04/05/2018 - DESERTFEST BERLIN 2018 @ Arena Club - Berlino (Germania)

Pubblicato il 18/05/2018 da

Report a cura di Simone Vavalà
Fotografie di Andrea Rossi

Come da recente tradizione, l’appuntamento per gli amanti delle sonorità stoner, doom, heavy psych e dintorni è per la metà della primavera tra Londra e Berlino, le due città che – con Anversa, ma lì si parla di settembre – ospitano da ormai sette anni il carrozzone itinerante del Desertfest. Quest’anno viene inaugurata una nuova sede, nella  cornice dell’Arena Club di Treptow: un ex magazzino mastodontico, perfettamente in grado di ospitare comodamente due palchi decisamente ben allestiti e i tremila paganti, con il sopravanzo di una seconda sala collegata e occupata solo da uno sparuto numero di bancarelle, oltre a uno splendido affaccio esterno sulla Sprea e su una spiaggia privata. Osservare i coraggiosi bagnanti (o le formose bagnanti) aggiunge sicuramente costume al tutto, ma il capiente spazio esterno è soprattutto un valore aggiunto enorme dato il weekend decisamente assolato; oltretutto, è proprio all’esterno che è possibile trovare i banchetti del cibo. La varietà è discreta, si spazia dagli hamburger di bufalo ai menù vegani, sebbene nelle pause tra i concerti l’assalto al cibo e alle poche spine della birra renda francamente troppo lunga l’attesa. Ma come detto siamo solo al primo anno, quindi concediamo una promozione con beneficio di miglioramento anche alla logistica e andiamo a ripercorrere con calma tre giorni di fuzz, basettoni e lunghi momenti psicotropi.

 


VENERDÌ 4 MAGGIO

Facciamo in tempo ad ascoltare pochi minuti dell’esibizione dei VONAVIBE, tra cui una trascurabile restituzione dell’eterna (e abusata)Paint It Black” dei Rolling Stones, prima di entrare nel vivo con i PRETTY LIGHTNING. Il duo psichedelico gioca in casa, ma a parte il relativo favore determinato da ciò, quanto offerto nei quaranta minuti a loro disposizione è decisamente convincente; sulla falsariga di loro conterranei come Sula Bassana, a Christian Berghoff e Sebastian Haas bastano le ritmiche ossessive di batteria e le dilatazioni di chitarra per trasportarci su affascinanti arcobaleni acidi, in cui emergono particolarmente i brani del recente “The Rhythm Of Ooze”, opportunamente diluiti verso lunghezze spaziali. È il momento di aprire il sipario del Main Stage, curiosamente collocato lateralmente all’ingresso alla sala, e di celebrare gli orrori tutt’altro che di fantasia dei CHURCH OF MISERY. La posizione nel bill del combo giapponese risulta francamente un po’ sacrificata, dato anche il loro stato di culto, ma Tatsu Mikami e soci non mostrano di avere alcun problema a vomitare i loro brani di doom malato anche in pieno Sole (be’, almeno all’esterno). La band apre e chiude con due brani dall’ultimo album, in particolare “Make Them Die Slowly” e “Murderfreak Blues”, pescando per il resto da quasi tutta la restante discografia; non ci sono sbavature, lo scuotimento di capo al suono di ritmiche ossessive è garantito, eppure qualche limite si nota: il nuovo cantante Hiroyuki Takano si diverte e mette in campo molta energia, ma il confronto con Hideki Fukasawa, cioè il suo predecessore più iconico e psicotico, è un po’ impari. E pur con un concerto di alto livello, alla fine si ha la sensazione che i bagni di sangue siano stati evocati, a questo giro, con meno energia. I ritmi si mantengono elevati anche sotto palco, visto che la giornata odierna non prevede, per noi, pause – a parte il quarto d’ora canonico per i cambi palco. È ora il momento dei DEATH ALLEY, che reduci dalla recente pubblicazione dell’ottimo “Superbia”, sono attesi (almeno da parte di chi scrive) alla prova live… che superano alla grande. Il loro mix tra un approccio punk n’roll e accattivanti derive psichedeliche è infatti assolutamente trascinante; il cantante Douwe Trujiens sa decisamente calarsi nel ruolo di frontman sulla falsariga delle grandi band anni Settanta (a cui il look richiama parecchio), così come il tappeto di basso continuo – e figilo del miglior Lemmy – di Sander Bus ci prende per mano per tutta la durata del concerto. Ci sono momenti diretti e graffianti, altri di acidi fuzz, il tutto in equilibrio come un buon cocktail, ed è così che si arriva alla conclusiva “Headlights In The Dark”: iconico manifesto di quell’attitudine rock che, pur declinata in mille modi, con band come il quartetto olandese pare davvero destinata a non morire mai. Torniamo sul main stage per l’esibizione dei NEBULA, e potremmo quasi ricorrere a una recensione opposta a quella precedente; beninteso, il combo americano, estremamente ben rodato, non fatica a portare a casa il risultato, ma se i loro viaggi sono quasi lezioni di stoner psichedelico su disco, questa sera si limitano al compitino, per restare su metafore scolastiche. La sequenza offerta pesca da venti ricchi anni di discografia, ma già dopo il secondo brano è difficile distinguere quello che il trio propone e avere particolari scossoni. Scossoni che i MONOLORD non hanno nemmeno preventivato di offrirci: la loro proposta, su disco ricca di influenze heavy rock e di groove, si trasforma in quel del Desertfest in un monolite di quasi un’ora allucinante, pesantissimo e perverso, che se a tratti regala momenti veramente ipnotici, vede anche francamente allontanarsi dopo il primo ed estenuante brano parecchi degli astanti. La sensazione è che il trio svedese sia salito sul palco con in testa il solo modello degli Electric Wizard (del resto già riscontrabile in studio), puntando al risultato di annichilire il pubblico a colpi di overdrive e ossessività. Ribaltano del tutto l’approccio i MONSTER MAGNET, primi headliner del festival e forse l’unica band presente che nel corso dei tre giorni assurgerà a inevitabile modello per diverse delle nuove leve presenti, e ci pare già un riconoscimento non da poco. Come avevamo avuto modo di riscontrare nella breve esibizione di spalla ai Five Finger Death Punch della scorsa estate, Dave Wyndorf e soci stanno attraversando una vera e propria seconda giovinezza; gli intrecci di chitarra del veterano Caivano e di Sweeny funzionano a meraviglia nell’alternanza tra grassi fuzz e psichedelia figlia degli anni Sessanta, e come sempre la fa da padrone l’ultrasessantenne frontman. Difficile non pensare a un patto col demonio, visto che Dave regge quasi perfettamente una sequenza mirabile che parte con l’opener “Dopes To Infinity” – resa con una cupa sensualità magistrale – passa dai migliori e più trascinanti brani dell’ultimo “Mindfucker” e si chiude come d’ordinanza con i cori dell’intera Arena su “Space Lord”, purtroppo dopo appena un’ora. I cinque ritornano quindi dopo pochi minuti sul palco per un bis che non vede quasi protagonista il cantante; ci viene infatti offerta una lunghissima e dilatatissima versione di “Spine Of God”, con inserti che rimandano anche alla iconica “Tab”, che con furbizia o maestria permette loro di superare i limiti sindacali (di tempo) e di stravolgere nuovamente ogni legge (dello spazio). Si è così fatta mezzanotte e resta solo lo spuntino finale, o almeno si fa per dire; il compito di calare il sipario sul Side Stage è affidato ai WEEDEATER, e come immaginabile non si tratta proprio di una delicata ninna nanna. Il grosso dello spettacolo ruota chiaramente introno a Dixie, lo psicotico bassista e cantante (?) che squarcia le nostre orecchie zompettando come un epilettico sul palco e regalando sguardi strabici e colmi di follia, che alterna con generose sorsate di Jack Daniels. Il chitarrista Shep e T-Boogie alla batteria completano la colonna sonora di questa Apocalisse da ospedale psichiatrico con volumi assordanti, riff marci e ritmiche ossessive; resta sempre il dubbio se abbiano la più pallida idea di quale brano stiano suonando di volta in volta, ma il risultato di trasportarci negli angoli più mefitici della provincia americana e di farci andare a dormire con gli incubi è assicurato.

SABATO 5 MAGGIO
La prima esibizione a cui riusciamo ad assistere nel secondo giorno del festival, complici i postumi della giornata di viaggio e dei numerosi concerti del venerdì, è quella dei THE NECROMANCERS, combo francese dalla spiccata attitudine rock n’roll; i loro brani scorrono via piacevoli, in un mix tra ritmiche in-the-face e cupezza in stile Life Of Agony: giubbotti di pelle, basso tuonante e riff a cascata, perfetti per scaldare gli animi, insomma. La band successiva è per noi la vera, grande rivelazione del festival: gli svedesi DEAD LORD incarnano perfettamente tutto quello che di fresco e trascinante può ancora offrire questo macro-genere derivativo per natura, e tutto questo grazie all’assoluta e graffiante genuinità. Il baffuto Hakim Krim e i suoi complici suonano esattamente come una rivisitazione dei Thin Lizzy, ma ogni brano è bagnato da sudore, entusiasmo e sorrisi spacconi: il loro ultimo album titola non a caso “In Ignorance We Trust”, ed è con questa manifesta leggerezza, e ottime doti musicali, che ci conquistano appieno. Le MAIDA VALE hanno poco meno di tre quarti d’ora per dimostrare di non essere l’ennesima “band al femminile” senza valori aggiunti, e ci riescono bene; Linn Johannesson, nonostante l’approccio su palco defilato, si rivela una chitarrista in grado di sciorinare un turbine di riff ad alto contenuto psichedelico, cui la sezione ritmica dona un groove notevole, mentre la cantante Matilda Roth si rivela una vera frontman: piedi nudi, atteggiamento sciamanico e ricco di gestualità, affronta tutti i brani con energia e con tonalità cangiante. Restiamo ancora in Svezia (paese che la fa in effetti da padrone in questa edizione) con gli HORISONT, per cui si potrebbe replicare quanto detto per i connazionali Dead Lord; la loro è un’esibizione adrenalinica che ci conquista dal primo all’ultimo minuto, in equilibrio perfetto tra Uriah Heep, di nuovo Thin Lizzy e space-rock; le due asce si passano riff e assoli con la classe delle grandi coppie del rock degli anni Settanta, il bassista tiene ritta la spina dorsale della band e interagisce spesso col pubblico a colpi di sorrisi e headbanging, mentre il cantante Axel Söderberg dimostra estensione e carattere notevole. Citiamo tra i brani più trascinanti “Electrical”, nomen omen, gran bell’esempio di hard rock per il nuovo millennio. È ora il momento degli ELDER. La band statunitense ha saputo sicuramente ritagliarsi in breve un posto di rilievo nella scena, in particolare grazie al recente e splendido “Reflections Of A Floating World”, ma stasera – come purtroppo altri gruppi candidati a portabandiera del mondo heavy psych – mostrano parecchi limiti in sede live. Intendiamoci, non ci sono gravi sbavature e il concerto fila via piacevole, ma le cangianti atmosfere del loro ultimo album, a cui attingono per metà della scaletta, risultano un po’ appiattite, a favore di un impatto più quadrato e meno progressivo. Dall’opener “Sanctuary” fino alla conclusiva “The Falling Veil” fanno un po’ i Baroness della situazione: risultato garantito, senza nessun momento di particolare entusiasmo. Migliorano decisamente le cose, da questo punto di vista, con l’ingresso in scena dei LUCIFER. Guidati dalla diafana e affascinante Johanna, accompagnata ormai ufficialmente anche sul palco dal fidanzato Nicke Andersson (noto membro storico degli Entombed), i tedeschi si propongono come reincarnazione opportunamente riveduta e corretta dei Coven, altra band che aveva in una carismatica frontman il proprio punto di forza. I loro brani sono salmi doom con la giusta spruzzata retrò-rock; risulta un po’ forzata e superflua la presenza di ben tre chitarre, ma del resto il chitarrista Martin Nordin era stato forzatamente rimpiazzato per questo tour, ed è presente stasera perché in tour anche coi suoi Dead Lord. È pur vero che non ci attendevamo gli scambi di assoli degli Iron Maiden e  il pubblico è più che soddisfatto – non solo a livello ormonale. Assurti a un successo dalla crescita quasi esponenziale come poche band in poco più di dieci anni, i GRAVEYARD meritano sicuramente la palma di headliner in termini di seguito, ma purtroppo continuano a convincere poco dal vivo. Dal punto di vista della resa sonora e della compattezza c’è poco da dire, e questa sera il cantante e chitarrista Joakin Nilsson sembra, se non altro, più presente del solito; eppure i brani proposti, va detto numerosi e con pochissime pause, scivolano via come uno stanco greatest hits, e francamente non è la prima volta che ci lasciano con l’amaro in bocca. Sarà magari complice un po’ di stanchezza e di ripetizione nella proposta musicale? Può essere. Ma se in più occasioni nel corso del festival ci è occorsa la sensazione di band-cloni di modelli già sentiti, con l’arrivo sul palco degli YURI GAGARIN, nonostante sia quasi mezzanotte e mezza, ci troviamo di fronte a una paradossale ventata di freschezza; il modello degli svedesi è quello degli Hawkwind fatto e finito, eppure lo straordinario impatto lisergico del quintetto, sommato a una declinazione decisamente più metallica, fa sì che fosse difficile augurarsi un miglior conclusione per la giornata odierna. Le due chitarre dipingono melodie space veramente accattivanti, sorrette ottimamente dalle cavalcate della sezione ritmica, mentre Robin Klockerman, responsabile dei deliri sul sintetizzatore, aggiunge un tocco veramente trascinante, in una rivisitazione più elettrica non solo della mitica band londinese ma anche degli Ozric Tentacles più sfrenati. Quattro brani esclusivamente strumentali attraverso le galassie della dopamina, sufficienti per essere conquistati e dirigerci a casa soddisfatti.

DOMENICA 6 MAGGIO
Nell’ultima e assolata (coerentemente al clima musicale) giornata del Desertfest, l’arrivo all’Arena Club si sposta ancora più avanti nel pomeriggio, e arriviamo giusto in tempo per una birra di carburazione e per prendere posto sotto il palco dei CHURCH OF THE COSMIC SKULL. La curiosità è tanta per una band che si è finora esibita solo una manciata di volte, e di cui abbiamo potuto sentire ottime cose in studio. I sette membri della band si presentano sul palco completamente vestiti di bianco, la formazione vede on stage un violoncellista, un tastierista e ben due coriste oltre agli strumenti canonici del rock, ma nulla appare fuori luogo per la loro pacchiana – in senso buono – proposta; fin dall’iniziale “Mountain Heart”, anche opener del loro album di esordio, veniamo infatti trascinati in un mondo che è quello di Hair e del pomp rock anni Sessanta, con tanto di attitudine hippy, particolarmente evidente nell’approccio di Caroline Cawley e Jo Joyce, perfette ancelle dell’Era dell’Acquario. Qualche momento di stanca c’è, specie se si ritiene che i kolossal musicali abbiano fatto il loro tempo, ma le good vibrations si sentono, eccome: Peace & Love, ecco la sintesi di questo concerto. Pochi minuti dopo, sul palco secondario si cambia completamente registro; se l’esibizione dei Monolord di venerdì, come detto, era stata all’insegna del netto prevalere della MONOtonia, i loro quasi omonimi DOPELORD riescono a superare brillantemente l’esame di band più piatta del festival. Il quartetto polacco offre un poker di brani dilatati e grassi, in equilibrio tra una sezione ritmica a cui manca solo l’odore del diesel e fuzz continui, ma bastano effettivamente pochi minuti per rimpiangere i loro evidenti modelli Electric Wizard o Belzebong; grazie ai retroscena offerti dal dietro le quinte, resta la curiosità se siano avviati a un successo clamoroso o se il pubblico tedesco, effettivamente piuttosto caloroso durante la loro esibizione, li abbia già in palmo di mano, visto che durante una breve sosta di relax nell’Area Stampa abbiamo assistito a ben tre interviste, anche in video, per Grzegorz e soci. Cantante, sacerdotessa, improbabile ma affascinante sex symbol: questo e molto altro è JEX THOTH, la cui esibizione resta a parere di chi vi scrive un punto di domanda. Decisamente conturbante su disco, e sicuramente interessante anche in sede live, sul palco tuttavia la cantante americana non riesce a sfondare né il muro del salto nel tempo nei momenti più hard rock, né quelli del puro rituale occulto; nonostante candele, palo santo acceso per l’intera durata del concerto e luci soffuse: impossibile vederla in volto anche solo per un minuto. La sensazione complessiva è quella di una sorta di Nick Cave in gonnella, sostenuta anche in questo caso da una band eccellente (su cui si staglia la tastierista, bravissima nel tessere piccole ma distinguibili trame) ma edulcorata nella dimensione oscura, proprio come nel caso del crooner australiano. Tocca ora a una delle band più attese dell’intera kermesse, ossia gli EYEHATEGOD. Orfani in questa parte del tour del chitarrista Brian Patton, rimasto a casa in attesa della nascita del secondo figlio, i quattro rimanenti paladini dello sludge hanno però un’inattesa carta in più: il redivivo Mike Williams, reduce dal successo del trapianto di fegato avvenuto lo scorso anno e stasera in forma smagliante, sia in termini di umore che di voce. In questa carrellata di brani che ripercorre l’intera loro carriera per celebrare i trent’anni di attività, il tormentato cantante interpreta molto di più del canonico ruolo di suicida barcollante, anche se per certi versi il minor tasso di sofferenza che traspare gioca un po’ a sfavore della resa “teatrale” complessiva. Ma ringraziamo che Mike riesca finalmente a reggersi in piedi, e ben venga che segua il sardonico approccio di un sempre più pingue Jimmy Bower, straordinario nel regalare colate laviche di riff marci con naturalezza e la sigaretta quasi sempre tra le labbra. La tradizione del power trio rock ha radici ben lontane, e come sempre il pensiero, quando salgono sul palco Parker Giggs e i suoi RADIO MOSCOW, va al signor Jimi Hendrix. Di fondo, il bassista e il batterista non fanno che accompagnare con ottime ritmiche d’antan le straordinarie evoluzioni sulla sei corde e la voce, insieme calda e abrasiva, di Parker; tra blues, psichedelia e robusto hard rock, che stasera – oltre alla naturale godibilità – fungono da perfetto colluttorio tra la band precedente e la nuova botta di violenza che ci aspetta a breve. Petto nudo, tatuaggi da galeotto ben in vista, pancia prominente su cui poggia trionfale la sua Les Paul: Matt Pike e i suoi HIGH ON FIRE sono saliti sul palco e praticamente tutto il pubblico è presente in ieratica attesa. La band di Oakland apre con la strumentale “Sons Of Thunder”, sorta di delicato aperitivo, per poi fare subito sul serio con la doppietta “Black Pot” e “Carcosa”; i trascinanti brani di apertura dell’ultimo “Luminiferous” sono ormai cavalli di battaglia consolidati, e non a caso: una badilata in faccia la prima, un feroce mid-tempo sui generis la seconda, riassumono perfettamente il sound della band e il loro programma, ossia non si fanno prigionieri. Metà del concerto è basato sugli ultimi due album, non ci sono anticipazioni del nuovo lavoro (previsto per l’autunno), ma la  scaletta potrebbe prevedere anche solo cover di Johnny Cash e il risultato non cambierebbe; Matt e il fedele bassista Jeff Matz sciorinano riff, linee pulsanti e urla a dovere, ma come sempre è il lavoro dietro le pelli di Des Kensel a trasformare ogni esibizione degli High On Fire in un’irresistibile ordalia. Dopo tre giorni e una trentina di concerti, complice la momentanea sordità donata dal trio, decidiamo di rinunciare all’esibizione finale, che vede una band locale sul palco secondario; il nostro Desertfest è finito con ben poche critiche da muovere, convinti anzi che l’anno prossimo i piccoli problemi organizzativi citati in apertura verranno colmati. Auf wiedersehen, Berlin!

 

HIGH ON FIRE

RADIO MOSCOW

EYEHATEGOD

JEX THOTH

CHURCH OF THE COSMIC SKULL

YURI GAGARIN

GRAVEYARD

LUCIFER

ELDER

HORISONT

MAIDA VALE

DEAD LORD

WEEDEATER

MONSTER MAGNET

MONOLORD