17/02/2020 - DROPKICK MURPHYS + FRANK TURNER & THE SLEEPING SOULS + JESSE AHERN @ Alcatraz - Milano

Pubblicato il 21/02/2020 da

Report a cura di Carlo Paleari
Fotografie di Simona Luchini

Una grande festa. Non ci sono parole migliori per descrivere l’intensa serata milanese vissuta dal pubblico dell’Alcatraz. Una festa che unisce tre realtà molto diverse tra loro, che però hanno le stesse radici: la tradizione festosa del folk, l’energia scatenata del punk e storie randagie di vite di strada, per un abbraccio collettivo grande come l’oceano e che unisce il Massachussets a Camden Town. La platea milanese è numerosa e, pur raggiungendo il suo picco naturale con l’esibizione dei Dropkick Murphys, si dimostra carichissima anche durante l’esibizione di Frank Turner (che svolge quasi un ruolo da co-headliner, pur avendo un po’ meno tempo a disposizione in scaletta), seguendo con attenzione anche lo show in solitaria di Jesse Ahern. Vi lasciamo, dunque, alla nostra cronaca della serata.


JESSE AHERN

Quando varchiamo la soglia dell’Alcatraz, Jesse Ahern ha da poco iniziato la sua esibizione. Da solo, chitarra acustica e armonica a bocca, il cantautore statunitense si presenta con un breve set di canzoni nella loro forma più spoglia e diretta, come vuole la grande tradizione della canzone d’autore folk. Complice la vocalità calda e ruvida, viene spontaneo associare la performance di Ahern a quelle in solitaria di Bruce Springsteen, uno di quegli artisti capaci di ammutolire cinquantamila persone in uno stadio semplicemente con due accordi di chitarra e la sua voce. Jesse Ahern, però, si differenzia dal Boss per un approccio meno malinconico, con ritmiche più sostenute che mostrano il suo background punk, ben rappresentato anche dalla cover di “Bankrobber” dei Clash. Certo, la natura stessa di questo tipo di performance trova la sua natura ideale in un contesto più raccolto, ponendo attenzione ai testi e alle storie raccontate; ciononostante, tra Jesse e il pubblico si crea la giusta connessione e il cantante viene salutato da un sentito applauso.

FRANK TURNER & THE SLEEPING SOULS
Se il concerto di Jesse Ahern ha mostrato il volto più confidenziale della musica folk, Frank Turner e la sua band salgono sul palco e investono gli astanti con un’ondata di energia pura. Il pubblico conosce la musica di Turner e si capisce subito come lo spettacolo che verrà messo in scena non avrà niente da invidiare a quello degli headliner. ‘Benvenuti al nostro concerto nr. 2455!’, grida Turner, e l’esperienza macinata in centinaia di palchi si vede tutta: la band è compatta e riversa sul pubblico la sua miscela di punk, rock e folk, il tutto avvolto in una squisita patina melodica che definiremmo pop, nella sua accezione etimologica più nobile. Ma tutto questo impallidisce di fronte alla prova offerta dallo stesso Frank Turner, che si conferma in assoluto uno dei migliori frontman sulla piazza. Il cantante non sta fermo un attimo, trascina il pubblico e lo incita costantemente; pur senza perdersi in chiacchiere, cerca di parlare con la platea. Certe volte si tratta di una battuta veloce (‘lo so che questa sera siete venuti tutti per vedere solo me, ma sarebbe cortese da parte vostra restare anche dopo il nostro show, almeno per sentire una o due canzoni della prossima band’, riferendosi ovviamente al nome più grosso nel cartellone), altre occasioni, invece, servono ad introdurre le canzoni, come nel caso di “Jinny Bingham’s Ghost”, che narra la storia di una donna accusata di stregoneria, più di quattrocento anni fa, per avere avuto l’ardire di essere una donna indipendente. Il resto lo fa la sua fisicità messa al servizio dello spettacolo, con il cantante che si butta letteralmente in mezzo al pubblico in uno stage diving liberatorio, che lo porta a continuare a cantare in mezzo alla gente, ballando con loro, se non addirittura mentre viene trasportato in precario equilibrio sulle teste dei presenti. Uno show semplicemente eccellente, dunque, che da solo sarebbe valso il biglietto del concerto: considerando che all’appello manca ancora il piatto forte della serata, davvero non c’è di che lamentarsi.

Setlist

Get Better
1933
The Lioness
Try This At Home
If Ever I Stray
Photosynthesis
Polaroid Picture
Long Live The Queen
Jinny Bingham’s Ghost
Eulogy
The Next Storm
The Road
Out Of Breath
Recovery
I Still Believe
Four Simple Words

 

DROPKICK MURPHYS
‘Let’s go, Murphys! Let’s go, Murphys!’. Passato il ciclone Frank Turner, il pubblico ha ancora voglia di saltare e ballare e, nel buio che precede l’inizio del concerto, chiama a gran voce la band statunitense. Finalmente le luci si accendono e i Dropkick Murphys fanno il loro ingresso sul palco dell’Alcatraz con l’accoppiata “The Lonesome Boatman” e “The Boys Are Back”. La platea esplode tra urla e cori, mentre teste e corpi iniziano a rimescolarsi guidati dagli strumenti elettrici che si fondono con quelli della tradizione: la fisarmonica, il tin whistle e la cornamusa. La prima linea, però, è tutta a disposizione di Ken Casey e Al Barr, che scorrazzano per il palco senza risparmiarsi, intrecciando le loro voci roche e guidando i cori del pubblico. Il muro di suono è certamente impressionante e, sebbene l’acustica non sempre favorisca la gestione delle doppie voci, rendendo un po’ confusi certi passaggi, la cosa viene velocemente accantonata come un’inezia di fronte all’energia profusa. I Dropkick Murphys, dunque, macinano un pezzo dopo l’altro, quasi senza sosta, tra riletture di composizioni tradizionali e grandi classici della band. Brani come “Blood”, “The Battle Rages On”, “First Class Loser”, “Johnny, I Hardly Knew Ya” o “The State Of Massachusetts” rappresentano perfettamente lo stato di salute di una band che è ormai sinonimo di concerti infuocati e selvatici. Tra i brani non originali, particolarmente memorabile la sguaiata e trascinante reinterpretazione di “Amazing Grace”, introdotta dalla cornamusa di Lee Forshner, e la sempre coinvolgente “I Fought The Law” dei Crickets, un brano che, pur essendo del 1960, è diventato parte integrante del patrimonio del punk rock grazie a versioni leggendarie come quelle di Clash e Dead Kennedys. I Dropkick Murphys si congedano, quindi, con una devastante “Going Out In Style”, ma la platea è ben consapevole che c’è ancora qualche cartuccia di grosso calibro da sparare prima di chiudere il sipario. Per prima “Rose Tattoo”, accolta con grande entusiasmo, e poi, naturalmente, quella “I’m Shipping Up To Boston” che ha fatto un po’ la fortuna della band agli occhi del pubblico più generalista. Decine di smartphone si sollevano per catturare qualche frammento per ricordo, con inquadrature sbilenche, essendo tutti troppo impegnati a saltare, e lo show si avvia verso la sua conclusione in una pioggia di coriandoli e con qualche decina di fan che viene fatta salire sul palco. A questo punto potrebbe essere opportuno tirare le somme su quanto visto in questa lunga serata, ma forse questa volta non servono chissà quali analisi. La cosa migliore è lasciare l’ultima parola ad “Until The Next Time”, con cui la band si congeda prima di riconsegnare il suo pubblico alla pioggerella e al traffico del rientro: “We’ll meet again / Don’t know where, don’t know when / We all had a good time / And we’re sad to see it end / Good luck be with you / You go your way, I’ll go mine / So until the next time / It’s farewell and not good-bye”.

Setlist

The Lonesome Boatman
The Boys Are Back
The Fighting 69th
Blood
Prisoner’s Song
Rocky Road To Dublin
The Bonny
The Wild Rover
The Battle Rages On
Sunshine Highway
First Class Loser
Your Spirit’s Alive
(F)lannigan’s Ball
Smash Shit Up
Cruel
God Willing
Amazing Grace
Citizen C.I.A.
Johnny, I Hardly Knew Ya
The State Of Massachusetts
I Fought The Law
Out Of Our Heads
Going Out In Style

Rose Tattoo
I’m Shipping Up To Boston
Until The Next Time

 

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