Report a cura di Chiara Franchi
Una serata con gruppi del calibro di Harakiri For The Sky e Dool a pochi chilometri da casa è un argomento più che convincente per spostare qualsiasi impegno e guidare fino al Revolver Club di San Donà di Piave in una leggera pioggia di fine inverno. La combo di headliner, che pure unisce atmosfere e generi piuttosto lontani tra loro, è accomunata dalla classe delle rispettive proposte, vere e proprie raffinatezze underground che fanno di questo concerto un evento ghiottissimo per un pubblico dai gusti sofisticati. Un plauso quindi alla gestione del locale, che regala cartelloni così raffinati finanche nella Nordestia più agricola e spietata. Minor plauso va invece all’utenza autoctona che, a fronte di diverse persone accorse addirittura dalla Lombardia e dall’Emilia-Romagna per assistere alla serata, ha fatto registrare presenze tristemente inferiori a ciò che l’evento avrebbe meritato. Scritto ciò, passiamo subito in rassegna il ricco carnet di band che ha calcato il palco del Revolver…
AFRAID OF DESTINY
In linea con quella che sembra essere ormai una strategia consolidata della venue, l’apertura della serata è affidata a una band di locals, garanzia di una discreta affluenza di amici e sostenitori fin dall’apertura dei cancelli. Stavolta è il turno dei trevigiani Afraid Of Destiny, giovane formazione dedita ad un black metal atmosferico che viaggia tra il depressive e le arie di una certa scuola d’Oltreoceano. La proposta della band è perfettibile, ma non per questo sgradevole. Il sound è piacevole, i brani emotivamente carichi, l’esecuzione buona. Manca, come spesso accade, un tratto veramente personale e soprattutto mancano dinamiche coinvolgenti: le canzoni, che raccolgono alcuni spunti validi, alla lunga risultano ripetitive e un po’ piatte. Il senso di stasi è appesantito dalla presenza scenica praticamente assente, in cui l’onere di tenere il palco grava tutto sul cantante R.F.: del resto, come chi ama certe derive del metal estremo sicuramente sa, risultare convincenti stando immobili sul palco non è impresa semplice. Ma i ragazzi sono molto giovani, le basi di partenza discrete e le possibilità di miglioramento ancora da cogliere sono veramente tante. Siamo fiduciosi.
ISHVARA
Strane creature, gli Ishvara. Il quartetto di casa nostra propone infatti un miscuglio di generi piuttosto personale, in cui la Nera Fiamma incontra sfumature industrial, accenni elettronici e accattivanti intarsi di melodia. Il tutto in abiti di scena che ricordano molto (forse troppo) quelli dei Terra Tenebrosa in versione futuribile. A fronte di un’intro in cui scariche di rumore bianco si abbattono sul pubblico per diversi minuti, la band rivela subito il suo lato catchy e originale, che sembra accostare in modo abbastanza convincente una molteplicità di spunti diversi. Per farvi una vaga idea dell’effetto generale, immaginate un incrocio tra le sonorità degli Aborym e le linee vocali di una certa tradizione occult metal, pur con un netto distacco dai fasti della storica formazione romana. Purtroppo, i suoni sono talmente confusi e pastosi che è impossibile capire davvero cosa stia succedendo sul palco e non ci resta che salutare gli Ishvara con la curiosità di scoprire qualcosa in più con l’uscita del loro primo full-length.
HARAKIRI FOR THE SKY
Chi vi scrive era impaziente di vedere dal vivo gli Harakiri For The Sky, band che a nostro modesto parere potrebbe ambire ad imparentarsi, per intensità emotiva e poetica, a band del calibro di Katatonia, Alcest e Wolves In The Throne Room. Il motivo principale di tanta attesa era l’innata convinzione che la formazione austriaca compensasse con la presenza live certe lungaggini che la rendono talvolta un po’ pesante su disco. Invece, purtroppo, l’esibizione degli HFTS ingigantisce la prolissità di certi passaggi, aggravata da un sound deludente (per qualche motivo, la band è stata costretta a fare il soundcheck a scena aperta pochi minuti prima dello show). La performance presenta, in realtà, una evidente cesura fra la resa della parte strumentale – buona nonostante l’equalizzazione barbarica, sempre in equilibrio fra l’epico e il fiabesco – e quella della voce, drammaticamente piatta. JJ Wahntraum riduce il suo ruolo a quello di un urlatore che si aggira per il palco privo di espressione, oltre che di espressività, trascinando l’esibizione in momenti di autentico tedio. Certo, la bellezza di brani quali “Lungs Filled With Water” o della più recente “Fire Walk With Me” tocca comunque, in qualche modo, le corde dell’anima, soprattutto grazie al riffing potente e romantico che caratterizza gli HFTS e che lascia intravedere scenari fantastici e malinconici anche nella selva di suoni sporchi. Ma sulla lunga distanza, complice la cattiva acustica, la monotonia del cantato e la durata eccessiva della performance, nulla possono le vibranti melodie della formazione salisburghese: quando le ultime note di “Jhator” si dissolvono nell’aria, più di qualcuno tira un sospiro di sollievo.
DOOL
I Dool ci sono piaciuti fin dal primo ascolto, anche se ammettiamo che non ci avevano fatto fare il fantomatico salto sulla sedia. Li avevamo inquadrati come una buona band frutto del grande revival Seventies di questi ultimi anni, fautrice di un rock diretto ma non per questo parco di spunti. Nulla, però, ci aveva preparati all’impatto con la loro travolgente presenza live. Se gli Harakiri For The Sky, almeno in questa occasione, hanno perso un po’ della loro magia una volta saliti on stage, i Dool rivelano invece una personalità fortissima, incredibilmente groovy ed evocativa, che coinvolge il pubblico fin dalle prime note. La carismatica cantate Ryanne van Dorst è un vero animale da palcoscenico, forte di una presenza magnetica e di una voce versatile, oltre che di un approccio quasi carnale con la sua chitarra. Notevolissima anche la prestazione degli altri musicisti (ben tre le chitarre, in tutto, coadiuvate da una sezione ritmica di tutto rispetto). Del resto i Dool non sono propriamente dei novellini: da un lato troviamo infatti Job van de Zande e Micha Haring, basso e batteria dei furono-occult rocker The Devil’s Blood; dall’altra la van Dorst, che vanta una carriera piuttosto variegata, con influenze che vanno dal punk al folk moderno à la Chelsea Wolfe. Formazione di gente navigata, quindi, ma che per ora ha un solo album all’attivo, l’ottimo “Here Now, There Then”, che naturalmente la fa da padrone nella setlist. Dal vivo i brani sono ancora più belli, a cominciare dall’opener “The Alpha”. Ad arricchire la scaletta, gli olandesi propongono un paio di inediti (che speriamo di ascoltare presto in un nuovo full-length) e una cover dei Killing Joke, “Love Like Blood”, declinata in una chiave dolente e fumosa. La performance si chiude su “Oweynagat” e, nonostante il pubblico sia poco numeroso, una piccola folla si riunisce quasi subito al banco del merchandise. Una band che vale veramente tutto il prezzo del biglietto e che consigliamo a chiunque: da parte nostra, siamo entrati da ascoltatori e siamo usciti da fan.