti a certe sonorità di ‘ampio raggio’ (vabbé, capiamoci…), sfidiamo chiunque a non essere genuinamente soddisfatti dopo un live di tale fattura.
Le luci si accendono, lo spettacolo è finito. Il bilancio sul Desertfest è assolutamente positivo: è stato creato un compendio di quello che è il meglio delle sonorità in cartellone per appassionati e curiosi ad un prezzo tutto sommato accessibilissimo (100 £ per tre giorni ci sembra più che onesto, visti anche gli standard londinesi) e gli organizzatori dovrebbero dirsi pienamente soddisfatti sia per la riuscita in sé, sia per la risposta di un pubblico entusiasta e corretto. Arrivederci all’anno prossimo, saremo di certo presenti!