Report di Alessandro Elli
Foto per gentile concessione di Tancredi Cassina (Quest For Fire photography)
Il Doom Heart Fest è ormai un evento consolidato: organizzato di nuovo allo Slaughter Club di Paderno Dugnano (MI) dalla pagina Doom Heart (nella persona di Alberto Carmine) con la collaborazione della band bresciana degli (EchO), è arrivato alla quarta edizione (quinta se si considera la puntata 3.5, versione tutta italiana messa in piedi durante la pandemia, meno di sei mesi fa) e raduna band di spicco della scena doom metal in tutte le sua sfaccettature. A dir la verità, quest’anno è parzialmente mancata la varietà tipica dell’evento, in quanto tutte le formazioni invitate erano in qualche modo ascrivibili all’universo death-doom metal (e tra l’altro piuttosto di nicchia), ma la qualità della musica proposta anche in questa occasione è stata decisamente rilevante. Peccato che, a causa della concomitanza con altri concerti e probabilmente anche della finale di Champions League, l’affluenza non sia stata all’altezza della situazione; i presenti hanno, in ogni caso, trascorso un’ottima serata, ovviamente all’insegna dei suoni più oscuri.
Sono circa le 19,40, orario inconsueto per una musica che invoca l’oscurità, quando sul palco si presentano i FOR THE STORMS. Dopo le ottime impressioni lasciate circa sei mesi fa dall’esordio “The Grieving Path”, è tempo per la band bresciana di rompere il ghiaccio anche in sede live e, sicuramente non sarà una sorpresa per chi conosce questi ragazzi, la qualità dei cinque è confermata anche da questa solida esibizione. Il loro è un death-doom metal sulla scia di band quali Katatonia o Swallow The Sun, quindi una proposta abbastanza canonica nella forma, ma le doti compositive e tecniche, la capacità di tenere la scena e l’intensità dello show sono notevoli, considerando anche la giovane età dei componenti del gruppo. Buoni anche i suoni che, anzi, sono migliorati durante il corso del concerto per stabilizzarsi nella seconda parte, proprio quando i lombardi hanno proposto i pezzi più atmosferici del lotto. Se continuano così, ne sentiremo parlare di sicuro.
Tocca ora al gruppo di casa: gli ESOGENESI sono, infatti, una formazione milanese che ha debuttato con un disco omonimo tre anni orsono ed il cui percorso, per quanto riguarda i concerti, è stato bloccato dalla pandemia e da alcuni cambi di line-up, che ne hanno rallentato parecchio la fase compositiva. Questa possibile mancanza di affiatamento non ha intaccato la prestazione dei cinque, se non forse dal punto di vista visivo, con i musicisti che erano immobili sul palco; sul piano musicale, però, tutto ciò non ha rappresentato un problema, con tutti i cinque musicisti che hanno trovato presto una certa coesione nel proporci i pezzi del vecchio album ed inediti. Ancora una volta si tratta di doom con forti venature death metal, con gli Esoteric come possibile riferimento, in questo caso reso ancora più estremo dalla lentezza esasperante e da un growl profondo e cavernoso. Un viaggio cupo e faticoso, ma anche promettente: questo era solo il primo concerto dopo lungo tempo e tutte le vicissitudini vissute, speriamo di rivedere presto questi ragazzi imbracciare i loro strumenti.
Il terzo gruppo è anche il primo non italiano: i PILGRIMAGE, infatti, curiosamente hanno una provenienza geografica mista tra due paesi distanti tra loro come Malta ed Olanda ed hanno all’attivo un solo disco, “Sigil Of The Pilgrim Sun”, pubblicato lo scorso anno. Anche loro suonano un incrocio tra death metal e doom e, tra tutti, sono forse quelli più tradizionali: si pensi ad una sequenza di riff decisamente serrati, che viaggiano su velocità non molto elevate, in stile Candlemass potremmo dire, con la voce in growl, e su questo tappeto delle aperture melodiche che possono ricordare gli Anathema con cantato pulito. Ovviamente qui non si inventa nulla, stiamo parlando di un misto di generi già ampiamente consolidati, ma a colpire è l’intensità dell’esecuzione e la compattezza e l’amalgama che questi musicisti sono riusciti ad ottenere , pur non avendo alle spalle una carriera lunghissima (anche se alcuni di loro non sono certo di primo pelo, avendo alle spalle esperienze con Weeping Silence, Victims Of Creation, Saturnine). Si tratta di una band passata probabilmente sotto i radar di molti magazine musicali ed il consiglio è quello di recuperarne il valido esordio.
Rapido cambio di strumentazione e la penultima band entra in scena: i DESCEND INTO DESPAIR sono romeni, sono autori di tre full-length in dodici anni di carriera e ci propongono il set più ostico della serata. In questo caso, infatti, possiamo parlare di un funeral doom che sa essere incisivo e deprimente quando è il caso, ma anche costellato di momenti che vanno dal black metal, all’elettronica, allo sludge e al dark ambient. Una proposta variegata eppure al tempo stesso monolitica ed oppressiva, con pezzi lunghissimi ed elaborati che hanno l’intento evidente di gettare lo spettatore nel più profondo sconforto. Particolarmente studiata la presenza scenica, con tutti i sei componenti del gruppo vestiti completamente di nero e lo statuario cantante/chitarrista nel bel mezzo del palco, con un forte carisma, a fare da oscuro cerimoniere. Il suono, con tre chitarre e le tastiere, è ovviamente molto ricco ma a sorprendere è la prestazione vocale, che sciorina un campionario di differenti tipi di scream, growl e voci pulite. Anche loro non molto popolari dalle nostre parti, ma sicuramente per chi li ha visti stasera è un obbligo andarne a riscoprire la discografia.
E’ ormai tardissimo quando l’ultima formazione sale sul palco dello Slaughter: si tratta degli HAMFERÐ che, a proposito di luoghi di provenienza improbabili, vengono addirittura dalle Isole Fær Øer. Il loro melodic doom-death metal è sicuramente molto personale, ed è reso distinguibile dalla presenza di quegli elementi tipici delle culture nordiche, da una malinconia sempre sotto traccia e, soprattutto, da una drammaticità tangibile. Peculiarità che la band, come molti altri gruppi che fanno del mood il loro punto di forza, riesce a traslare solo in parte durante gli show dal vivo, ma poco male, idal momento che i sei riescono a sopperire a ciò con un impatto notevole. Anche in questo caso, l’effetto visivo ricopre un ruolo importante: tutti i membri della band hanno un look curatissimo e sono impeccabili nel loro completo composto da smoking e cravatta (tranne, per ovvie ragioni, il batterista) e sanno tenere la scena da consumati professionisti. Degna di menzione la prova del cantante che, oltre a dimenarsi come un pazzo per tutta la durata del concerto, mette in mostra un range vocale di tutto rispetto, passando con disinvoltura da toni suadenti e sussurrati ad un growl dirompente, arrivando a lambire in alcuni momenti il limite dell’operistico.
In conclusione, un’altra edizione che non ha deluso, forse senza nomi di punta, ma con cinque concrete realtà che hanno saputo fare la loro parte.