Report a cura di Riccardo Plata e Maurizio “Morrizz” Borghi
Foto di David Scatigna
A distanza di quasi dieci anni dalla loro prima, e finora unica calata italica, arrivano finalmente in quel di Milano i Disturbed, attesi inutilmente dalle nostre parti già l’estate scorsa e giunti solo ora con la versione ridotta del loro Music as a Weapon tour. Ad attenderli, nonostante un mese di Giugno concertisticamente ricchissimo, c’è un Alcatraz gremito, segno che grande era l’attesa dei fan italiani per l’esibizione di Draiman e soci: peccato però che tanto entusiasmo non abbia trovato eguale riscontro sul palco, come preannunciato già dalla scialba esibizione in apertura dei nostrani Mellowtoy…
MELLOWTOY
Non ci è dato sapere quale santo protegga, dal cielo o da altrove, laformazione meneghina dei Mellowtoy: ogni anno infatti, quando qualche bigpassa dall’Alcatraz senza un supporter, ci pensa la formazione fronteggiatada Matt ed Emi a scaldare il pubblico, sia esso quello de Ill Nino, HIM(2006), Stone Sour (2007) o degli Alter Bridge (2008). L’immutato crossoverdi “vecchia concezione” (possiamo paragonarli a dei Linea77 più duri egroovy) fa di sicuro il proprio dovere, e certo la band sa tenere il palcoin maniera soddisfacente, ma i Mellowtoy non vanno l’oltre all’intrattenereper la mezz’oretta a loro disposizione, e ancora una volta ci vien da direche mancano l’opportunità di centrare il bersaglio con questa vetrinaeccellente. Forse è tempo di dare queste grandi opportunità a gruppi piùfreschi e meritevoli.
DISTURBED
Sono le 21 in punto quando, spentesi le luci, fanno il loro ingresso sul palco Dan Donegan, John Moyer e Mike Wengren, presto seguiti da un David Draiman in versione Hannibal Lecter. Un gustoso siparietto che scatena da subito l’entusiasmo degli astanti, ulteriormente galvanizzati dall’attacco affidato a “Voices”, indimenticata opener dell’indimenticabile album di debutto della band. L’impressione di una scaletta incentrata sui classici del passato viene presto confermata dalla successiva esecuzione di “Liberate”, “Prayer” e “Meaning Of Life”: ci piacerebbe poter parlare di un inizio di concerto di quelli da ricordare, ma purtroppo dobbiamo invece registrare una non impeccabile prestazione del tarchiato singer – in evidente difficoltà sui ritornelli, grazie anche ad un volume esageratamente alto – e l’abuso da parte dei nostri di basi registrate, evidenti sia in alcune ritmiche di chitarra che nei contro-cori. Fortunatamente genuina risulta invece l’esecuzione della ballatona “Remember”, davvero emozionante in un Alcatraz gremito di accendini, e della hit single “Stupify”, finalmente eseguita da un Draiman in stato di grazia. Continuando nell’alternanza di classici vecchi e nuovi, i nostri infilano poi un medley utile solo a rovinare quattro ottime canzoni (“Hell”, “Shout 2000”, “Criminal” e “Deify”) comprimendole in pochi minuti, prima di tornare a fare sul serio con “The Game”. Terminata la prima parte di concerto, volta a recuperare nel giro di un’ora scarsa un’assenza lunga nove anni, giunge finalmente il momento di presentare il materiale più recente: nemmeno il tempo di srotolare il fiammeggiante telone sullo sfondo, ed ecco dunque partire le prime note di “Inside The Fire”, ideale viatico per mandare in visibilio un Alcatraz esaltato a dovere anche dalle successive “Stricken” e “Ten Thousand Fists”. Dopo un solo giro di orologio è però già tempo per i nostri di ritirarsi dietro le quinte, da dove usciranno qualche minuto dopo per un paio d’imperdibili encore (la title-track dell’ultimo album e “Down With The Sickness”) inframezzati da un tanto lungo quanto tedioso drum solo. Alla fine possiamo dunque parlare di uno show formalmente valido ma scarsamente coinvolgente dal punto di vista emotivo: se infatti, grazie ad una set-list mirata, l’esaltazione non è mancata, un’attesa durata quasi un decennio avrebbe meritato un trattamento migliore della freddezza riservata dai quattro disturbati on-stage nei settatantacinque minuti d’orologio gentilmente concessici.