Report a cura di Luca Paron
Dopo il grande successo ottenuto oltreoceano, il carrozzone del Progressive Nation 2009, capitanato da Mr. Mike Portnoy e dai suoi Dream Theater, giunge in Europa per una serie di mini-festival all’insegna della grande musica. Ecco il resoconto dell’ultima delle quattro date italiane, che ha visto condividere il palco con i newyorkesi act di indubbio valore come Opeth, Bigelf ed Unexpect.
UNEXPECT
Presentatisi sul palco con un buon quarto d’ora d’anticipo in una Zoppas Arena non ancora gremita, i canadesi Unexpect sfoderano ancora prima della musica un variopinto impatto visivo, creato dalle tuniche da prete indossate da bassista e chitarrista, dalla tenuta gothic-fetish della cantante e dall’indiscussa agevolazione dell’essere in sette a calcare le assi del proscenio. I suoni non sono ancora perfetti e, malgrado tendano a migliorare con l’andare dell’esibizione, non permettono mai di godere pienamente delle intricate architetture sonore del gruppo, forse più apprezzabili tra i solchi dei lavori in studio ma eseguite da una band in buona forma in quanto a impatto, presenza scenica e comunicatività. Parti di violino, incastri prog-metal, voci growl e celestiali e mille altre schegge completano un quadro complesso e che un poco perde organicità nel marasma del bilanciamento dei volumi, lasciando la sensazione finale di una mezz’ora che vale il posto in scaletta.
BIGELF
Introdotti dall’”Imperial March” di guerre stellari, giusto per contestualizzare il periodo musicale di riferimento, tocca ora ai Bigelf scaldare il pubblico della serata. Non solo Deep Purple e Black Sabbath nel D.N.A. dei quattro freak d’oltreoceano, ma anche il gusto di riportare in vita il suono di band meno ricordate ma comunque importanti come Uriah Heep e Tempest, e addirittura i King Crimson di “In The Court Of The Crimson King” in alcune partiture di hammond e mellotron. Canzoni molto lunghe, il cantante che si divide tra tastiere vintage e parti vocali questa sera ben eseguite, interpretazioni dilatate e cariche di feeling ed il set che si conclude con l’ultimo singolo “Money”, incrocio tra Beatles e Jimi Hendrix, ci lasciano l’idea di musicisti che sul palco sono a casa loro e che credono fermamente di essere tornati indietro di trentacinque anni, all’epoca in cui la vera bravura la dimostravi dal vivo. Convincenti, anche se non originali.
OPETH
Forse l’unica cosa che alla fine manca questa sera dopo lo show del quartetto svedese è l’effetto sorpresa: lontani sono ormai i tempi in cui agli Opeth si rinfacciava una certa staticità in scena e una mancanza di carisma del leader Mikael Åkerfeldt, soprattutto al momento di comunicare e interagire con l’audience. Capiamoci bene: non che i nostri siano divenuti di colpo i Kiss, ma il loro meccanismo sonoro è talmente oliato e perfetto da far passare in secondo piano tutto il resto. Tra la dedica ad Eros Ramazzotti di “Deliverance” e un siparietto in cui si chiama in causa il fotomodello Fabio come simbolo dell’italianità nel mondo (che qui in verità nessuno conosce!), i tre quarti d’ora a disposizione scorrono che è un piacere, alternando pezzi da momenti diversi della discografia del gruppo. Dopo l’iniziale “Windowpane” ecco “The Lotus Eater”, episodio estratto dall’ultimo “Watershed” e carico di piccoli esperimenti sonori che dal vivo faticano ad imporsi; ecco ancora “Reverie/Harlequin Forest” e la lunga “The Leper Affinity”, che danno ulteriore prova dell’ormai completo inserimento in line-up dei nuovi chitarrista e batterista. A chiudere, la citata ed attesissima “Deliverance” e “Hex Omega”, per una band che va sul sicuro e mette il pilota automatico ma senza risultare assente o svogliata. Piccola critica che non vuole però intaccare la bontà dell’esibizione: le tastiere di Per Wiberg, così importanti per l’economia musicale in studio, risultano quasi schiacciate dalla preponderanza degli altri strumenti, almeno stasera.
DREAM THEATER
Ed ecco finalmente il piatto forte della serata! Attesi da un’arena piena ma non sold-out, gli americani hanno scelto per questo tour di suonare meno tempo di quanto siano soliti limitando le canzoni ad una sola decina. Se la cosa può aver infastidito chi è qui solo per loro, tutto sommato gioca invece a favore dell’economia del mini-festival, rendendo l’esperienza più concentrata ma più intensa e fruibile. Dopo l’intro di Hitckcockiana memoria, un LaBrie in formissima accoglie gli ospiti introducendoli ai colori scuri dell’ultimo “Black Clouds & Silver Linings”: “A Nightmare To Remember” serve da prologo e svela la bellissima scenografia del palco tutta incentrata su nuvole plumbee e giochi di luce. Strappa qualche sorriso il “growl” di Portnoy a metà pezzo, che a dire il vero ricorda più il vocione di Gene Simmons. “Prophets Of War”, non lo scopriamo ora, è niente di più che un chiaro omaggio ai Muse, se non fosse per il coro cantato a gran voce dai fan e che colpisce sempre. È già tempo per l’assolo di Jordan Ruddess, favoloso come al solito e questa volta “assistito” da un maghetto virtuale sui maxischermi per duelli all’ultima nota. Idea molto divertente. Commovente “Sacrificed Sons”, accompagnata da immagini dell’America ferita dalla tragedia dell’11 settembre e interpretata superlativamente dalla band al completo. Malgrado l’audio abbia avuto ancora qualche lacuna, a questo punto del concerto comincia a migliorare e permette di apprezzare al meglio “Wither”, ultimo singolo e vetrina delle capacità emozionali di LaBrie. Sarà opinione solo personale, ma il singer canadese per chi scrive rende molto meglio sulle partiture più pacate, svelando tutti gli armonici di cui è dotato. “The Dance Of Eternity” è il bignami delle parti strumentali più conosciute dei Dream, capace di emozionare anche solo per l’incredibile ma solita perizia dei musicisti; se poi aggiungete che l’ottima regia video non ha perso uno solo degli unisoni, dividendo i maxi schermi in due o più parti nei momenti strumentalmente più intricati, il divertimento è assicurato. Petrucci non manca poi di regalare ai fan assiepati sotto la sua postazione un funambolico assolo durante “Solitary Shell”, teatro anche di una jam improvvisata a quattro che ha alternato momenti più spediti ad altri molto rilassati. L’osannata “Take The Time” sembra chiudere in bellezza uno show forse più sobrio e senza troppi “sbrodolamenti” strumentali, facendoci vedere il volto più concreto dei Dream Theater, ma c’è ancora tempo per il bis: i venti minuti di “The Count Of Tuscany” salutano il pubblico della Zoppas Arena e lasciano un ricordo più che positivo dell’intera serata. Un plauso convinto alla band, anche per la scelta valida e trasversale dei gruppi spalla.