09-10/05/2025 - DESERTFEST OSLO 2025 @ Rockefeller - John Dee - Oslo (Norvegia)

Pubblicato il 05/06/2025 da

Report di Enrico Ivaldi
Foto di Nicolas Cancino dalla pagina Facebook del Desertfest Oslo

Per gli amanti di generi come stoner, doom e simili, il Desertfest è da sempre un appuntamento obbligatorio.
Nato in Inghilterra e giunto alla sua dodicesima edizione, il concept ha visto espandersi anche in altre città quali, Berlino, New York, Antwerp e Oslo. La capitale norvegese, che ha ospitato il festival per la prima volta nel 2024 con un ottimo responso di pubblico (anche e soprattutto grazie alla grande popolarità di questi generi in terra scandinava), vede ritornare l’evento anche quest’anno, con una line-up ancora più ampliata e comprendente, oltre ai nostri Messa, nomi di caratura mondiale come Chat Pile, Graveyard, Elder, Pallbearer e Eagle Twin.
La formula ricalca quasi completamente quella dell’Inferno Festival, col quale condivide venue e aspetti logistici: due palchi, quello del Rockefeller e quello del John Dee al piano inferiore, più i due palchi del Revolver, locale a due passi dalla sede principale per le band minori.
Oltre ai soliti stand per il merch, troviamo quelli di tatuatori, artisti, bancarelle di dischi e anche vestiti vintage, giusto per non perdere mai di vista il tema ‘desertico’ di questa due giorni.
Sebbene non ci si possa aspettare un numero di persone paragonabile a quello dell’Inferno Fest di tre settimane prima, l’affluenza è decisamente buona con la sala del Rockefeller, riempita completamente per nomi come Chat Pile, Graveyard e Elder.
In linea con i festival nordeuropei, poi, gli organizzatori hanno cercato di non limitarsi ai soli generi come doom e stoner, espandendo il tutto verso altri come il rock psichedelico dei francesi Slift e il black metal sperimentale di Agriculture e Oranssi Pazuzu.
Un weekend fatto di suoni pesanti, che ben accompagnano il caldo quasi estivo di questo maggio, in attesa dei grandi festival all’aperto.
Lasciatosi da parte il freddo e le atmosfere gelide del black metal, il Rockefeller è ora pronto a scaldarsi a suon di fuzz e viaggi psichedelici.
Ecco come è andata.

VENERDI 9 MAGGIO

Ad aprire le danze sono gli scozzesi DVNE, molto attesi da chi scrive soprattutto alla luce dell’ultimo, meraviglioso “Voidking”, uno dei migliori lavori dello scorso anno.
Il loro è un metal che prende a piene mani dal suono dei Mastodon ma con un’eleganza estremamente originale, figlia di un suono meno legato al rock’n’roll blues americano quanto piuttosto alla scena progressive inglese. A dire il vero, la scelta di piazzarli come band di apertura, in un orario non proprio amichevole (sono le quattro e mezza) stride un po’ con il loro status attuale di band non proprio emergente, ma il numero di presenti già nel primo pomeriggio è decisamente grande e il John Dee risulta già pieno.
Si inizia subito con il combo “Summa Blasphemia” e la stupenda “Eleonora”, seguita da “Sarmatæ” e “Plērōma”, tutte da “Voidking” rese in maniera impeccabile, con il gruppo che riesce a riproporne ogni dettaglio senza rinunciare ad un’aggressività e una ruvidezza che rende la loro musica viscerale ed emozionale. Si ha il tempo di tornare indietro a “Etemen Ænka” con una grandiosa “Omega Severer” ma è chiaro come il focus sia tutto sul disco più recente, dal quale “Cobalt Sun Necropolis” avrà il compito di chiudere il concerto. Una delle poche band nate dall’universo musicale dei Mastodon che è riuscita a mantenere una personalità e una qualità artistica altissima, i Dvne non deludono dal vivo, risultando come una delle presenze migliori di questo weekend.

Si sale verso il palco principale quando le prime note dei PALLBEARER risuonano nella sala del Rockefeller, riempendo immediatamente l’aria del suono denso e funereo del loro doom metal classico, che flirta con atmosfere più rilassate ed emotive.
Con brani lunghi, spesso sopra i dieci minuti di durata, la scaletta sarà semplice ed efficace con un brano per ognuno degli album, scelta che mette in luce l’evoluzione della loro musica. “Silver Wings” è un lungo e pesante viaggio in un doom dai colori mai troppo grigi ma che mantiene una fisicità notevole, mentre il mood si incupisce quando si torna indietro a “Devoid Of Redemption” dal debutto “Sorrow And Extinction”. “Thorns” coi suoi ‘soli’ cinque minuti è il momento più diretto, subito prima della lunga “Endless Place” e della conclusiva “Worlds Apart” dal meraviglioso “Foundations Of Burden”, un monolite carico di tensione che conclude un concerto veramente emozionante ed intenso.
Un’ennesima dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, di quando i Pallbearer siano uno dei nomi più importanti del suono doom moderno.

Il mood si fa meno opprimente con i LOWRIDER che, con il loro rock stoner dalle forti connotazioni desertiche, scalda l’atmosfera. Con soli due album alle spalle ma una carriera di assoluto rispetto, gli svedesi ricevono il totale responso positivo dei presenti, a suon di brani pesanti, carichi di fuzz e tastiere hammond sorretti da un groove di tutto rispetto.
Dalla Svezia ci spostiamo in Norvegia con gli ÅRABROT, da sempre una realtá di culto in terra natia, che con gli anni è riuscita a guadagnarsi notorietà fuori da confini, grazie ad un’evoluzione che li ha visti passare da un suono noise rock figlio degli anni Novanta ad un originalissimo mix di avanguardia e atmosfere gotiche.
La bravura di Kjetil Nernes e soci dal vivo è fuori discussione e questa sera non fa eccezione, con la band che utilizza l’ora a propria disposizione nel migliore dei modi, con uno show disturbante, teatrale e incredibilmente pesante.
La morbosità degli Swans, filtrata attraverso un grosso supporto di synth e brani diretti che trasformano idee post-punk in un Grand Guignol di distorsioni e percussioni, risultando in un gran mal di testa per i presenti. “We Want Blood”, “Cathedral Light” e “Carnival Of Love” i momenti più esaltanti ed un sound che Nernes e Karin Park (sua compagna anche nella vita) hanno costruito nel corso degli anni in maniera chirurgica.
Muri di amplificatori, synth analogici e una batteria bastano e avanzano per far scuotere le mura del Rockefeller, tra gli appplausi del pubblico.

Dopo i Ponte del Diavolo, ospiti dell’Inferno Festival, tocca oggi ai nostri MESSA esordire sullo stesso palco in quel di Oslo.
La band veneta vive, ora più che mai, un periodo di grande ascesa e i responsi positivi del nuovissimo “The Spin” non fanno che aumentare l’hype per la loro esibizione qua al Desertfest.
Un John Dee completamente pieno li accoglie in maniera calorosa e mentre risuonano le prime note di “Void Meridian” si capisce subito che l’evoluzione del loro suono su lidi più post-punk rende perfettamente anche in sede live. Un suono denso e pesante, ma elegante e vestito di un’atmosfera languida e notturna, è perfettamente in grado di essere piuttosto intenso senza mai risultare troppo aggressivo, grazie anche alla bravura di Sara che con la sua voce delicata ma potente rende alla perfezione brani per nulla semplici.
“At Races”, “The Dress” e “Fire On The Roof” continuano la strada del nuovo materiale mentre spetta a “Rubedo” e ad una splendida “Leah” a fare da ponte con il passato, per un’ora di grande intensità che ipnotizza tutti i presenti.
I Messa non hanno più bisogno di conferme, sono attualmente una delle band più importanti della scena italiana e continuano a dimostrarlo ogni giorno. Teniamoceli stretti.

Altro giro e altra corsa per un’altra band storica della scena desert rock svedese: i TRUCKFIGHTERS.
Nonostante non pubblichino un disco da quasi dieci anni, il trio continua a suonare dal vivo in maniera più o meno costante, e la solida esibizione di questa sera ne è la prova.
Muri di fuzz, un’attitudine scanzonata che diverte e intrattiene e un rock sulla scia di nomi storici come Fu Manchu e Kyuss sono gli ingredienti per un’ora abbondante, che passa in fretta con il groove di brani come “Deser Cruiser”, “Manhattan Project”  dal grandioso debutto “Gravity X” , “Monte Gargano” e “Atomic” a scaldare i presenti. Una band con tanta esperienza e pochi fronzoli, che dimostra tutti i quasi vent’anni di carriera.
Abbiamo il tempo di vedere la fine di quello che ci sembra un ottimo set degli ELEPHANT TREE e il loro rock psichedelico a metà tra il doom, lo stoner e gli anni Sessanta più acidi, prima di prender posto per i GRAVEYARD la band di chiusura di questa prima giornata.
Il loro stretto legame con i connazionali Witchcraft è decisamente evidente anche in sede live, sebbene quello dei Graveyard sia un hard rock di matrice più classica e meno occulta rispetto al gruppo di Magnus Pelander, cosa che li rendende più diretti e viscerali.
Brani come “Hisingen Blues”, “Uncomfortably Numb” e “Cold Love” portano le influenze blues su lidi più fangosi, mantenendo quell’approccio vintage che manca a molte band della stessa scena.
Un concerto forse un po’ troppo lineare e privo di sorprese, ma che soddisfa i numerosi presenti accorsi dalla vicina Svezia per supportarli.

SABATO 10 MAGGIO
Decisamente più varia la line up della giornata del sabato, con un interessante mix di generi più vari ma che funzionano alla perfezione nel mood generale del festival.
Sono proprio gli AGRICULTURE, la prima band in cartellone, a rappresentare forse lo stacco più grande dal concept generale, con il loro black metal obliquo e schizofrenico.
Con un’immagine che è totalmente agli antipodi del genere, gli americani tirano fuori un concerto fenomenale, per intensità violenza ed emotività.
Grazie ad un suono che mescola il meglio del post-black metal made in Usa, dai Weakling, passando per Deafheaven e Liturgy, a pesanti influenze bucoliche tipiche della musica indie-folk e della corrente ‘freak folk’ di Akron Family, Animal Collective e Devendra Banhart, i quattro creano un multiverso musicale a cui non è facilissimo approcciarsi, ma una volta superato questo scoglio non si può non rimanerne affascinati.
La musica degli Agriculture si muove su binari differenti da quelli dei conterranei Panopticon, sebbene teoricamente accostabile ad essi, lasciando del tutto da parte le tematiche e le influenze puramente folk in favore di un qualcosa più vicino alla psichedelia.
Le lunghe “The Glory Of The Ocean” e “Living Is Easy” lasciano spazio a i delicati momenti acustici di “Being Eaten By A Tiger” e “The Well”, prima di collassare nella furia senza controllo di “Relier” e “Look Pt. 1” in un vortice asfissiante di blast-beat isterici e muri di chitarre taglienti figlie dei migliori Liturgy.
La grande sorpresa di questo Deserfest saranno senza dubbio loro e, a prescindere da un genere non proprio accessibile, la maggior parte dei presenti escono dal John De visibilmente soddisfatti (e in parte confusi).


Si cambia completamente registro con i francesi SLIFT e il loro space rock suonato a volumi altissimi e pieno di synth e suoni vintage. Un lungo viaggio lisergico che abbraccia lidi progressive, momenti kraut e parti improvvisate.
Chitarre cariche di fuzz e voci ultraeffettate lanciano i presenti in orbita con brani lunghi e a volte non facilissimi da seguire ma comunque affascinanti.
Il doom classico sabbathiano, venato di metal classico dei HIPPIE DEATH CULT (di cui va fatta menzione particolare per la bravissima cantante e bassista Laura Phillips) illumina il palco del John Dee e diverte, con un’attitudine grezza presa dal punk, e un tiro che li avvicina ai High On Fire più motorheadiani, esattamente in mezzo alle stranezze degli Agriculture e al delirio nero e cosmico degli ORANSSI PAZUZU, i prossimi a calcare lo stage del Rockefeller.
I finlandesi tornano sullo stesso palco che li aveva visti protagonisti di una performance devastante nel 2022 durante l’Inferno Festival e oggi, come allora, quello a cui si assisterà sarà un ora di musica indecifrabile, a volte impenetrabile ma mai come ora affascinante.
A supporto del recente e ancora più sperimentale “Muuntautuja” il concerto è lo specchio della band nel 2025: forti anche dell’esperienza del progetto parallelo Haunted Plasma, si sente immediatamente come la componente elettronica sia ancora più presente anche dal vivo, con lunghi momenti fatti di synth analogici alternati ad esplosioni di chitarre che filtrano la psichedelia attraverso una dialettica black metal.
Assoluto protagonista il chitarrista Niko Lehdontie, totalmente fuori controllo sul palco per la maggior parte del tempo: più di una volta le chitarre collassano sotto muri di effetti e si fondono con il resto, risultando in un magma sonoro come solo loro sanno creare. Una band completamente fuori da ogni logica musicale, amata dai numerosissimi presenti che si lasciano andare ad un lungo boato per un altro concerto di quelli da ricordare.

Basse frequenze, una batteria che si trascina lenta e pesante sono le caratteristiche del suono degli EAGLE TWIN,  pronti a ipnotizzarci con il loro metal dalle forti connotazioni ipnotiche e trascendentali.
Il duo formato dall’ex Iceburn Gentry Densley e Tyler Smith rappresenta un unicum nella scena doom, grazie ad un sound in grado di unire la pesantezza del drone all’eleganza del chitarrismo di scuola jazz di Gentry, il tutto frullato in brani lunghi e spesso snervanti, talvolta caratterizzati da inserti di voci in overtone.
Non c’è basso negli Eagle Twin, tutto esce dalla chitarra di Densley che splitta il segnale e divide lo spettro delle frequenze creando un magma di distorsioni che fa tremare muri e gabbia toracica, mentre pesanti e lente ritmiche di batteria cesellano un riffing che sembra mutare continuamente. Un esperienza di non facile assimilazione per alcuni che non reggono per tutto il concerto e si allontanano, ma questi sono gli Eagle Twin: prendere o lasciare.

Sono le nove di sera e tutto è pronto per una delle band più attese e chiacchierate: i CHAT PILE.
Chi li conosce su disco può non sapere bene cosa aspettarsi in sede live, data l’unicità di un gruppo che nasce dal noise rock, ha la pesantezza del nu metal ed un logo più black metal che altro.
Il risultato è un’ora abbondante di rock rumoroso e devastante sulla scia di Jesus Lizard e Shellac, suonato con il groove dei Korn e la monoliticità dei Godflesh, da una band a cui non frega nulla della presenza scenica.
Il cantante Raygun Busch vaga in circolo per il palco vestito solo con degli anonimi pantaloncini, intrattenendo il pubblico con una serie di discussioni su vari film che pare abbiano influenzato i testi e con uno stile vocale che pare un mix tra l’Henry Rollins degli spoken words e i deliri di David Yow dei Jesus Lizard, creando un senso di disagio decisamente forte.
“The New World”, “Why” e “I Am Dog Now” creano paesaggi di urbanità decadente, mentre “Rainbow Meat”, “Pamela” e “Ballas Beltway” formano un trittico di chiusura fatto di clangori di basso e chitarra e feedback a volte incontrollati.
Un’esibizione disorientante, pesante e a tratti surreale, a suo modo unica per una band unica che si sta meritando tutta l’attenzione che sta guadagnando.


Non ci allontaniamo molto dalla strada tracciata dai Chat Pile con i WHORES, trio di culto e anche loro alle prese con una musica che nasce dal noise rock ma dall’urgenza molto più punk/hardcore. Christian Lembach e soci hanno imparato la lezione dei Melvins più tirati e la mescolano al delirio noise di Helmet ed Unsane per un risultato sorprendente e parecchio coinvolgente. Come dei Foo Fighters usciti dalla Amphetamine Records, brani come “I Am Not a Goal-Oriented Person”, “I Am an Amateur at Everything” o “I Have a Prepared Statement” – sì, molti titoli delle loro canzoni sono fantastici e sembrano uscire dalla discografia degli Anal Cunt – creano un delirio ai piedi del John Dee, e questo è esattamente ciò che serviva per lasciarsi alle spalle il disagio dei Chat Pile.
Si sono fatte le undici ed è tempo per questo Desertfest di chiudersi così come era iniziato.

Gli ELDER raccolgono infatti lo scettro dei Dvne, che avevano aperto questa due giorni, con un metal dalle pesantezze doom, suonato con il gusto e la tecnica di una band progressive e un orecchio più orientato verso i seventies.
La bravura degli americani è indiscutibile, così come la loro capacità di creare un muro sonoro denso e a volte impenetrabile cesellato da passaggi complessi e lunge disgressione di chitarre soliste che descrivono orizzonti a metà tra il cosmico ed il fantasy, nella migliore scuola francese di Moebius e Druillet.
Col decennale del loro capolavoro “Lore” che cade quest’anno, la scaletta vedrà gli Elder suonare il suddetto disco nella sua interezza, più la lunga “Dark Root Stirring” dall’omonimo lavoro.
Un’ora e mezza in cui veniamo trasportati da veri e propri viaggi musicali come “Compendium”, “Legend”, e “Spirit Of Aphelion” suonate con il piglio delle grandi rock band e la densità del doom più pesante.
Una prova enorme per un gruppo che ha scritto pagine bellissime di una musica mutevole ed iridescente, con un livello qualitativo sopra la media e che meriterebbe ancora più riconoscimento di quello che già si è guadagnato.

Che dire, una chiusura maestosa per la seconda edizione di un festival che ha già mostrato una grande crescita in un solo anno di vita qua ad Oslo.
Inutile dire che la curiosità per quello che ci attenderà nel 2026 è altissima.

 

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