Il Doom Over London è la creatura principale della Funeral Of Mankind Promotions, piccola booking agency londinese che da qualche anno si occupa di organizzare nella capitale britannica show di realtà underground o rassegne doom e black metal dai bill altamente selezionati. Si punta insomma più sulla qualità che sulla quantità, per presentare agli appassionati locali gruppi che non sono soliti suonare spesso dal vivo nel Regno Unito, band “di culto” e varie chicche per cosiddetti intenditori dei suddetti generi. Il Doom Over London giunge quest’anno alla sua terza edizione e, dopo aver ospitato in passato Lord Vicar e Saturnus come headliner, quest’anno si affida ai tedeschi Ahab per imporsi definitivamente come l’evento annuale per tutti i doom maniac londinesi. La risposta è la migliore possibile: locale – il rinomato Garage – sold out già alcune settimane prima del festival e grande partecipazione del pubblico già dalle prime ore del pomeriggio. Da segnalare, infine, un’organizzazione perfetta, che ha gestito al meglio la giornata, compresi i problemi tecnici che hanno colpito gli headliner prima della loro performance. Davanti a un tale risultato, c’è da essere sicuri che l’happening ritornerà anche nel 2013, magari in una veste anche un po’ più ambiziosa. Chi vivrà vedrà, come si suol dire. Nel frattempo, let there be doom!
EYE OF SOLITUDE
Sono i giovani Eye Of Solitude ad aprire ufficialmente il Doom Over London 2012. I ragazzi provengono tutti da formazioni locali e sono tutto sommato dei volti noti agli avventori dei concerti della capitale. Con due full-length e un EP all’attivo a poco più di due anni dalla formazione, gli Eye Of Solitude hanno dimostrato di essere un progetto serio nelle intenzioni e voglioso di migliorarsi: quest’oggi, giocando in casa, si esibiscono davanti al “loro” pubblico e fanno di tutto per ben figurare. I suoni, almeno inizialmente, non li premiano, ma il doom-death dei ragazzi riesce comunque a farsi strada tra gli astanti, convincendo soprattutto nei momenti più brutali, sui quali il frontman Daniel Neagoe (dei death metaller Unfathomable Ruination) è solito esaltarsi. La proposta del gruppo è basata su ritmiche possenti e un incedere solenne, sovente spezzato da intervalli più romantici; su questi ultimi i Nostri dovrebbero forse lavorare meglio, visto che a volte risultano un po’ slegati dal contesto, ma l’impatto complessivo è comunque soddisfacente e ricorda con una certa insistenza Draconian e primi Swallow The Sun. Il breve show si chiude tra i generosi applausi di un pubblico ormai del tutto acclimatato.
FAAL
Il secondo slot della giornata è occupato dagli olandesi Faal, altra oscura realtà del circuito doom-death metal europeo. In verità, il sound del quintetto si rivela ben presto dalla grana più fine del previsto, nel suo inglobare influenze e soluzioni black e “post” rock/metal. In effetti, a tratti sembra di essere al cospetto di una versione più lenta e pesante degli Altar Of Plagues, gruppo con il quale i Nostri sembrano pure avere in comune la passione per certo immaginario urbano-decadente. La loro presenza scenica di certo non brilla particolarmente, ma, a differenza degli Eye Of Solitude, i Faal possono godere di suoni maggiormente definiti, nonchè su un sound tutto sommato più personale, che non fatica a destare l’attenzione dei presenti. Purtroppo di fronte al wall of sound non riusciamo a cogliere tutti gli intrecci chitarristici inseriti nei vari pezzi, ma le melodie della nuova “My Body Glows Red”, che la band propone subito in apertura, riescono comunque a rimanere immediatamente impresse e a coinvolgere anche i neofiti. Davvero valido questo pezzo, come d’altronde gli altri estratti dalla nuova fatica “The Clouds Are Burning”, che i Faal sono intenti a promuovere da qualche mese. Se proseguiranno su questa strada sentiremo ancora parlare di loro.
THE DROWNING
Si torna su un sound più classico con i gallesi The Drowning, formazione ormai esperta, essendo in attività già dal 2003. Abbiamo gradito parecchio il loro ultimo album, “Fall Jerusalem Fall” e ci fa piacere constatare che il gruppo ci sappia fare anche sulle assi di un palco. Il frontman James Moore, in verità, ci appare un po’ pacchiano con le sue movenze teatrali e il trucco sul viso, ma di certo non si può dire che non faccia del suo meglio per coinvolgere gli astanti e offrire uno spettacolo il più visivo possibile. Il resto della band, dal canto suo, suona con padronanza e punta tutto su un classico headbanging, reso ancor più spontaneo dalla scelta di proporre esclusivamente i brani più aggressivi del repertorio, tra cui spicca la feroce “The Obsidian Fires”. Molta gente pare essere qui per i The Drowning e questi ultimi si ritrovano così a essere, come giusto, il centro dell’attenzione durante il loro set: in pochi bighellonano dalle parti di merchandise e beveraggi… ogni pezzo viene accolto o salutato da grandi applausi e i ragazzi chiudono la performance in crescendo, andando quindi a soddisfare pienamente le aspettative che si erano create attorno al loro concerto. Speriamo che in futuro continuino a essere produttivi e ispirati come sinora.
WITCHSORROW
Dopo tre formazioni mediamente raffinate, spetta ai Witchsorrow “sporcare” una volta per tutte le assi del palco del Doom Over London. Il terzetto, che fa parte del roster della Rise Above Records, è infatti artefice di uno stoner-doom decisamente grezzo e maschio (nonostante la presenza della piccola Emily Witch al basso), il quale ricorda i Cathedral di metà carriera così come Count Raven, Reverend Bizarre e, naturalmente, Black Sabbath. Nemmeno a dirlo, la loro performance è molto fisica e brutale, quasi “maleducata” se paragonata a quelle dei gruppi che hanno preceduto i Witchsorrow; sino a qui aveva ristagnato un’atmosfera quasi di raccoglimento, mentre il terzetto prende letteralmente a calci in culo l’audience e la sveglia dal suo presunto torpore. Non riusciamo a trovare chissà quali elementi distintivi nel sound della band, ma essa è in ogni modo brava a farsi notare e a far leva sulle sue qualità, ovvero groove, impatto e presenza scenica. Non tutti fra gli astanti apprezzano, ma chi decide di restare nella sala (comunque un buon numero) si vede trascinato nella polvere e percosso senza sosta dalla chitarra slabbrata del frontman Necroskull, che, col suo modo di fare affabile e schietto, contribuisce a far spiccare ulteriormente i Witchsorrow tra le altre band della giornata. Bella prova.
INDESINENCE
Si entra definitivamente nel vivo del festival con gli Indesinence, solidissima realtà death-doom londinese che vanta la presenza di ex e attuali membri di Esoteric, Pantheist, Binah, Cruciamentum e Grave Miasma nella propria lineup. Il nuovo “Vessels Of Light And Decay” è fresco di stampa su Profound Lore e i Nostri decidono di presentarlo proprio al Doom Over London, venendo incontro alle frequenti richieste dei fan, che spesso si lamentano della scarsa attività live dei ragazzi. Il cantante/chitarrista Ilia Rodriguez guida la band e si dimostra perfettamente a suo agio nel ruolo di frontman sin dalle primissime battute. Il sound degli Indesinence in concerto prende una piega più brutale e death metal, ma anche le soluzioni prettamente doom traggono beneficio dalla resa sonora live: il tutto suona maggiormente pesante e verace, oltre ad acquistare un pizzico di volgarità, soprattutto grazie a un Rodriguez che incita la folla, si sbraccia e si muove il più possibile sul piccolo palco. Una “comparsata” di Greg Chandler degli Esoteric dietro al microfono rende l’esibizione più speciale e caratteristica, ma sin qui gli Indesinence se la erano comunque cavata benissimo da soli. Gli applausi scrosciano e il banchetto del merchandise viene saccheggiato. Per il quartetto è un piccolo trionfo.
OFFICIUM TRISTE
Avevamo dato per dispersi gli Officium Triste, gothic-doom metal band olandese mai troppo fortunata. Ce li ritroviamo invece in quel di Londra, addirittura in veste di pre-headliner dell’evento e, a quanto pare, con un nuovo album in uscita nella prima parte del 2013. I cultori del genere non hanno bisogno di presentazioni da parte del gruppo, ma è evidente che questa sera i Nostri preferiscano adottare un profilo basso e porsi con estrema umiltà davanti a una folla che per buona parte non li conosce. Gli Officium Triste fanno parte di quella scena che negli anni Novanta ci ha donato gruppi come The Gathering, Celestial Season e Orphanage e il loro sound, fatto di chitarre possenti e ariosi giri di tastiere (a tratti in vero un po’ pacchiani) è quello tipico di quel vecchio filone dei Paesi Bassi; un sound che non pare essere invecchiato molto bene, come già abbiamo avuto modo di constatare con i suddetti Celestial Season all’ultimo Roadburn. La musica, in effetti, risulta un po’ datata, quasi ampollosa nelle parti dominate dalle tastiere e, in generale, prevedibile alle orecchie di un ascoltatore smaliziato. In ogni caso, poco o niente si può rimproverare agli Officium Triste, che suonano con indubbia passione e trasporto i loro cavalli di battaglia, arrivando anche a proporre un inedito – “The Wounded And The Dying” – che gli astanti dimostrano di apprezzare. Del resto, se questa band è andata avanti sino ad oggi un motivo ci sarà… probabilmente la “colpa” è nostra, che questa sera ci sentiamo poco romantici o nostalgici.
AHAB
Passa diverso tempo prima che il concerto degli headliner abbia inizio. Pare sussistano seri problemi tecnici con un ampli e una testata e i membri della band e gli addetti ai lavori sembrano più volte indecisi sul da farsi, o completamente disorientati. A un certo punto, dopo vari tentativi andati a vuoto, viene presa la decisione di procedere comunque, per evitare di tagliare ulteriormente il set. Gli Ahab appaiono visibilmente frustrati e il loro stato d’animo si riflette evidentemente nella performance, che nei momenti più brutali assume un’urgenza e una cattiveria inedite per la band (sarà anche perchè il batterista Cornelius Althammer indossa una t-shirt dei Nasum?). Il quartetto tedesco si getta a capofitto nella performance, concedendosi giusto un paio di pause per dar modo a Daniel Droste di presentare il gruppo e di spiegare le ragioni del ritardo. “The Divinity Of Oceans” è il pezzo che ci vuole per spezzare la tensione, ma apprezziamo anche la nuova “Deliverance (Shouting At The Dead)” per la sua impronta più ariosa, vocalmente gestita al meglio da un Droste in notevole forma. Rispetto agli inizi, il gruppo ha perso un bel po’ della sua carica soffocante e della propria matrice tipicamente funeral doom, ma è innegabile che i ragazzi siano ancora degli ottimi compositori, ora in grado di cimentarsi con diversi tipi di soluzioni e sonorità. Il pubblico però, almeno per buona parte, si esalta davvero con l’arrivo delle vecchie “Old Thunder” e “The Hunt”, con le quali gli Ahab, mettendola sul fisico, investono le prime file con ondate di distorsioni e urla abissali. Probabilmente i ragazzi d’ora in poi dovranno sempre fare i conti con coloro per i quali “i primi album erano migliori”, ma siamo sicuri che la loro coerenza e il loro talento riusciranno a non far disperdere troppo i fan. D’altronde, già questa sera è andata così: nonostante le difficoltà iniziali e una setlist variegata, gli Ahab hanno chiaramente dimostrato di essere spanne sopra le altre formazioni, irretendo il pubblico e sfoggiando classe e carisma in ogni episodio. Promossi ancora una volta.