Report a cura di Simone Vavalà
Fotografie di Andrea Rossi
Per il secondo anno consecutivo viene confermata, per il Desertfest, la location dell’Arena Berlin, l’enorme spazio ex industriale affacciato sulla Sprea e a breve distanza dall’iconica scultura del Molecule Man. Sono stati comunque apportati dei cambiamenti rispetto all’anno passato: innanzitutto la riduzione a un solo palco interno, di fronte a una sala enorme da circa quattromila posti, con un impianto audio e luci possente; i cambi su di esso, in assenza del secondo stage come 365 giorni fa, verranno garantiti comunque senza particolari ritardi, mentre il secondo palco va ad assumere un carattere completamente a sé stante: si tratta infatti di una nave ormeggiata sul fiume, di fronte al locale, per cui le esibizioni previste sul ponte possono essere seguite sia dalla nave stessa (nei limiti dello spazio disponibile) che dall’area esterna dell’Arena, dando così spazio a una sorta di piccolo open air. Anche se purtroppo, come vedremo nel seguito, i settaggi di una soluzione così affascinante e insieme dispersiva andranno decisamente rivisti. Confermati i banchetti per il cibo prevalentemente esterni (non numerosissimi) e il grande spazio, rispetto alla risicata presenza dell’anno scorso, riservato all’area merch. Qualcosa, insomma, può essere ancora migliorato, ma è evidente come l’organizzazione non sia rimasta con le mani in mano e punti a offrire un happening sempre più di qualità; una qualità che, sulla carta, risulta un po’ meno spumeggiante dal punto di vista musicale, sebbene diverse belle scoperte tra presunte band ‘minori’ confermeranno, alla fine di questa kermesse, la validità della selezione.
Chiudiamo con un ringraziamento speciale a Mona Miluski, che nonostante i numerosi impegni legati all’organizzazione del festival – e al fatto di dover volare il secondo giorno a Londra per esibirsi con la sua band al Desertfest di Londra – ci ha come sempre accolti con amicizia e assoluta gentilezza.
VENERDÌ 3 MAGGIO
L’apertura del festival è di tutto rispetto, affidata ai THE DEVIL AND THE ALMIGHTY BLUES. I norvegesi hanno oggettivamente in mano gli assi per dare il via alle danze nel migliore dei modi, grazie al loro stoner rock ad alto contenuto di adrenalina e spruzzate di blues; la formula non è certo originale, il frontman, quando non è impegnato in pose ieratiche a osservare i brevi e graffianti assoli della band, scimmiotta forse un po’ troppo spesso nelle movenze e nell’interpretazione John Garcia, ma il risultato è trascinante e divertente. Analoghe considerazioni complessive valgono per i MONDO GENERATOR a seguire; molto più grezzo e dall’attitudine fieramente punk dietro la (leggera) corteccia di fuzz e acidità, il quartetto ha ovviamente il suo punto di forza nel carismatico Nick Oliveri, che senza rimpianti evidenti porta avanti la sua creatura con forza e indefessa voglia di spaccare. Gli anni dorati dei QOTSA sono lontanissimi, ma l’energia c’è, eccome… almeno oggi, come vedremo nel seguito del report. Abbandoniamo a metà l’esibizione per assistere a quella di WINO nell’insolita location della nave, ma è evidente come sia lo stato di forma del cantante del Maryland, sia soprattutto i settaggi del palco siano da rivedere; Scott ‘Wino’ Weinrich ce la mette tutta, a dire il vero, ma la sua proposta intimista, per di più suonata a un volume da rosario pentecostale, non riesce proprio a decollare. Per la cronaca tecnica, abbiamo anche provato ad assistere per qualche minuto direttamente dal ponte della nave stessa, ma a migliorare era solo la visibilità; l’unica nota positiva è stata la possibilità di scambiare due chiacchiere con ‘Wino’ stesso, che ha confermato la sua presenza in formazione per l’imminente tour europeo dei suoi The Obsessed. Rientriamo quindi con anticipo nella sala principale, curiosi di assistere allo spettacolo dei MONKEY 3, e davvero di spettacolo si tratta; gli svizzeri, freschi della pubblicazione dell’ottimo “Sphere”, offrono quasi un’ora di straordinaria psichedelia figlia spuria dei Pink Floyd, in cui la chitarra di Boris guida con maestria gli ipnotici intrecci della band, perfettamente supportata dalle trame di tastiera e da una sezione ritmica impeccabile. Le suite proposte sono avvolgenti e lunghe, eppure mai stancanti, in grado di trasportare il pubblico verso lidi lisergici. Al momento dell’esibizione era solo un’ipotesi, ma si confermeranno come lo show più emozionante della tre giorni a mani basse. È poi il momento degli EARTHLESS, band che viene accolta con entusiasmo dal pubblico tedesco, forse grazie alla forte componente di derive krautrock presente nella loro musica; francamente, a noi confermano la sensazione avuta in passato, cioè quella di ottimi musicisti che però in sede live si sbrodolano troppo addosso, al punto che al secondo assolo dal minutaggio esasperato in soli due pezzi preferiamo approfittarne per mangiare; o forse, semplicemente, proporre caleidoscopi complessi e maestosi dopo l’esibizione dei MONKEY 3 è risultato ridondante. Di tutt’altra pasta lo show dei WITCH. La band, che vede dietro le pelli J Mascis dei Dinosaur Jr, torna in tour dopo parecchi anni dalla pubblicazione dell’ultimo lavoro, uno stoner rock sporcato dalle influenze alternative del batterista stesso e dei suoi compagni d’avventura, e che si conferma graffiante e accattivante anche in sede live; sebbene la sensazione che il loro sound sia un po’ fuori tempo massimo faccia decisamente capolino. L’ultimo lavoro degli ALL THEM WITCHES ha diviso, se non decisamente allontanato, i loro fan di vecchia data, ma francamente rivedendoli oggi, con il loro aggiornato mix di blues rock e influenze anni Settanta, ci sono parsi più interessanti rispetto al passato; i loro primi abbozzi heavy psych restavano infatti un po’ troppo sedati dietro la prevalente componente stoner (anche parecchio già sentita), mentre l’attuale riscoperta di armonie vocali e riff più aperti, per quanto derivativa, è molto coinvolgente in sede live. Un’inaspettata sorpresa e meritato slot da headliner. La chiusura della serata è invece affidata ai COLOUR HAZE: i tedeschi sono un po’ troppo elaborati e pachidermici per i nostri gusti, e ci pare che alla perizia tecnica mostrata sul palco non corrisponda altrettanto cuore; generosità invece sì, dato che abbandoniamo il locale secondo i tempi prestabiliti dal bill, scoprendo l’indomani che i loro bis sono proseguiti fino quasi alle due di notte, con il pubblico in delirio (in ogni senso, immaginiamo).
SABATO 4 MAGGIO
Il secondo giorno del Desertfest è sulla carta il più debole, quindi ci rechiamo all’Arena con l’idea di essere smentiti e fare piacevoli scoperte, come in effetti avviene fin dalla prima band. Abbiamo sempre ascoltato i MIRROR QUEEN distrattamente, ma va riscontrato come i quattro newyorchesi dal vivo abbiano una marcia in più rispetto al disco. Con echi dei Blue Oyster Cult più diretti e un approccio scanzonato, caricano decisamente il pubblico coi loro brani diretti ed energici. I ritmi restano alti con i R.I.P., che si guadagnano una medaglia al valore immediata; collocati sul secondo palco, mettono subito in luce il miglioramento rispetto alla prima giornata dell’impianto esterno, ma soprattutto mettono in scena uno spettacolo divertentissimo, in cui oltre alle facce e alle pose buffe del cantante Fuzz (che si esibisce con una coreografica falce da Morte in mano) emergono brani compatti e pesanti, eppure coinvolgenti: doom rock con una spiccata vena di follia sulla scia dei Pentagram, di gran qualità. Galvanizzati dalla resa sonora della Boat, rinunciamo a vedere le Lucidvox (concerto non memorabile, da quanto colto nel seguito) e restiamo all’esterno per i ZIG ZAGS: la band californiana, fresca di pubblicazione del terzo full length, mantiene la sua freschezza punk pur avendo trasformato la proposta musicale in un thrash metal primevo, che ricorda molto negli arrangiamenti gli Exodus o i Metallica di “Kill’Em All”. Con queste premesse, la giusta furia sul palco e la bella cornice del fiume, i Nostri ci offrono circa quaranta minuti di show da birra in una mano e corna al cielo, un’ottima variazione rispetto ai ritmi psicotropi medi del Festival. Tornati all’interno dell’Arena ci aspetta un’altra band che punta più sul tiro che sul dipingere paesaggi dilatati, ossia gli svedesi HÄLLAS. Figli spuri degli Uriah Heep, sanno coniugare al meglio il dinamismo della sezione ritmica e atmosfere più rarefatte, a tratti dotate di un certo gusto fantasy – proprio come la band di Mick Box. Un salto nel tempo efficace, che continua, seppur su altre coordinate, con THE SHRINE; una band che non necessita più di presentazioni e che ci dona tre quarti d’ora di esplosioni primitive (per citare il loro ultimo lavoro) che traggono ispirazione dai riff rallentati di Tony Iommi, dal basso pulsante di Phil Lynott (ottimo, a tal proposito, l’ingresso in formazione di Corey Parks, carismatica ex bassista dei Nashville Pussy) e dalla rabbia espressiva dei Black Flag: punk hard rock ad alto tasso di adrenalina e menefreghismo, e va bene così. Con i NAXATRAS e il loro mix tra rock ribassato e psychedelic-prog torna una formula già vista in queste ultime ore, proposta senza lode né infamia; i loro vocalizzi à la Hawkwind funzionano abbastanza su disco, ma dal vivo diventano impalpabili e quasi indistinguibili dalle derive strumentali guidate dal funambolico chitarrista; e anche nel suo caso, quella che è fine perizia nella produzione in studio si trasfigura un po’ in leziosità, finendo per segnare presto il passo in direzione della sonnolenza. Sacrifichiamo l’esibizione dei Greenleaf sull’altare dell’ora di cena e per portarci all’esterno per il concerto solista di NICK OLIVERI; ma se la prima è una necessità e ci rassegniamo a perdere mezz’ora, bastano dieci minuti di esibizione del nerboruto bassista per fuggire: suonare praticamente al buio e senza amplificazione è un’idea a metà strada tra la performance e il centro sociale e passi che l’alcol in corpo rende tutti più allegri, ma sentire a malapena Nick gridare e pestare le corde di una chitarra acustica mentre stupra “Green Machine” dei Kyuss ci è bastato. Peccato, ma bene così, almeno abbiamo potuto sentire i giapponesi KIKAGAKU MOYO, nome che tradotto significa ‘motivo geometrico’; e volendo rafforzare il concetto, potremmo dire che quelli messi in scena dal collettivo giapponese sono dei mandala sonori fatti apposta per deliziare le orecchie. La loro proposta è pura psichedelia prog d’antan con punte di folk e vaghe reminescenze di world music, ma non temete: dietro i loro viaggi si nota molto più l’ombra dei Popol Vuh che delle follie di Peter Gabriel, e quando i sussurri delicati di Go Kurasawa si fondono alle fughe allucinogene, ci si può solo lasciar cullare. Piccola nota di costume: appena prima della loro esibizione, tutti i membri della band erano presenti allo spazio karaoke allestito nella giornata odierna all’esterno dell’Arena; una passione a cui il popolo giapponese non sa proprio sottrarsi, evidentemente. I paladini dello stoner rock FU MANCHU sono chiamati ad accompagnarci a nanna e fanno del loro meglio per onorare una storia ormai trentennale. L’avvio è adrenalinico, con una sequenza che vede tra i primi brani “Squash That Fly”, “Evil Eye” e “Hell On Wheels”, così come il ripescaggio di classiconi come “Boogie Van” o “King Of The Road” impedirebbe di stare fermi anche a dei paralitici; purtroppo, e lo diciamo da fan di vecchia data, se dal punto di vista della resa complessiva la band si conferma una perfetta macchina live, al tempo stesso lo smalto di un tempo si sta scalfendo parecchio, sia per l’evidente divario tra i pezzi storici e quelli più recenti, sia dal punto di vista della resa vocale di Scott Hill. “Summer’s Gone”, chioserebbero i Beach Boys, e ormai i Fu Manchu danno il loro meglio quando evocano cromature e onde di un tempo che fu.
DOMENICA 5 MAGGIO
La stanchezza inizia a segnare gli avventori del festival, e non siamo gli unici a saltare l’esibizione della prima band della giornata per cercare di reggere fino a notte, come testimoniato dallo sparuto pubblico presente per le STONEFIELD. Le quattro sorelle australiane si presentano con altrettanti, agghiaccianti completi fuori tempo massimo, ma è per fortuna la musica a farla da padrone, e da questo punto di vista la promozione è totale. Va detto che le due sorelle al basso e alle tastiere danno un po’ l’impressione di essere state costrette alla carriera musicale, ma forse è colpa dell’ingrato confronto con le altre due: Hannah sciorina infatti riff con maestria e maturità, e non guastano le pose seventies con cui accompagna lo show, mentre Amy, dietro un’aria dolcissima, pesta come un’ossessa alla batteria e canta con altrettanta foga, senza perdere quasi mai la sua intonazione suadente, eppure rock fino al midollo. E dopo una ventata di novità, è tempo di farsi spaccare i denti con quella che è di gran lunga la band più violenta e ignorante della tre giorni di quest’anno, ossia i BLACK TUSK. Il passaggio alla formazione a quattro ha reso la band di Savannah ancora più potente dal vivo, e peraltro i brani del loro ultimo lavoro “T.C.B.T.”, che parevano a tratti troppo ruffiani, rendono alla grande; al solito, la sezione ritmica è una centrifuga assordante, mentre Andrew Fidler, ben coadiuvato nel versare colate laviche di chitarre dal neofita Chris Adams, ci scartavetra i timpani con il suo cantato, retaggio evidente del passato crust. Un ottima lezione di sludge nella sua forma più diretta e apprezzabile, insomma. Anticipati di qualche ora rispetto alla tabella di marcia, i THE GREAT MACHINE salgono sul ponte della nave, confermando l’attitudine in the face vista prevalentemente ieri sul palco secondario; grezzi, spesso fuori tempo, vestiti a metà tra una parodia degli hipster e giostrai a un matrimonio, i tre israeliani sono talmente nichilisti e sfasati da risultare complessivamente divertenti. Rispetto alla proposta musicale che nemmeno individuiamo chiaramente, trionfa la sfrontatezza e il cattivo gusto, ma va bene così. Di tutt’altra pasta l’esibizione degli ELECTRIC CITIZEN, così come la presenza scenica della loro leader. Laura Dolan non ha certo dalla sua l’aspetto di una pin up, ma è carismatica e si muove sinuosa sul palco, nell’accompagnare la sua band lungo derive settantiane guidate da ottimi riff e dall’innesto di una tastiera che aumenta la dose di psichedelia offerta. Passa quasi in sordina, sia per l’orario che per l’accoglienza freddina del pubblico, il concerto dei THE SKULL, a nostro parere invece tra i più riusciti dell’intero Desertfest; Eric Wagner e soci hanno saputo ridare vita alle oscure pregrinazioni dei Trouble, e mostrano anche di sapersi emancipare dall’aura di ‘tribute band’. A parte un ripescaggio finale (“At The End Of My Daze”), offerto a gran richiesta, tutti i brani proposti provengono dai loro due album di inediti; la sezione ritmica gode di nuova linfa grazie all’ingresso dell’ex-Cathedral Brian Dixon, mentre gli intrecci delle chitarre ci riportano agli anni magici del metal classico. Su tutto trionfa poi la presenza scenica del già citato Wagner, che sebbene appesantito e pronto a correre a fumare e a bere acqua in ogni pausa, sa sempre raccontarci egregiamente la sofferenza umana. Durante il concerto dei LONG DISTANCE CALLING sentiamo accostare a loro definizioni che vanno dal post-rock allo shoegaze, passando per l’avant-garde e il prog rock; forse l’ultima è quella che ci trova più d’accordo, senza troppe elucubrazioni e quale dovuto riconoscimento delle loro radici ben ancorate nel tempo che fu. Perfetti, insomma, per i collezionisti di vinili (da conservare rigorosamente incellophanati) con risvoltino, ma dopo un paio di brani la loro proposta strumentale risulta davvero ripetitiva e già sentita. È questo, di fondo, l’unico difetto di un festival genre-oriented come questo, ed ecco perché aspettavamo con impazienza i WOVENHAND. Purtroppo David Eugene Edwards opta per una scaletta tutt’altro che trascinante e la ventata di aria fresca non si realizza: il primo brano, complice una sorta di jam iniziale in cui il chitarrista sembra anche indispettirsi con il suo batterista, è una valanga di un quarto d’ora più prossima agli Swans che alle cadenze folk-crooner canoniche della band, e anche nel seguito i pezzi vengono resi ancora più cupi e diluiti di quanto non siano su disco. Un concerto a tratti emozionante ma discontinuo, che non trova un equilibrio tra perseguire appieno le dilatazioni psichedeliche proprie del Desertfest e discostarsi nettamente, purtroppo. Evocativi, mistici, lisergici: potremmo elencare ogni possibile sinonimo afferente a questo tipo di aggettivi per descrivere gli OM, e ancora non basterebbe. Erano passati anni dall’ultima occasione in cui avevamo assistito a una loro esibizione, e di acqua ne è passata sotto i ponti: intanto due album di peso come “God Is Good” e “Advaitic Songs”, su cui non a caso si concentra il set di Berlino, poi l’ingresso in pianta stabile in formazione di un chitarrista e di un tastierista, che aumentano notevolmente la resa emotiva del loro sound. Al Cisneros passa buona parte del set immerso in nuvole di fumo ed esposto a luci fredde, due effetti che aumentano la sensazione di assistere a un rito religioso, e i coraggiosi che restano in sala fino alla fine, ormai mesmerizzati e distrutti, ricevono un’atipica benedizione dalla sua voce profonda e atonale. Se il primo quarto d’ora è stato francamente impegnativo, nel seguito lasciarsi trasportare per quasi due ore (o dieci, chissà?) è stato naturale e strepitoso. Anche senza aiuti psicotropi.