08/03/2015 - DEVIN TOWNSEND + PERIPHERY + SHINING @ Live Music Club - Trezzo Sull'Adda (MI)

Pubblicato il 16/03/2015 da

Report a cura di Giovanni Mascherpa
Fotografie di Federico Rucco

Reduce da una nuova ponderosa opera a due facce, “Z²”, ritorna a mostrare il proprio volto dal vivo uno dei massimi emblemi dell’innovazione e della bizzarria in musica, Devin Townsend. Una stagione concertistica, quella del funambolico artista canadese, che culminerà con lo show londinese del 13 aprile, alla Royal Albert Hall,dedicato interamente alle peripezie intergalattiche di Ziltoid. A marzo – per la precisione il 5, al La Cigale di Parigi – è cominciata invece la parte “regolare” del tour europeo, nel quale Devin ha chiamato a sé due band che per un motivo o per l’altro stanno segnando profondamente la concezione dell’heavy metal di questo scorcio di millennio. Gli Shining norvegesi con il concepimento di una chimerica crasi di black metal, jazz, elettronica e industrial; i Periphery con la giustapposizione di muraglie di suono djent a melodie pop modaiole e ammiccanti, tecnica sfrontata e ritornelli chewing-gum. Lo status di venerato maestro che avvolge da tempo l’operato dell’headliner e l’altissimo seguito generato in questi anni tra i teenager dagli stessi Periphery spiega bene la coda davanti al Live una mezz’ora abbondante prima dell’apertura delle porte. Segnale di un evento di successo, e il colpo d’occhio all’interno del locale confermerà questa prima impressione: la fiumana di gente accorsa già per il gruppo di apertura continuerà a crescere, fino al pienone all’ora fatidica dello show townsendiano. Ore 20.30, in linea col programma, si va in scena…

 

devin townsend - locandina live club trezzo - 2015

SHINING
Impeccabili nelle loro camice nere fresche di lavaggio, impomatati i capelli – l’azzimato cantante/chitarrista/sassofonista Jørgen Munkeby – lustrati gli strumenti a dovere, regalati sorrisi e saluti in abbondanza, gli Shining possono sbizzarrirsi in quello sciame di deflagrazioni a grappolo, arroganti e disinibite, che ne hanno segnato l’irrefrenabile parabola artistica. I suoni non sono un granché, tutto sommato definiti con un minimo di criterio e tagliati abbastanza su misura, ma irrimediabilmente bassi nei volumi: quando si riesce a sentire persone un paio di file avanti a dove si è posizionati dialogare a voce moderata, c’è qualcosa che non quadra! Gli equilibri interni almeno tengono e i cinque si scatenano disinvoltamente nell’insurrezionale sarabanda di strappi e scheggiature, torsioni e planate, giubilazioni e pause che dipinge di insensato e schizoide delirio ogni singola composizione. Un pubblico inizialmente freddino, tra l’indifferente e il diffidente, si scioglie poco per volta, quando capisce che di trucchi non ce ne sono e, al di là di una complessità e una velocità d’esecuzione stordente, quasi una sadica gara a infilare assurdità e congetture soniche sempre più rapide e strampalate, coltellate invisibili agli occhi e cruente per la mente, gli Shining hanno una coerenza di fondo. I norvegesi si prodigano di sfaldare il comune orientamento dello spettatore alla performance live, imbottendo la stessa di sfide continue, duelli all’ultimo respiro tra tempi ritmici irreplicabili da altro essere umano, solismi destrutturati, “marmellate” di sintetizzatori drogati e martellanti e harsh vocals idrofobe. Per non parlare del sax più insubordinato della storia, giusto paragonabile ai sincretismi dei Naked City, che si assume l’onere e l’onore di portare l’informe e destabilizzata bellezza di questa musica su altitudini vertiginose, generando lo stesso straniamento delle figure impossibili di Escher. La scaletta viene equamente divisa tra le stilettate molto “free” di “Blackjazz” (“The Madness And The Damage Done”, “Fisheye”, “HEALTER SKELTER”) e gli estratti leggermente – solo leggermente… – più razionali di “One One One”, nella fattispecie “I Won’t Forget”, “The One Inside”, “My Dying Drive”. Come se la ridono, i musicisti, durante le fasi più esasperate e ipercinetiche! Se la godono, a leggere lo stupore e i primi segni di mal di testa tra le prime file. Complici gli incitamenti rivolti alla folla dal leader e lo sconvolgimento di tutti i membri della band, al termine dell’esibizione i cori di approvazione si sprecano. Il tempo tiranno non concede un eventuale, richiestissimo, bis: pazienza, per chi presenzierà all’Hellfest sappiate che saranno uno degli headliner del Temple Stage. E lì gli effetti su corpo e mente saranno irreparabili.

PERIPHERY
Parliamo ora dei Periphery. Sicuri che non vogliate discutere d’altro? Del tempo? Dell’ultima giornata del campionato di calcio? Di qualche fatterello di gossip? No? E va bene, parliamo dei Periphery. Si tentava di sviare il discorso perché, per quanto strombazzati, adorati, amati da migliaia di kid, soprattutto giovanissimi, nome di punta della label di tendenza Sumerian, gli uomini capitanati da Misha Mansoor, novello Blackmore del djent a leggere i commenti sul suo operato, hanno lasciato un’impressione desolante. Sapendo di attirarsi addosso accuse di faziosità e dileggio, il sottoscritto non può tacere di aver provato una profonda, acuta delusione nel sentire così tanta pochezza da parte di musicisti acclamatissimi, diventati col solo primo album guide carismatiche di un intero movimento stilistico. I ragazzi assiepatisi a ridosso delle transenne e la maggior parte dei convenuti non saranno sicuramente d’accordo, e non si ha alcuna intenzione di essere irriguardosi nei confronti delle loro preferenze, ma ci si chiede, banalmente, se quando udito abbia davvero una caratura tale per cui, anche tra soli cinque anni, ci si ricorderà di quanto hanno prodotto gli autori dei recenti dischi-gemelli “Juggernaut: Alpha” e “Juggernaut: Omega”. Dietro alle spessissime infrastrutture di cemento armato assemblate dalle tre chitarre c’è un vuoto di idee allarmante, sale lo sconforto nel sentire melodie così smielate, scontate, e una sezione ritmica amorfa come quella di un ensemble glam di quart’ordine. Si prepara il terreno ai vocalizzi né carne né pesce di Spencer Sotelo, che all’inguardabile pettinatura rosata (speriamo ci abbiano fregato le luci…) aggiunge una voce tremenda sia sugli urlati, sia sul pulito. Come qualcuno al mio fianco fa argutamente notare, sembra di sentire i 30 Seconds To Mars in versione metal. Mentre le canzoni si susseguono una più scialba e inconsistente dell’altra, attorno le manifestazioni di giubilo non cessano, alzandosi piuttosto di intensità. Non ci pare nemmeno che le declamate doti di Mansoor e dei suoi compari dotati di voluminose chitarre a otto corde siano così abbacinanti dal punto di vista tecnico; ben altri personaggi, anche nel metal moderno, riescono a infondere emozioni più pregiate e ad ampio ventaglio umorale. Tutto questo spiegamento di forze raramente fa uscire il gruppo dalla banalità e non arrivano praticamente mai scossoni che possano cambiare le sorti del concerto. Sarà che chi scrive non ha proprio nelle corde certi suoni, sarà che i Nostri hanno puntato platealmente sul materiale più melodico, ma i Periphery hanno proprio dato l’idea di un fenomeno da baraccone molto fumo e poco arrosto. L’unico aspetto positivo è la breve durata dell’esibizione: dopo tre quarti d’ora il gruppo sbaracca tra le entusiaste acclamazioni della maggioranza dei presenti. Si evitano commenti a voce alta per evitare il linciaggio: la speranza è di non dover più fare i conti con i Periphery per molto, molto tempo.

 

DEVIN TOWNSEND
Il concerto vero e proprio del buon Devin ha un suo prequel, che inizia circa una ventina di minuti prima: sui due pannelli ai lati della batteria in posizione sopraelevata di Ryan Van Poederooyen compare Ziltoid, che dalla sua astronave inizia a ‘minacciare’ la Terra di invasione. Si susseguono una serie di surreali dialoghi tra il buffo mostriciattolo e gli altri protagonisti della saga galattica raccontata in “Ziltoid: The Omniscient” e nel secondo disco di “Z²”, “Dark Matters”. Il filmato, inizialmente divertente, dopo un po’ mostra la corda e l’attenzione cala. Meglio, molto meglio, la serie di immagini dove le facce di Townsend, in espressioni più o meno umane, più o meno contorte fino ad assumere sembianze grottesche, vengono inserite nei contesti più disparati: famose copertine di dischi, locandine di film, foto celebri, sono arricchite da questo esilarante elemento di disturbo. Finita la fase di puro entertainment a motori spenti, irrompe la band, e notiamo subito che i problemi ai suoni subiti in precedenza non sono stati sistemati completamente. Nonostante la qualità non diventi mai tragica, il sonoro sarà ben lungi dall’essere perfetto, con i volumi stranamente poco pompati e la chitarra del mastermind un po’ sotterrata dagli altri strumenti, tra cui la batteria rimarrà, purtroppo, soverchiante per l’intera durata dell’esibizione. Non è stata quindi la serata trionfale, esagerata, illimitata che buona parte dell’audience sperava di assorbire: da Devin ci si aspetta sempre il massimo, anche più del massimo, viste le proprietà taumaturgiche che si è soliti affibbiargli. E’ stato semplicemente un ottimo concerto, incentrato su una scaletta per molti versi spiazzante, qualche classico lasciato fuori – e qui, il sottoscritto sarà in minoranza, ma ben venga un bel rimescolamento della setlist, a maggior ragione se si parla di un artista con una carriera sterminata come Devin – suoni rivedibili, una voce discreta ma un po’ impacciata su tonalità medio basse. Una resa, quella vocale, che per tanti altri artisti sarebbe considerata soddisfacente, ma trattandosi del primo della classe finisce per essere una mezza delusione, almeno per alcuni. Dal canto nostro, ci sentiamo di dire che solo in un paio di circostanze l’affaticamento è stato davvero palese, mentre nel resto dei pezzi non si saranno raggiunti sempre i vertici dei dischi, ma ci si può ritenere appagati. L’apertura di “Truth” colpisce nel segno, racchiudendo in una manciata di minuti tutti gli ingredienti del Townsend-pensiero in veste solista: diapositive di visioni contundenti accanto a squarci di serenità così pura da dare alla testa; lo sfioramento dell’irreale con mano sicura, per poi rendersi conto della sua concretezza; l’illustrazione fiabesca di un paesaggio verdeggiante, con la puntigliosità di un documentarista, e il successivo slancio verso le stelle a sondare le meraviglie al di fuori del nostro pianeta. Con “Fallout” facciamo ingresso nel pacchiano e lucente universo di “Z²”: con coraggio, Townsend decide di non avvalersi di basi registrate per la voce di Anneke, e ciò avverrà per tutti i brani dove la singer olandese ha prestato i suoi servigi in studio. Seppure si perda parte della magia delle versioni originali, la presenza della sola voce ‘reale’ dà un apprezzabile tocco di autenticità e verità, anche se la sensazione di mancanza e vuoto non sarà sempre facile da assimilare e comprendere. Mentre sugli schermi si susseguono, vorticosamente, filmati psichedelici, buffi, paradisiaci, ecco venire scagliata una bella mazzata sotto le spoglie di “Namaste”; unico estratto da “Physicist”, risulterà essere il momento più violento dell’intero concerto, dove il nostro pazzoide preferito dimostra di poter ancora tirar fuori gli artigli all’occorrenza. Il pubblico si scalda all’irrompere di un reperto pregiato quale “Night”, in arrivo dall’indimenticato periodo di “Ocean Machine: Biomech”. L’incalzare degli strumenti, i dialoghi chitarristici sopraffini e le portentose partiture tastieristiche, in grado di non sfigurare con l’ampio apparato di effetti e sovraincisioni messe in campo in studio, fanno decollare completamente lo show, che continua a snodarsi fra il repertorio relativamente più datato e le opere dell’ultimo, prolifico periodo. E’ tanto vasta e multiforme la discografia del canadese, capace di accontentare un po’ tutte le preferenze dei fan, che non ci sono brani accolti tiepidamente: sia una “Storm”, una “Rejoice”, una “Addicted!”, è difficile vedere qualcuno storcere il naso e chiedersi perché un certo episodio venga proposto. Certo, fa specie l’esclusione di qualsiasi traccia di “Terria”, ma per il resto la scaletta non lascia grandi vuoti e non si concentra nemmeno troppo sull’album appena uscito (tre canzoni in tutto tra primo e secondo cd). Nonostante l’aria un po’ stanca, data non soltanto dalle onnipresenti occhiaie, Townsend si comporta come sempre da consumato cabarettista, intrattenendo con il suo spiccato humour nelle pause, dando lezioni su cosa significhi interagire con profitto e brillantezza col pubblico. Momenti topici, a personale avviso di chi scrive, sono i numeri ad alto quoziente di ironia, musicale e testuale, di “March Of The Poozers” e “Lucky Animals”: la prima, con questa ridicola eppur imponente marcia di creature dell’iperspazio, si fa strada a passo ritmato, quasi come la marcetta degli Oompa Lumpa in chiave futurista, con una tale vis melodrammatica e pathos da diventare uno degli emblemi dell’ideologia caricaturale e votata all’assurdità di Townsend. Nella seconda, è impossibile rimanere seri, a partire da quando Devin chiede di agitare le mani in aria a ogni ritornello, refrain che saranno accompagnati da smorfie a dir poco demenziali dell’artista. Puro cartoon in formato musical-metal, prima di un finale decisamente più serio e profondo. Il grosso del concerto si chiude con l’hit mancato “Christeen”, la canzone che tutti vorremmo sentire alla radio se dall’etere arrivasse, magari solo sporadicamente, qualcosa di decente, per poi consegnarci una parentesi di sola voce e chitarra del leader, mentre gli altri membri del Devin Townsend Project si rilassano prima dell’encore. Nel quale giunge una sola chicca, la sempre splendida “Kingdom”, oggi non esaltata da un’ugola in stato di grazia, ma così intrinsecamente piena di classe da far sospirare, per un’ultima volta, tutti i convenuti. Lo sciamare fuori dalle porte del Live è accompagnato da commenti contrastanti: come abbiamo detto in precedenza non si è trattato della performance migliore possibile, però siamo anche dell’avviso che il pizzico di insoddisfazione avvertito da una parte, non sappiamo quanto grande, dei presenti derivi in buona misura da aspettative altissime, non pienamente suffragate da quanto udito, ma nemmeno oltraggiosamente mortificate. Anche in tono minore, un live di Devin Townsend resta un’esperienza da vivere almeno una volta nella vita.

Setlist:
Truth
Fallout
Namaste
Night
Storm
Hyperdrive
Rejoice
Addicted!
March Of The Poozers
Lucky Animals
Heatwave
Life
Christeen
Ih-Ah!
Kingdom

 

19 commenti
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