A cura di Fabio “Ray” Angeleri
L’ideale rotta, zigzagante a causa dell’eccesso di Guinness ingollata, che parte da Boston e arriva al cuore verde e pazzoide dell’Irlanda questa volta ha proseguito e ce li ha scaricati qui, sul palco del Transilvania Live di Milano: arruffati, caotici e stonati (in tutti i sensi…) più che mai, sono tornati fra noi i Dropkick Murphys! Oi oi oi!
DROPKICK MURPHYS
Tempo infame! Neve come neanche in un film natalizio scadente, mista a pioggia fin troppo realistica hanno trasformato le strade di Milano in una sorta di acquitrino popolato da automobilisti più lenti di lumache zoppe e più imbranati di un clown ubriaco. E, difatti, arrivo puntualmente in ritardo nell’atrio di questo Transilvania, che mi provoca un curioso senso di déjà-vu, essendoci stato solo ieri sera per godermi il live dei Sick Of It All; fra l’altro pubblico e temperatura sono anch’essi nella stessa situazione di ieri: poca gente e pochi gradi centigradi… il mio ritardo, purtroppo, ha fatto i suoi danni: faccio infatti appena in tempo a sentire solo l’ultimissima schitarrata e gli urli finali di Roger Miret and The Disasters, gruppo di apertura; e la cosa mi dispiace parecchio, perché mi sarebbe interessato molto ascoltare e poter valutare questo supergruppo, creato dallo storico frontman dei paladini del hardcore metallico newyorkese Agnostic Front, per seguire la sua vena più “leggera” (per modo di dire) street punk e “oi”. Tant’è, che purtroppo Miret e company hanno finito, e non mi resta che ciondolare un po’ in giro fra gli sparuti gruppetti di spettatori in attesa del main event; si vede un po’ di tutto: giovinastri dai capelli spruzzati di spray multicolori, rude boy dalla faccia da galera, generici “indie-ani”, bimbi bravi in camicia e jeans con la piega, e persino qualche…gulp!…skinhead! Mi rendo conto di guardarli con un’apprensione degna solo di una nonna acida e schiava dei pregiudizi e quindi mi riprometto di ignorare ogni discriminazione pseudo-ideologica, una volta che la grande onda trasversale del pogo ci unirà tutti in una fratellanza alcolica e gioiosa. Purtroppo, prima dei nostri agognati Dropkick ci aspetta ancora l’incombenza dei Frenzal Rhomb. La band di punkster australiana si rivela una vera delusione: pur vantando una discografia piuttosto corposa produce in realtà solo un punk semi-dilettantesco, con strumentisti che strimpellano piuttosto malamente ed un cantante dotato di presenza scenica abbastanza buona, ma anche di una voce bassina e gracchiante nonché di una chioma di maltenuti dreadlock che evidentemente gli creano qualche problema di parassitismo, visto che praticamente per tutta la mezz’oretta del concertino una sua mano fruga e gratta furiosamente nella sua chioma vermiforme. I brani dei Frenzal, tutti brevi e rapidissimi, non brillano né di originalità (un punk di inflessione californiano-giovanilistica) né di una decente interpretazione live. Li salva forse solo un po’ di sana autoironia, ma d’altronde se voglio ridere ad un concerto ascolto Elio e Le Storie Tese… Il palco si risvuota, i tecnici sostituiscono strumenti e cablaggi vari, mentre il pubblico si è finalmente trasformato in una folla sempre più fremente ed eterogenea. Le luci si spengono, ma qualche lumicino ci permette di distinguere le sagome dei nostri folli irlandesi in attesa, immobili e in posa guerresca sul palco. Ad un tratto gli altoparlanti iniziano a diffondere una cantilena accarezzata dai familiari suoni di cornamuse e strumenti tradizionali, mentre una voce angelica femminile (…ma è Sinead O’Connor!) intona una ballata dolce e profonda; il pubblico inizia impaziente a fischiare ed a chiamare a gran voce i Dropkick, ma in poco tempo le proteste si zittiscono in un rispettoso silenzio…probabilmente in questo momento tutti quanti hanno chiuso gli occhi e si stanno sentendo come me incarnati in un’orda di guerrieri in kilt e spadone Claymore, appostati in attesa della battaglia, ad ascoltare la voce ispirante della loro principessa/musa… e, di colpo, su con le luci, si parte! Come prevedibile, i pazzoidi bostoniano/irlandesi decollano urlando a squarciagola la loro dichiarazione d’amore alla patria città: “For Boston” è l’inno che spacca la tensione di inizio concerto, in un coro che travolge immediatamente tutto l’uditorio…e anche noi milanesi sentiamo risvegliare nelle nostre vene il lontanissimo sangue celtico e dichiariamo insieme ai Dropkick il nostro amore per la capitale del Massachussets… ah, cosa è capace di fare il potere trascinante della musica! Il concerto prende quota fluido e compatto, con il palco pazzescamente affollato: oltre al quintetto ufficiale che vede Al Barr alla voce, Ken Casey basso e seconda voce, Matt Kelly alla batteria, James Lynch alla chitarra, Ryan Foltz alle prese con chitarra acustica, mandolino e flauto, l’enorme Spicy McHaggis in inquietante kilt e cornamusa incombe sempre sullo sfondo, e c’è pure un sessionman alla seconda chitarra. Chicca non indifferente: i frontman sono due! Infatti il bassista Ken si comporta tutt’altro che da voce d’accompagnamento: fa infatti vece di solista in alcune canzoni, come la travolgente “Black Velvet Band” (in assoluto una delle mie preferite nel vasto repertorio degli scatenati Dropkick) e la straordinaria, coinvolgente e coreografica “The Dirty Glass”. Quest’ultima rappresenta forse l’apice del concerto e la sua performance è emblematica del Dropkick-way-of-music: sul palco oltre ai numerosi membri ufficiali e semi-ufficiali della grande “famiglia” Murphys ecco apparire una pittoresca sosia della Miss Piggy dei Muppets: bionda, cicciotella, inguainata in una minigonna di pelle nera dal gusto discutibile ma dalla resa scenica notevole, arrabbiata al punto giusto, Stephanie canta botta e risposta col bassista/vocalist Ken in una rappresentazione di “The Dirty Glass” veramente memorabile. Il concerto, più lungo e vario di quanto ci si potrebbe aspettare da una band che viene spesso troppo frettolosamente e spregiativamente definita solo “punk”, vede poi spaziare i folli e strimpellanti Dropkick in brani che ripercorrono la corposa produzione di tutta la loro ormai longeva carriera: da pezzi datati ma sempreverdi come “Skinhead On The MBTA” (sulla quale uno skin nostrano vistosamente in stato di ebbrezza salta sul palco abbracciando tutti i membri della band e cantando commosso con loro), “Never Alone”, a brani storici seppur più recenti quali “Which Side Are You On”, “Forever” e “Ten Years Of Service”, fino ai frizzanti e più maturi, anche a livello compositivo, brani dell’ultimo, splendido album “Blackout”. Su “Kiss Me I’m Shitfaced” i Murphys fanno salire in mezzo a loro alcune fanciulle del pubblico (ovviamente scelte fra le più carine) e dedicano loro questo pezzo dall’indiscutibile simpatia in cui la voce narrante del protagonista vanta inizialmente la sua virilità e la sua spacconeria, mentre nel finale confessa di non esser più “er ghepardo de ‘na volta”, ma di avere ancora tanto amore da dare: risate assicurate per il pubblico, rossore assicurato per le fanciulle… C’è da ammettere che la prestazione vocale e strumentale vera e propria della band non è esattamente eccelsa: i Murphys sono talmente presi dal clima di festa allegramente caotica che pare quasi che si dimentichino un po’ della loro bravura (che invece nelle incisioni in studio appare evidente); ma, ragazzi, diciamocelo pure: chi se ne frega?! Il finale è glorioso e degno di una festa fra amici veri e di vecchia data, con i Dropkick che invitano il loro pubblico sudato, soddisfatto ed adorante a salire con loro sul palco per un gigantesco coro degno di una festa in un irish pub della vecchia Dublino il giorno di San Patrizio; il pubblico, naturalmente, accetta di buon grado, ed il concerto finisce trasformandosi in una festa di gioioso “arrivederci”. Le luci si accendono, gli abbracci ed i saluti però continuano; mi ritrovo addirittura, mio malgrado, catturato da gruppetti di fan in alcune foto in mezzo a stendardi e striscioni artigianali che vengono donati ai membri della band (i Dropkick collezionano orgogliosamente questi cimeli e li espongono persino in una sezione del loro sito internet ufficiale). Sul finale vero e proprio mi ritrovo, addirittura, a sorpresa, a scambiare due chiacchiere con Ken, il bassista, il quale mi dichiara di essere stupito e commosso di vedere come un pubblico che credeva culturalmente distante dalla realtà americano/irlandese che è proprio delle radici dei Murphys sia invece tanto vicino e “vivo” ad un loro concerto. D’altronde, cari Murphys, siamo sì italiani, discendenti dei Romani, ma di sangue celtico ne abbiamo parecchio anche noi, con tutte le invasioni barbariche che abbiamo subito, no?… A presto, Murphys, alla prossima “invasione”…