A cura di Maurizio “MorrizZ” Borghi, foto di Lucia Colombo
Il Never Say Die torna in Italia, dopo un anno esatto, nella versione 2009 sponsorizzata da Empire Clothing, marca d’abbigliamento che sta raccogliendo il merchandise ufficiale di tutti gli artisti di punta della frangia mainstream dell’hardcore/metalcore/deathcore. Sempre presenti Architects e Despised Icon, che salgono al ruolo di co-headliner (i primi per l’Inghilterra, i secondi per il resto d’Europa) e vengono accompagnati da un cartellone abbastanza eterogeneo. Del doppio appuntamento abbiamo seguito per voi la data di Cesena, raggiungendo un Vidia Club zeppo di un pubblico giovanissimo che si dimostrerà a breve molto partecipe.
THE GHOST INSIDE
Apertura totalmente inaspettata con i The Ghost Inside: questo quartetto di Los Angeles, autore di un debutto interessante ma non memorabile in uno dei generi più inflazionati al momento (hardcore metal infarcito di groove, breakdown ed occasionale emotività) ha la reazione di pubblico più forte e sentita della serata! Il giovane pubblico che riempie la sala del Vidia poga, salta e canta tutti i ritornelli all’unisono, causando la reazione incredula della band, che di sicuro sa stare sul palco e si impegna pure parecchio, ma davvero non ci sembra meritare tanto scalpore: il pregio migliore dei Ghost Inside è la formula, perfettamente miscelata per i gusti odierni, canzoni discrete ma poco altro. Considerando che il gruppo non ha nemmeno il disco pubblicato in Italia è proprio il caso di dire you can’t stop the internet, MySpace fa ancora i miracoli.
IWRESTLEDABEARONCE
Gli IWABO sono la classica formazione a cui è facile accreditare “puro genio” vista l’eclettica mistura di math metal, avantgarde, elettronica e sperimentalismi di ogni genere, con una versatile frontwoman come ciliegina sulla torta. Sfortunatamente su di loro dobbiamo rimandare il giudizio in sede live, perché stasera la piccola Krysta porta la giustificazione per malattia, lasciando i suoi compagni sul palco ad esibirsi in una versione strumentale dei pezzi del debutto “It’s All Happening”. A movimentare la situazione si susseguono, dal pubblico, ben tre aspiranti cantanti: il primo, vestito da perfetto hipster milanese, rimedia una figura imbarazzante. I secondi, metalcorer in erba, adornano i deliri pattoniani di scream e growl randomici. Un sorriso l’hanno strappato, ma l’esibizione sarà solo un simpatico intermezzo.
OCEANO
Le coordinate si spostano verso l’estremo quando sul palco salgono gli Oceano, sicuramente il gruppo più heavy della serata. Il loro “Depths” non ha fatto gridare la critica al miracolo – qualcuno si è divertito addirittura a scrivere una recensione che li incensava sarcasticamente, ma l’etichetta non ha colto lo spirito e quelle frasi sono finite sui press kit della band! Dal vivo è evidente come la formazione punti tutto sull’impatto: facile con la presenza scenica di ¾ dei componenti, che definire corpulenti è dir poco. C’è anche qualche pezzo valido, ma l’impressione non è del tutto positiva, vuoi per la staticità vuoi per la proposta monolitica ma poco varia, messa in cattiva luce da suoni leggermente confusionari. Resta in mente il gigantesco frontman di colore, che starà tutta la sera in mezzo al pubblico, ma la musica verrà dimenticata in maniera prematura.
AS BLOOD RUNS BLACK
I giovanissimi As Run Runs Black si trovano un discreto posto nella scaletta di stasera. A discapito della giovane età la band ha già tre dischi all’attivo ed è riuscita a lasciarsi alle spalle diversi cambi di line up, che ci portano, in quest’ultima incarnazione, un nuovo cantante (temporaneo?) e bella biondina alla chitarra (di cui non sappiamo il nome) che se riuscirà a restare nella band il tempo sufficiente troveremo di sicuro tra le prossime Hottest Chicks In Metal. Certo il death metal con sfumature –core che ci propongono non è originalissimo, ma i ragazzi recuperano punti con velocità, un drumming scoppiettante e breakdown ultraheavy, oltre a caratteristiche fondamentali come la tenuta di palco e l’entusiasmo contagioso. Altra novità la nuova “Stand Your Ground”, che si introduce perfettamente nel catalogo di brani a repertorio. Una mezz’ora piacevole, che dimostra l’attitudine di una formazione che sta percorrendo la strada giusta.
HORSE THE BAND
Siamo sicuri che nessuno degli under 21 sotto il palco può essere coinvolto appieno nel sentire i suoni degli Horse The Band, non quanto chi si è logorato vista e pollici davanti ai vari Castelvania, Zelda e Mega Man. Il mix tra hardcore e i suoni gracchianti del sinth-Nintendo 8 bit può in ogni caso essere apprezzato anche da coloro che hanno visto il controller del NES solo sulle magliette, e di certo la performance (decisamente alcolica) dei leader Nathan Winneke e Erik Engstrom non può che intrattenere nella sua selvaggia e dissennata ilarità. Gli Horse The Band sono la mosca bianca nel bill della serata, se non della scena attuale in toto: anche se il pubblico assiste in maniera curiosa e divertita tutti sono letteralmente rapiti dal circo sul palco – forse anche curiosi di sapere se i componenti riusciranno a finire la scaletta o collasseranno per coma etilico. Simpatici su disco, irresistibili on stage!
ARCHITECTS
Il pubblico li ha già visti ad Aprile 2009, ed eccoli tornare a novembre: uno dei gruppi più attesi della serata, gli Architects fanno da co-headliner e, da ombra dei Bring Me The Horizon quali erano, dimostrano di essere una realtà oramai consolidata. Sam Carter è il solito ragazzetto ingobbito con caschetto sbarazzino, ma domina il pubblico con sfrontatezza, sorretto da una band compatta che dimostra di sapere il fatto suo: gli Architects posseggono uno spessore tecnico invidiabile (almeno da questo punto di vista possono mangiarsi i cugini BMTH a colazione), caratteristica che potrebbe proiettarli in un futuro ancor più roseo. La loro performance fila liscia dall’inizio alla fine, rodatissima e di sicuro impatto, soprattutto davanti a una piccola folla che sembra adorarli, anche se Carter, dobbiamo sottolinearlo, è davvero poco comunicativo. Ipotizzare una successione al trono a danno dei cugini inglesi non è poi tanto irrazionale.
DESPISED ICON
I più giovani sono oramai fuori dal locale, forse stanchi e provati, più probabilmente perché gli headliner non hanno frange e tshirt colorate. Sta di fatto che, pur non essendo affatto vuoto, ai Despised Icon assiste lo stesso numero di persone che presenziava ai The Ghost Inside. Ai canadesi sono però sufficienti pochi minuti per dimostrare come tra loro e il resto del bill ci sia un abisso: sarà il doppio assalto frontale delle voci, sarà la pulizia dei suoni, sarà la velocità e la brutalità delle esecuzioni (giù il cappello per l’eccellente Pelletier), o forse le mosse che fa Alexander per aizzare il pubblico mentre Steve esagera con gli inumani pig squeals. Sarà che i canadesi sono l’unico gruppo ad avere quattro full lenght in catalogo, con conseguente esperienza e possibilità di attingere il meglio. Dedicandosi principalmente ad estratti da “Day Of Mourning” e “The Ills Of Modern Man” i Despised Icon non fanno prigionieri e scatenano la battaglia in un pit mai così selvaggio, citando propriamente anche il celeberrimo saluto degli spartani di 300 (A-HU!). Tra i pezzi eseguiti spiccano di sicuro, per impatto e partecipazione, “MVP”, “A Fractured Hand”, “Furtive Monologue” e “Day Of Mourning”. Uno spettacolo più lungo con tutta probabilità non sarebbe stato possibile da reggere fisicamente, non dopo le sei esibizioni precedenti almeno: anche in questa occasione i Despised Icon sanno far salire l’adrenalina alle stelle, confermandosi tra i leader indiscussi del movimento deathcore.