DOWN
… Difatti non c’è nessuna band di apertura. Con una mossa originale, ma non completamente azzardata (Kirk, ridendo, ce la descrive nei camerini come una scelta dettata dal portafogli, ndR), al posto del gruppo d’apertura, dinanzi al palco il pubblico trova un telone bianco, dove verrà proiettato un lungo documentario che mostra i gruppi che hanno influenzato i cinque musicisti, mischiato a spaccati della vita on the road. Una lunga introduzione che alza il livello d’attesa, ma contemporaneamente non costringe la platea al solito snervante soundcheck/cambio palco. Dopo un’ora esatta, in un locale in configurazione “Palco B”, diviso dal solito tendone, accoglie tutti i fedelissimi presenti, che si riveleranno una delle migliori audience che una band possa desiderare. Quando cala il sipario l’hype è alle stelle e tutti sono pronti ad abbracciare, sostenere, ricambiare la densa energia che la band riversa con una sintonia artistica con pochi eguali. Già dall’opener “Pillars of Eternity”, ma anche nelle successive “The Path”, “On March the Saint” e “Three Suns and One Star” il pubblico, preparatissimo, è pronto sia a cantare a squarciagola che a scherzare con la band, in una dimostrazione di fedeltà che ha dell’assoluto, quasi irreale. Innegabile come la maggior parte degli occhi siano su Phil Anselmo: ‘Cowboys From Hell’ adoranti, donzelle estasiate, appassionati con sguardo critico, addetti ai lavori, tutti sono concordi nella rinascita artistica di uno dei frontman più significativi del mondo dell’heavy. Se i compagni di palco appaiono notevolmente ingrigiti (Kirk su tutti, anche se conserva una simpatia unica), Phil, dopo un impressionante intervento alla schiena, appare fisicamente come ringiovanito di dieci anni, e – fatto quasi incredibile per chi ha assistito al Gods Of Metal 2006 – del tutto sobrio, totalmente concentrato sulla performance, tanto da annullare quasi del tutto i classici sproloqui deliranti, limitandosi a dosati interventi perlopiù per ringraziare un pubblico tanto caloroso. La band è impeccabile, e lo dimostra nel toccante blues di “Learn From This Mistake” e “Jail”, riuscendo a trasportare nel profondo sud l’intero locale, con tanto di bandiera degli Stati Confederati che sventola, dove Pepper diviene protagonista indiscusso. Gran riscontro e impressionante resa per gli estratti dal terzo capitolo, intensi come i brani migliori degli album precedenti, ma è indubbio che il meglio è pescato dal capolavoro “Nola”, da “Lifer” a “Hail the Leaf” all’immancabile, stupenda, attesissima “Stone The Crow”. L’encore regala anche “No Is A Dying Whore”, prima di terminare con una versione allungata di “Bury Me In Smoke” dove Rex passa il basso a Phil, Kirk e Pepper salutano ampiamente il pubblico, e la jam prosegue fino al saluto del frontman, che in intimità totale con gli accorsi invita ad intonare le ultime strofe, dando appuntamento alla data di luglio coi Metallica. Due ore di spettacolo ad una tale intensità erano totalmente impossibili da prevedere: ripensandoci è inevitabile considerare come il concerto lasci il sapore dell’evento.