Report di Alessandro Elli
Foto di Moira Carola
Il Dissonance Festival può essere ormai considerato a pieno diritto uno degli appuntamenti storici del nostro Paese: nato nel 2014 per mano dell’agenzia di booking Versus Music Agency, ha cambiato negli anni diverse location, ha resistito agli attacchi della pandemia e dei fenomeni atmosferici (l’acquazzone della scorsa edizione a Padova), per trovare quella che è probabilmente, in questo momento, la sede più appropriata dal punto di vista logistico, ossia il Magnolia. Gli ampi spazi messi a disposizione dal club milanese, infatti, hanno permesso agli organizzatori di spalmare le esibizioni su due palchi, operazione perfettamente riuscita grazie a rapidi cambi di set e con la scelta vincente di non dare luogo alle sovrapposizioni che si creano in questi casi.
Headliner della giornata gli svedesi Meshuggah, vere e proprie leggende del djent più complesso (genere di cui sono ritenuti i capostipiti, salvo poi rinnegarne l’appartenenza formale nell’evoluzione della carriera), seguiti dai loro connazionali Soen, dediti ad un progressive metal più tradizionale ed atmosferico, dal metalcore dei francesi Ten56. e da una carrellata di band italiane differenti per esperienza e genere proposto: i Fulci con il loro death metal di stampo americano, gli Slug Gore, alfieri di un grind canonico, i Benthos dai connotati progressive metal e quattro formazioni che propongono metalcore con attitudine fra loro molto diversa come Damned Spring Fragrantia, Prospective, Shading ed i ben più rodati Destrage, ormai una solida realtà in questo ambito.
Ad aprire la giornata sul second stage, in perfetto orario, gli SHADING: il gruppo veneziano ha pochi minuti a disposizione e li sfrutta proponendo brani dei due album già pubblicati in una pur giovane carriera e pezzi nuovi ancora inediti, di fronte ad un pubblico già abbastanza numeroso, considerato l’orario. Il loro è un metalcore con venature hardcore suonato in maniera piuttosto scolastica, anche se qualche buona melodia si intravede. Sicuramente sono ancora acerbi per un palcoscenico come quello di oggi, ma il tempo potrebbe giocare a loro favore.
A seguire, sul palco principale, ecco i PROSPECTIVE da Bologna: pure in questo caso parliamo di un band giovanissima, anche se già in giro da otto anni. Il genere suonato è un djentcore con velleità progressive che, seppur fedele a tutti i cliché, ha una buona carica dal punto di vista strumentale, mentre a non convincere sono il growl del cantante e la voce pulita del chitarrista. Il tentativo, sicuramente apprezzabile, è quello di proporre qualcosa di intricato e personale, che al momento non è ancora nelle corde del quartetto emiliano ma, anche per loro, le evoluzioni future potrebbero essere interessanti.
Torniamo sul second stage per gli SLUG GORE, band nota per la presenza tra le proprie fila di un paio di personaggi legati a Twitch e YouTube, ma certamente valida anche da un punto di vista musicale. I romagnoli sono dediti ad un grindcore che più classico non potrebbe essere, ma con un buon tiro ed una discreta attitudine. Tra brani che durano tre secondi, bestemmie, blast-beat, chitarristi che suonano anche con una corda rotta e citazioni di film storici quali “Tremors”, i trenta minuti a loro disposizione scorrono piacevolmente. Per ora sembrano ancora troppo legati agli stereotipi del genere, ma potenzialmente potranno crescere, poiché le qualità ci sono tutte.
I milanesi BENTHOS sono musicisti al di sopra della media, e lo si intuisce fin dalle prime note: chitarristi e sezione ritmica sono precisi anche nelle parti più complicate ed il cantante risulta incisivo sia nel growl sia nella voce pulita, oltre a saltare sul palco come fosse tarantolato. La band ha alle spalle un solo disco, “II”, pubblicato due anni fa, e in questa serata coglie l’occasione per presentare anche qualche pezzo nuovo. Le tracce si basano su un progressive metal raffinato e dal piglio moderno, che ingloba elementi post-rock e si muove tra continui cambi di ritmo e di atmosfera, adottando soluzioni sicuramente derivative ma anche efficaci. L’impressione è che, se acquisteranno un pizzico di personalità in più, potrebbero realmente compiere un balzo in avanti notevole.
Con i DAMNED SPRING FRAGRANTIA ci spostiamo, oltre che sul palco secondario, verso sonorità differenti, anche se comunque piuttosto pesanti: i parmigiani, infatti, sono considerati i padrini del djent italiano, soprattutto grazie al loro album “Divergences”, cui questo concerto è dedicato in occasione del suo decennale. Il disco sarà suonato quasi per intero, con la riproposizione di quei suoni paludosi che, partendo dal metalcore, vanno a parare nel mathcore o nell’hardcore vero e proprio, perlomeno come attitudine. La musica degli emiliani è caotica, piena di rabbia, ma allo stesso tempo i cinque appaiono compatti e dritti al punto, senza mai perdersi in fronzoli inutili; i riff sono potenti e la voce è feroce, come si conviene al genere suonato. Un discreto pugno nello stomaco ed un buon biglietto da visita per una formazione che, per ora, sembra aver seminato più di ciò che ha raccolto.
Ritorniamo verso il main stage per assistere a quella che può essere considerata la sorpresa di questo festival: i francesi TEN56., emersi dall’anonimato in maniera improvvisa durante la pandemia con due EP che hanno permesso loro di farsi conoscere ed apprezzare un po’ ovunque. Ciò che balza subito all’occhio è una tenuta del palco fuori dal comune, grazie soprattutto al carisma del tatuatissimo cantante, con ottimo range vocale sia in growl sia in voce pulita, e dell’esagitato batterista. Sul palco i transalpini sono una furia, il loro metalcore screziato di death metal non è di certo una novità assoluta, anzi, si rifà spesso al passato, con influenze rap e nu metal, ma personalità, tecnica e capacità di coinvolgere il pubblico sono sicuramente di livello tale da far presagire un futuro roseo. Al di là di qualunque gusto personale, la musica dei Ten56. suona cupa, potente ma anche fresca e coinvolgente: una mezz’ora sfruttata nel miglior modo possibile.
I FULCI sono confinati nel second stage, ma non demordono ed imbastiscono una prestazione degna della loro fama: pur dovendo fare a meno dei tradizionali visual, Dome e compagnia danno fondo a tutte le loro energie, dimostrando nuovamente di essere tra i più credibili interpreti nell’ambito death metal più brutale nel nostro paese. Per una volta con “una drum machine in carne ed ossa“, ossia un batterista presentato come Edo, e con una seconda chitarra, i quattro hanno macinato i loro riff tritaossa per una mezz’ora abbondante, con il growl gutturale di Fiore ed il basso di Klem a completare una combo devastante. La loro brutalità è impressionante e fa da contraltare ad un atteggiamento schietto e genuino che conquista tutti, tanto che è impossibile non partire con l’headbanging sulle note di brani quali “Apocalypse Zombie” e “Eyes Full Of Maggots”. Per i neofiti della band, il consiglio è quello di gustarseli in un contesto più adeguato ma, anche su un palco piccolo e con la luce del sole a disturbare il rito, i Fulci hanno ribadito il perché del loro successo.
Si ritorna sul palco principale per rimanerci in via definitiva e la prima band a beneficiarne saranno i DESTRAGE: vista la copiosa affluenza di pubblico, è positivo che i milanesi possano esibirsi in uno spazio adeguato. I quattro, rinvigoriti dal fatto di giocare in casa, si producono nel solito spettacolo irriverente e carico d’energia ma con due piccoli nei: i volumi eccessivamente bassi per un concerto all’aperto e, soprattutto, la mancanza del bassista storico Gabriel Pignata, la cui assenza si fa sentire sia dal punto di vista musicale sia da quello scenico.
Detto ciò, è impossibile non notare come i Destrage siano una band ormai navigata ed abituata a calcare anche palcoscenici importanti, italiani ed esteri: la loro capacità di affrontare un pubblico è notevole, con il cantante che si dimena come un pazzo ed i tre strumentisti alle sue spalle che non perdono un colpo. La proposta è eclettica, un metalcore intricato e melodico al tempo stesso, che svaria spesso verso altri generi quali djent, progressive e l’alternative degli anni ’90, tanto da piacere anche ai metallari più attempati ma dalla mente aperta. Per quanto riguarda la scaletta, la scelta è stata quella di pescare da un po’ tutta la discografia, ma i momenti più galvanizzanti si sono registrati durante l’esecuzione di pezzi trascinanti come “Italian Boi” e “Purania”, con un pogo ininterrotto. Non è un caso che i ragazzi non siano solo alla prima apparizione in compagnia di mostri sacri quali i Meshuggah…
I SOEN, con il loro progressive metal caldo ed atmosferico, sono di certo il gruppo stilisticamente più al di fuori dei confini di ciò che la giornata odierna ci propone, eppure, alle prime note degli svedesi, il pubblico che si accalca sotto al palcoscenico è numeroso ed entusiasta.
La loro entrata in scena avviene sulle note di “Monarch”, con un Joel Ekelöf in un’inedita versione metal con tanto di chiodo ed occhiali da sole. Fin da subito lo scostamento, non solo nel look, verso sonorità più heavy tradizionali che avevamo notato nell’ultimo “Imperial” è evidente anche in sede live, con un irrobustimento dei suoni rispetto al passato. Se la morbida voce del già citato Ekelöf è il tratto distintivo più riconoscibile, in un quello che viene definito un supergruppo il fuoriclasse non può che essere, però, Martin Lopez: il suo tocco è inconfondibile e dimostra come l’ex Opeth sappia dosare in modo perfetto e personale vigore e delicatezza.
Mentre inizia a calare il buio, il concerto prosegue con i pezzi più noti della discografia come “Savia”, risalente al periodo in cui la band pescava a piene mani dalle sonorità dei Tool, e l’energica “Antagonist”, con il suo ritornello orecchiabile ed immediato. Purtroppo la resa sonora non è delle migliori, con i bassi eccessivamente in primo piano e la chitarra appena udibile, problema che funesterà tutta l’esibizione. Si arriva così alla toccante “Lotus” che, a sorpresa, chiude lo show dopo una mezz’ora scarsa e soli sei brani suonati, con gli svedesi che lasciano il palco mentre il bassista sventola con orgoglio una bandiera ucraina. Si verrà a sapere che lo show è stato accorciato a causa dell’arrivo in ritardo del gruppo di ben quattro ore e del mancato soundcheck, ma un po’ di amaro in bocca rimane.
Potrebbe sembrare strano che l’headliner scelto per chiudere la serata di un festival dichiaratamente improntato alle sonorità più moderne sia un gruppo nato nel lontano 1987, ma i MESHUGGAH sono i padri di questo tipo di avanguardie musicali ed è quindi giusto che sia così; tra l’altro non è raro scorgere tra il pubblico coppie genitore/figlio entrambi con la maglietta della band svedese, quasi a simboleggiare un passaggio di consegne tra le due generazioni, oltre che metallari di ogni estrazione, segno evidente di come il quintetto di Umeå sia in grado di mettere d’accordo un pubblico trasversale per età e gusto.
Ma veniamo allo show: chiunque abbia assistito ad un loro concerto saprà bene che la proposta dei Meshuggah è un’esplosione di suoni e luci, un’esperienza totalizzante da vivere in apnea, tanta è la potenza sprigionata. Dopo un’intro fatta di rumori che sembra interminabile, i musicisti entrano in scena ed attaccano con l’opener dell’ultimo “Immutable”, quella “Broken Cog” che con i suoi inquietanti lamenti non è di sicuro l’episodio più aggressivo della carriera del gruppo ma risulta perfetta per scaldare l’atmosfera.
La band sembra in forma, i suoni sono finalmente ottimi e, a sorpresa, Kidman è insolitamente loquace ed interagisce più volte con il pubblico, stemperando quella sensazione di freddezza da cyborg che la formazione nordica ha sempre trasmesso. Si prosegue con “Rational Gaze”, durante la quale è impossibile staccare gli occhi dall’incredibile lavoro svolto da Haake alla batteria, passando da quel monolite che è “Born In Dissonance”, fino ad arrivare al blocco “Mind’s Mirrors”/”In Death – Is Life”/”In Death – Is Death”, tratto da “Catch Thirtythree” che, proposto nella sua interezza, è una soffocante sequenza di sfuriate, rumori e silenzi da lasciare ammutoliti. La claustrofobica “Demiurge” fa da prologo alla mazzata conclusiva, ossia quell’autentico tuffo nel passato rappresentato da “Future Breed Machine”, pezzo tratto da “Destroy, Erase, Improve”, quando la band era qualcosa di differente: la diversità stilistica si sente tutta, ma il boato del pubblico è roboante, a conferma che tutti stavano aspettando di riascoltare anche un assaggio di quelle sonorità ormai dimenticate.
L’unico neo della serata è la durata limitata dello show, una sola ora, ma anche in questo caso, come per i Soen, ciò è dovuto ad un ritardo del volo aereo. L’ovazione finale è d’obbligo, nella speranza che si possa rivivere presto un’esperienza del genere.
Anche questa nuova edizione del Dissonance Festival, la nona ormai, è giunta al termine e, tirando le somme, possiamo dire sia stata un successo sia come partecipazione, con un’affluenza importante già nelle prime ore del pomeriggio, sia come consistenza artistica, con la scelta rischiosa ma a posteriori azzeccata di rendere più eterogeneo il bill, pur rimanendo focalizzati in una direzione precisa.
Setlist Meshuggah:
Broken Cog
Rational Gaze
Ligature Marks
Born in Dissonance
Mind’s Mirrors
In Death – Is Life
In Death – Is Death
The Abysmal Eye
Demiurge
Future Breed Machine
SHADING
PROSPECTIVE
SLUG GORE
BENTHOS
DAMNED SPRING FRAGRANTIA
TEN56.
FULCI
DESTRAGE
SOEN
MESHUGGAH