11/12/2015 - EINDHOVEN METAL MEETING 2015 @ Effenaar - Eindhoven (Olanda)

Pubblicato il 28/01/2016 da

Report a cura di Giovanni Mascherpa
Foto di Eus Straver (Metal-ExperienceFacebook)

Ah, la bellezza di Eindhoven. In pochi possono dire di conoscerla davvero. Lo sapete il motivo? Perché di cose davvero belle in quest’angolo d’Olanda ve ne sono pochine. Nata attorno al colosso industriale Philips, la città ha tutte le caratteristiche degli insediamenti fondati al solo scopo di ospitare i lavoratori di una determinata industria. Centro cittadino asettico e impersonale, sensazione di artificiosità un po’ ovunque, pressoché totale assenza di elementi architettonici-artistici di rilievo: in pratica ci si trova a camminare dentro un enorme centro direzionale, contornato da quartieri residenziali tutt’attorno. Di contro, l’intero agglomerato urbano è lindo, ordinato e ottimamente fornito dai mezzi di trasporto su corto e lungo raggio. Questo consente ad Eindhoven di essere un facile approdo per i metallari che la invadono a inizio dicembre per l’Eindhoven Metal Meeting, perfettamente organizzato anche nel 2015 nella cornice dell’Effenaar, locale posizionato in centro, a breve distanza dalle stazioni di treni e autobus. Come accaduto anche l’anno passato, la truppa di italiani in libera uscita nel Nord Europa è piuttosto nutrita, i costi dei voli e degli hotel in zona sono abbordabili nel fine settimana, non siamo in territori turistici, da queste parti ci si viene giusto per lavoro, difficilmente per svago. A meno che, appunto, non si voglia partecipare a un festival di metal estremo come questo, con qualche gradita propaggine classica. I suoni prediletti dagli organizzatori sono abbastanza tradizionali, con una mediazione fra nomi ‘di grido’ (quest’anno a fare la voce grossa vi erano Behemoth, Marduk e Samael) e realtà underground in forte ascesa. Un orientamento trasversale, rassicurante sotto certi aspetti, aperto comunque alle novità nel campo dei suoni tradizionalisti, o comunque ben memori di cosa sia il metal nella sua forma meno corrotta, ha consentito alla manifestazione di crescere gradatamente e, grazie a una logistica tra le migliori in circolazione e una venue molto comoda, di arrivare al tutto esaurito anche in questa occasione. Per una descrizione più dettagliata sul piano ‘funzionale’ dell’Eindhoven Metal Meeting, vi rimandiamo al report dell’edizione 2014. Noi ci buttiamo direttamente a parlare di quanto visionato nell’ultima edizione, foriera di una folta batteria di concerti indimenticabili.

 

eindhoven metal meeting - locandina 7 - 2015

WINTERFYLLETH
Espletati i controlli all’ingresso e lasciati i soprabiti nel guardaroba, possiamo salire nella sala grande dell’Effenaar, dove da qualche minuto sono saliti sul palco gli inglesi Winterfylleth. La sala è gremita e, come chi frequenta sovente i grandi festival esteri sa bene, all’apertura delle porte il grosso dei convenuti fa a gara per installarsi vicino al palco, a prescindere da chi stia suonando, in virtù dell’entusiasmo generato dall’’inizio lavori’ e dalla sobrietà diffusa. Poi, fatalmente, con il tracannare delle birre qualcuno cede, la stanchezza si fa sentire e si cominciano a selezionare le esibizioni. Ma, appunto, per i blackster inglesi l’essere act inaugurale sul Rockhand Stage è una vera fortuna, in altro orario o nella piccola sala al piano terra il numero dei presenti sarebbe stato nettamente inferiore. I quattro sono ben lontani dall’essere una live band famelica ed arrembante, i loro spettacoli si connotano per una presenza scenica praticamente nulla e tutta l’attenzione viene perciò rivolta alla ruvida poetica della musica. In essa riecheggiano riverberi del metal al suo stato primordiale, privo di abbellimenti moderni, che cerca però di guadagnare un suo candore in arrangiamenti atmosferici chiamanti a una sentita contemplazione e ammirazione di ciò che ci circonda. Le asprezze del black metal old-school connettono dilatazioni quasi post-rock dall’architettura magari semplice e poco rifinita, ma che emanano vibrazioni autentiche e la necessità di condividere con chi è all’ascolto il proprio fragile stato d’animo e una malinconia tenue e inscalfibile. Funziona bene l’alternanza delle voci, donante una coralità davvero emozionante, che fa dimenticare la leggera ripetitività di alcune partiture, aventi proprio nei dialoghi acustici i momenti più pregiati e fascinosi. Certo, un approccio meno timoroso potrebbe servire ai Winterfylleth per compiere anche dal vivo il salto di qualità avvenuto con le release in studio, grazie all’ultimo disco “The Divination Antiquity”. Anche i concerti dei ragazzi di Manchester, però, stanno guadagnando un certo spessore e denotano una ricercatezza non comune, acclarata da una partecipazione apprezzabile da parte dell’audience, nonostante la relativa forza impattante della musica.

Winterfylleth - Eindhoven Metal Meeting 1 - 2015
Winterfylleth - Eindhoven Metal Meeting 2 - 2015
AETERNUS
L’approssimazione esecutiva dà già molto fastidio quando la rileviamo da una band alle prime armi in un locale di periferia il sabato sera, figurarsi se dobbiamo subirla all’interno di un festival blasonato qual è l’Eindhoven Metal Meeting, per giunta a causa di un gruppo ‘storico’ quali sono gli Aeternus. Raramente – ve lo diciamo con cognizione di causa, dopo averci riflettuto attentamente e aver cercato un paragone credibile – abbiamo assistito a una tale sequela di errori, frutto di una sufficienza nella preparazione del concerto imperdonabile per un gruppo con oltre vent’anni di esperienza come quello norvegese. Per giunta tutt’altro che afflitto da problemi di suono, visto che il possente impianto del locale ha assistito dall’inizio alla fine i disordinati musicisti nordici. A dire il vero, la doppietta iniziale aveva lasciato presagire ben altri risultati, grazie a una miscela killer di swedish death d’annata e rapide incursioni nel thrash e nel black. Poi, ecco le prime avvisaglie del disastro, con una prima serie di cambi di tempo un po’ incerti e l’impressione di smemoratezza da parte del batterista, che inizia ad arrivare un attimo in ritardo rispetto ai compagni e a perdere clamorosamente i colpi in un paio di situazioni. Invece di fermarsi un attimo a discutere e recuperare terreno, il buon Ares serra i tempi e guida i suoi uomini a cariche sempre più esagitate, preda della casualità, vergognosamente anarchiche. Poco oltre metà concerto ognuno fa letteralmente quello che gli salta in mente, nessuno va a tempo con nessuno, e se l’indiscutibile ferocia placa i palati meno raffinati, chi ha un minimo d’orecchio – proprio un minimo, eh – inizia a sentirsi vagamente preso per i fondelli. Errori si assommano ad errori, la cacofonia dilaga, capire dove finisca un pezzo e cominci un altro diventa quasi impossibile e lasciamo allora che lo show si trascini assurdamente fino alla sua ingloriosa conclusione. Rimaniamo francamente allibiti da un tale menefreghismo, gli Aeternus non hanno dato segno di preoccuparsi della precaria situazione e hanno marciato spediti e claudicanti come la più oscena delle punk band di terza categoria. Contenti loro…

Aeternus - Eindhoven Metal Meeting 1 - 2015
Aeternus - Eindhoven Metal Meeting 2 - 2015
ONSLAUGHT
Di questi tempi, gli Onslaught sono una solida, granitica sicurezza. Inamovibili dal loro thrash vecchia scuola lordato ogni tanto di un pizzico di estremismo e, più spesso, innervato di sane dosi di metal classico, i cinque inglesi hanno solcato la stagione concertistica con forza d’animo ed entusiasmo, conquistando un apprezzamento generale forse addirittura più ampio di quello ricevuto nel pieno del fulgore artistico. Saranno quindi irrimediabilmente trascorsi, discograficamente parlando, i tempi d’oro di “Power From Hell” e “The Force”, ma se guardiamo alla tenuta live della formazione, è dura affibbiare ai suoi componenti l’etichetta di ‘vecchietti’. Anche l’ingresso alla seconda chitarra di Iain ‘GT’ Davies al posto di Andy Rosser Davies, avvenuto a settembre, non ha alterato gli equilibri in seno alla band, presentatasi in grande spolvero pure all’Eindhoven Metal Meeting. A grandi linee, possiamo ripetere quanto raccontato in occasione del Metalitalia.com Festival e dell’Hellfest: passano i mesi, conosciamo oramai alla perfezione il taglio che gli Onslaught possono dare allo show e non facciamo più i conti con nessun effetto-sorpresa, eppure quando ci sono questi ragazzacci sul palco ci divertiamo sempre come la prima volta che li abbiamo visti. Il muro chitarristico non lesina in irrequietezza e indole assassina, mentre basso e batteria si immolano come cavalli da tiro per tenere l’andatura e squassarci il petto nei monolitici mid-tempo di cui i pezzi sono infarciti. Keeler canta un po’ meno pulito che alla kermesse di Clisson, sporca le vocals più di quanto ricordassimo, però non va mai veramente in difficoltà e, passeggiando da un lato all’altro dello stage tenendo sempre l’occhio fiammeggiante puntato sul pubblico, irrora i presenti di tutta la tensione mefistofelica contenuta nella musica. Il parco dei classici, non è una sorpresa, parte da “Let There Be Death” e si chiude con “Onslaught (Power From Hell)”, davanti a un manipolo di assatanati che si dà battaglia in un mosh alquanto disordinato per tutti i tre quarti d’ora d’esibizione. Le temperature vanno crescendo al festival, gli Onslaught sono stati i primi a creare una sensazione di vero pericolo e portare l’adrenalina ai limiti di guardia. Avanti così.

Onslaught - Eindhoven Metal Meeting 2 - 2015
Onslaught - Eindhoven Metal Meeting 1 - 2015
CONAN
Dei Conan avevamo impresso nella mente il ricordo della terrificante prova all’Hellfest 2014, quando diedero vita a un disumano concentrato di basse frequenze, così rigonfie e voluminose da farci rizzare – in senso realmente fisico, non metaforico – i peli delle braccia e provocarci una percettibile pressione al petto. Pronti a gustarci un’altra lezione in spalatura di macigni e rotolamento degli stessi al rallentatore verso le nostre persone, secondo le nobili usanze del drone/doom più roboante, siamo rimasti basiti dal piccolo cambiamento di approccio del trio di Liverpool. Infatti, questa volta i Conan ci hanno sferrato una serie di bastonate dolorosissime, mettendo un attimo da parte le litanie a volumi impossibili per cui sono giustamente noti e incarnando piuttosto una concezione dello stoner/doom maledettamente concreta e dall’animo quasi hardcore. Come al solito curvi su se stessi e col cappuccio in testa, Jon Davis e Chris Fielding stuprano amorevolmente le corde dei rispettivi strumenti, restituendone una rappresentazione dei suoni ad essi ascrivibili fetida e devastata, ributtante per quanta sporcizia riescano ad accumulare e farci ‘annusare’ i due musicisti, all’interno di un bolo sonoro che definire urtante è poco. Anche dietro le pelli si nasconde un torturatore di prima categoria: Rich Lewis si accanisce su pattern monocromatici fino al punto di massima esasperazione, per poi spostare il tiro su una diversa combinazione e ricominciare daccapo il lavoro di logoramento dei nostri fisici e dei nostri cervelli. Le luci restano basse, la penombra gioca a favore dei Conan nel mettere in secondo piano l’identità dei musicisti, schivi ai limiti dell’anonimato assoluto, e lasciare in evidenza soltanto la forza ribollente della musica. Il raddoppio della voce va a sua volta a infierire sulla nostra percezione dei pezzi, già strumentalmente annichilenti e che col beneficio di una vocalità urlata e divelta nelle sue caratteristiche più umane sposta verso la devianza estrema l’intero apparato sonico del trio anglosassone. Un set vissuto in apnea di melodia, probante ma davvero soddisfacente. Dalle richieste di averne ancora e di prolungare di qualche minuto il massacro, giunte a gran voce dal pubblico, si capisce che cotanta sofferenza è stata apprezzata in modo pressoché plebiscitario.

GOD DETHRONED
Il tempo di risalire al piano superiore e verificare quanto stia diventando appiccicaticcio il pavimento, grazie alla sbadataggine dei presenti che pare versino più birra a terra che nei propri capienti stomaci, e siamo pronti per il rientro in grande stile di una compagine di punta del metal estremo olandese. I God Dethroned mancavano da qualche anno dai palchi e hanno il merito di rinfocolare lo sciovinismo del pubblico di casa, che come avevamo osservato l’anno prima in occasione del concerto degli Asphyx ha un occhio di riguardo per i propri connazionali. Il palco, tolto lo scenario infernale dei Behemoth che ammireremo di lì a poco, si presenta come quello meglio ‘addobbato’, fra vistose croci rovesciate e un fondale di tutto rispetto per dimensioni e impatto visivo. La tenuta dei musicisti è al contrario alquanto sobria, non che ci aspettassimo chissà cosa del resto, visto che i death metaller di Henri Slaetter non si sono mai segnalati per qualche particolare di rilievo dal lato visuale. Né, del resto, la musica stessa che ci offre il quartetto può dirsi chissà quanto personale o foriera di impressioni di meraviglia: trattasi di un thrash/death dall’elevato coefficiente melodico, mitigato nella brutalità da divagazioni black novantiane e armonie di reminescenza classic metal, dove i i singoli episodi ruotano attorno a giri abbastanza basilari e sono pensati per arrivare dritto al punto in pochi istanti. Non fossero nei Paesi Bassi, i God Dethroned difficilmente usufruirebbero di uno slot così importante (dalle 21 alle 21.50), ma tanto per chiarire che tale posizionamento non è stato azzardato né troppo generoso la band ci dà dentro con tutta se stessa, regolando alla perfezione furia satanica e pulizia esecutiva. Così, al netto di una certa standardizzazione di parte del materiale offerto, cui non contribuisce paradossalmente la durata ristretta delle canzoni – qualche architettura più complessa non ci sarebbe dispiaciuta, anche in considerazione del discreto fiuto melodico del gruppo – la prestazione risulta essere veramente appassionata e coesa, specchio di una realtà che non si è fatta viva solo per ravvivare il ricordo di se stessa. Inoltre, le nostre vaghe perplessità non hanno alcun accoglimento nella maggioranza dei convenuti, il pit è animato e i richiami di Slaetter a darci dentro vengono presi sempre alla lettera. Al di là dei nostri gusti personali, va dato atto ai God Dethroned di aver onorato l’impegno senza risparmiarsi minimamente.

God Dethroned - Eindhoven Metal Meeting - 2015
BEHEMOTH
Cocente delusione. Fa specie associare un tale giudizio netto e lapidario, in senso negativo, alla performance olandese degli uomini di Nergal, ma nel caso dei polacchi quella di Eindhoven si è rivelata una serata stortissima, da addebitare quasi completamente a problematiche tecniche, di strumentazione della band e di impianto audio. Inghippi manifestatisi già prima del concerto e che hanno causato un cambio palco sfibrante, come il sottoscritto non ne osservava da certi Gods Of Metal di una decina d’anni fa o prima ancora. L’agitarsi dei tecnici on-stage, il provare e riprovare gli strumenti in un clima sempre più nervoso e teso, mentre il ritardo andava accumulandosi – saggiamente non sono stati apportati tagli in scaletta né per i Behemoth né per i Candlemass posti in chiusura – avevano già incanalato il concerto su binari poco rassicuranti. Si sperava almeno che la dilatazione dei tempi servisse a risolvere qualsiasi magagna si fosse presentata in fase di preparazione allo show: purtroppo ci sbagliavamo. La doppietta d’apertura “Blow Your Trumpets Gabriel”-“Ora Pro Nobis Lucifer”, potenzialmente un assassinio in piena regola consumato in pochi minuti, si tramuta in una selva pressoché indistinta di note a basso volume, avente quale unico elemento lenitivo l’iraconda teatralità dei musicisti, qualcosa di inaudito a questi livelli di estremismo: Nergal, Inferno e Seth si muovono in perfetto sincronismo, fusi sotto le sembianze di un hydra calcolatore, aguzzante l’ingegno per poterci far male nei modi peggiori possibili. Trattandosi di musica e non di semplice messinscena, purtroppo l’esaltazione sguaiata non può mai prendere il sopravvento, complice anche una forma vocale traballante di Nergal stesso, sulla quale non incide, in questo caso, nessun deficit tecnologico. Intanto che le canzoni si susseguono impastate e poco vigorose, accade addirittura che il basso del palestrato Orion inizi a gracchiare. Il nostro eroe muscoloso e i ragazzi della crew hanno un bel daffare nel provare a ricondurre alla ragione lo strumento, ma per quanto armeggino sulla testata non succede nulla di buono. Serpeggia amarezza, anche se è tale la foga di Nergal e compagni che ci si lascia lo stesso coinvolgere senza tanti complimenti. In coda, è tempo di togliersi qualche piccola soddisfazione attraverso due discrete versioni di “At The Left Hand Ov God” e “Chant For Eschaton 2000” e il titanico encore di “O Father O Satan O Sun!”: osservare i quattro tutti mascherati che, immobili come statue, si ergono a custodi del Male più intransigente, è sempre uno spettacolo sublime. Insomma, non è stato uno show da incorniciare, cose che capitano anche ai migliori.

Behemoth - Eindhoven Metal Meeting 3 - 2015
Behemoth Eindhoven Metal Meeting 2 - 2015
CANDLEMASS
Un po’ attapirati dallo spettacolo in tono minore dei Behemoth, accogliamo con una certa preoccupazione la venuta dei Candlemass. Timori riguardanti la tenuta dell’impianto, perché per quanto ci riguarda sapere che alla voce ci sarà Mats Levén non ci dà il minimo fastidio, anzi: non sarà il ‘perfetto personaggio doom’ come lo erano Messiah Marcolin e Robert Lowe, ma per quanto riguarda estensione, timbro e tenuta del palco il singer ex-Malmsteen non ha nulla da invidiare ai suoi predecessori. Sicuro di sé e tiratissimo, Levén catalizza tutte le attenzioni già ai primi sussulti di plumbea epicità fatti vibrare dal basso di Edling, ben corrisposto dal guitarwork massiccio di Björkman e Johansson. Chitarristi e bassista hanno la stessa mobilità della Sfinge, a guardare le mosse al rallentatore dei musicisti ci si accorge che gli anni passano, con la stessa inesorabilità subita da individui più ordinari, anche per le icone assolute del doom. Le quali però muovono le dita con la stessa sapienza di quando classici quali “Solitude” e  “Mirror Mirror” li scrivevano negli Anni ’80. Chiudendo gli occhi e assaporando solo la musica, e non la gestualità di chi abbiamo di fronte, è dura accorgersi del tempo trascorso. Levén assume il suo ruolo di spiritato Caronte con imperscrutabile credibilità, cantando linee vocali leggendarie senza scimmiottare Marcolin ma infondendo in ogni nota la sua peculiare timbrica fra hard sanguigno e metal eroico. L’effetto amarcord supera qui ogni argine, chi è rimasto all’Effenaar sfidando l’ora tarda arriva quasi alla commozione sentendo sgorgare una dietro l’altra alcune delle pietre miliari dei primi tre album. “A Cry From The Crypt”, “At The Gallows End”, “Bewitched”, maledizioni e raggelanti evocazioni si susseguono in sequenze tirate oppure sospiranti, tenendo col fiato sospeso e assecondando un nostalgico sguardo a tempi mitici ormai trascorsi. Levén segue il movimento di chiome davanti a lui con aristocratica flemma, nei chorus l’accalorato sgolarsi dei presenti fa venire i brividi; visto lo status precario della formazione – attiva oramai solo a intermittenza – si ha anche la sensazione che quanto stiamo ascoltando rappresenti un momento davvero raro, impossibile da godere pensando sia ‘solo’ un concerto dei Candlemass. Le facce un po’ così del post-Behemoth si trasformano in larghi sorrisi, questi vecchi svedesi ci hanno proprio scaldato il cuore!

Candlemass - Eindhoven Metal Meeting 2 - 2015
Candlemass . Eindhoven Metal Meeting 1 - 2015
ANGELUS APATRIDA
Il secondo giorno di Eindhoven Metal Meeting inizia per noi al District 19 in compagnia degli Angelus Apatrida. I quattro spagnoli hanno vissuto un anno intenso, cavalcando i buoni apprezzamenti ricevuti con l’ultimo full-length “Hidden Evolution”, catapultatosi in Spagna addirittura al secondo posto nelle classifiche di vendita durante la prima settimana di uscita. I tour con Suicidal Angels e Dr. Living Death prima e Vektor e Distillator poi hanno affinato il killer instinct di questi thrasher, che nonostante non vantino il talento conclamato degli autori di “Outer Isolation” hanno saputo salire, con fatica e dedizione, i gradini che separano i semplici sguatteri del metal dagli operai specializzati di alta professionalità. Anche qui in Olanda, in una delle ultime date dell’anno, gli Angelus Apatrida fanno di tutto per lasciare un ottimo ricordo di sé: la merce più pregiata a disposizione dei castigliani è l’inventiva del duo chitarristico, le asce di David G. Àlvarez e Guillermo Izquierdo si compattano e si allargano in fraseggi diversi secondo un’armoniosità di fondo che non va mai a scapito di un impatto assassino, denotante una sprezzante affilatezza, cifra inconfondibile di qualsiasi ensemble thrash che si rispetti. Al confronto dei già buoni risultati raggiunti in studio, in concerto talune ritmiche più monocordi guadagnano spessore e dinamismo: Victor Valera si rivela picchiatore meno rozzo di quanto potrebbe apparire a un ascolto sommario e, anche se non sfodera combinazioni granché coraggiose o sorprendenti, il drummer infonde un apprezzabile rigore strutturale a ogni traccia. La voce sembra anch’essa guadagnare punti, l’acidità delle linee di Guillermo Izquierdo esce rinfrancata dal confronto con la piccola folla davanti al palco, come se sia lui che i compagni debbano vedere in faccia un congruo numero di metallari eccitati per rendere al meglio e perdere qualsiasi freno inibitore. Si scapoccia di gusto con gli Angelus Apatrida, in sala una discreta fetta dei presenti ha ben presente il materiale della formazione e non si fa pregare nel sospingerla per tutta la mezz’ora disponibile. Ci aspettavamo buone cose, ma il quartetto è stato addirittura migliore di quanto ci attendessimo.

Agelus Apatrida -Eindhoven Metal Meeting 1 - 2015
Agelus Apatrida -Eindhoven Metal Meeting 2 - 2015
VEKTOR
Pochi gruppi aventi un’età anagrafica dei propri componenti scavallante di poco la trentina e, restringendo il campo d’indagine, quasi nessuno in questa fascia d’anzianità che si muova su sonorità relativamente ‘classiche’, può vantare un’accoglienza così fanatica come quella dei Vektor ogni qualvolta si presentano a suonare da qualche parte. Anche a causa di un numero di apparizioni live nel Vecchio Continente finora abbastanza esiguo – il primo tour europeo esteso è proprio quest’ultimo, passato anche dall’Italia a fine novembre per tre date – ogni apparizione del quartetto progressive thrash di stanza a Philadelphia assume i contorni mistici dell’ostensione del Sacro Graal. Il bello è che lo smisurato hype suscitato da David DiSanto e illustri compagni è del tutto giustificato ed ora che il nuovo “Terminal Redux”, previsto per l’11 marzo, si avvicina a piccoli passi, le aspettative nei confronti del quartetto stanno arrivando a vertici deliranti. Cosa può accadere in questi casi, non si corre il rischio di crearsi film mentali troppo ottimisti sull’effettiva dotazione espressiva di un gruppo? Dipende. Nel caso dei Vektor, va in scena ad Eindhoven una vistosa manifestazione di forza, un saggio di capacità tecniche, compositive e di organizzazione del caos planetario che non ha altri eguali nello scenario metal contemporaneo. Il camaleontico dipanarsi delle melodie, gli incastri di riff intricatissimi alla velocità della luce, le progressioni irresistibili di cui ogni canzone è infarcita, sono il segnale di una destrezza fuori dal comune e di un genio compositivo oramai difficile da mettere in discussione. Il tempo è tiranno, tre quarti d’ora sono oramai una durata troppo esigua per questi quattro fuoriclasse, eppure sono sufficienti a stenderci e a lasciarci intontiti da un vortice di pura passionalità thrash miscelata alla visionarietà dei Voivod ai massimi livelli, agli Atheist più concreti e infusioni prog così allucinate che trovarne i termini di paragone è esercizio destinato a non portare ad alcun risultato. Anche se sul pazzesco incipit di “Cosmic Cortex” il pit si popola e si anima di un ipercinetismo perfettamente confacente a quanto esce nitido e deflagrante dalle casse, il folle dipanarsi del concerto non spinge tanto, o non solo, a un massacrante coinvolgimento fisico: lascia nell’animo un magnifico senso di incredulità, suscitato in prima battuta dalle scale prodigiose messe in fila della solista di Erik Nelson e quindi, in fila e di poco distanziati, dalle rullate schizzate di Blake Anderson – cosa non combina sui piatti… – le convulsioni di basso di Frank Chin e la graffiante tentacolarità della ritmica di DiSanto. Il quale si fa valere alla grande anche al microfono, missione difficile da portare a termine visto quanto si deve sbattere alla sei corde. Nelle pause, il frontman ci guarda col sorriso di una persona profondamente grata nel ricevere un così squisito affetto. Sembra voglia dirci: “Bé, grazie, ma forse state esagerando, non suoniamo poi chissà cosa!”. La nuova “Ultimate Artificer” fa un figurone, già mandata a memoria dai fan che per ora hanno solo questa track di cui nutrirsi in attesa di altre anticipazioni, mentre l’opalescente suite d’acciaio e detriti satellitari di “Accelerating Universe” compone una sinfonia di distruzione talmente ricca di riff e solismi prelibati che non sembra nemmeno durare i suoi tredici minuti e rotti ufficiali. I Vektor si meriterebbero tranquillamente di essere headliner nei più faraonici festival internazionali: il futuro (nero) è tra noi e sarebbe un peccato non goderne.

Vektor - Eindhoven Metal Meeting 1 - 2015
Vektor Eindhoven Metal Meeting 2 - 2015
AHAB
È la terza volta in poco più di un anno che il sottoscritto ha la possibilità di testare gli Ahab dal vivo. Nelle prime due occasioni, al Damnation Festival del 2014 e al recente Hellfest, la band si era espressa benissimo, forte di un affiatamento consolidato e di una qualità inattaccabile del materiale sonoro, che nonostante i cambiamenti e le misurate sperimentazioni portate avanti in oltre dieci anni di carriera non ha subito, per il momento, alcuna usura formale né, soprattutto, sostanziale. All’Effenaar, se possibile, i doomster tedeschi si superano, forse proprio grazie all’ulteriore ampliamento del ventaglio umorale garantito dall’ultimo disco “The Boats Of The Glen Carrig”. Magistralmente condotti da Daniel Droste, la cui aura professorale si lacera a più riprese sotto i colpi di un corposo growl impregnato di catastrofica drammaticità, i musicisti interpretano con pari efficacia sia il materiale più datato che quello di fresco rilascio. Gli Ahab sono cresciuti senza abbandonare nulla di quanto frequentato alle origini, non stupisce allora che una “The Hunt” sbricioli grattacieli e ci faccia affogare nella Fossa delle Marianne con la stessa dirompenza e il potere immaginifico di quasi un decennio fa, o che “Like Red Foam (The Great Storm)” si faccia strada accattivante e quasi catchy fra melodie scorrevoli e caldi interventi in clean vocals. L’impianto audio del locale fa gioco di sponda nell’ingrossare le salmastre ondate alla moviola innalzate da Droste ed Hector, a raggrumarle in un carico di proterva rabbia, lasciata annegare fra i flutti fino a spezzare le corde che tengono la mente aggrappata alla ragione. Droste è l’epicentro dello tsunami, ma chi gli sta attorno non perde un colpo, dietro i tamburi si lavora di randello e di fino, per garantire una spinta ritmica che conceda spazio alla brutalità e consenta lo stesso alla cruenta poesia di questa musica di non perdere nulla dei suoi caratteri primordiali. Sospesi fra voglia di lasciarsi andare e necessità di far galleggiare la mente nell’oblio, ci lasciamo possedere dagli Ahab senza concedergli resistenza. Nell’operato della band tedesca è concentrato tutto il peso fisico e concettuale degli oceani di questo mondo.

SOLSTICE
In ogni festival che si rispetti deve esserci il concerto-sorpresa, quello che ti prende tra capo e collo e ti lascia a bocca spalancata a tradimento. Non è che debba capitare con una band sconosciuta o fuori dai propri normali registri d’ascolto, assolutamente. Può anche essere – e in questi anni revivalistici è successo spesso – di incontrare formazioni dal passato più o meno glorioso e riunitesi da poco tempo, alle quali col beneficio del dubbio non si assegnano aspettative esagerate – vuoi per la prevenzione verso i rientri di alcuni personaggi dopo lungo letargo, vuoi perché lo stato di forma a seguito di lunghi letarghi è tutto da verificare – che ti stendono con una prestazione da sogno, quale non avresti nemmeno provato ad immaginare. Il caso dei Solstice rientra appunto in quest’ultima categoria, perché è vero che dal 2007 hanno ripreso a suonare concerti con un minimo di regolarità, ma considerando il poco materiale inedito offerto e la poca stabilità di line-up era lecito nutrire qualche dubbio sulla tenuta degli epic metaller albionici, rinnovati per quattro quinti rispetto agli anni di “Lamentations” e “New Dark Age”. I Nostri ci regalano invece un concerto pieno di energia, carico di suggestioni eroiche come di una pesantezza che, per l’impeto e l’entusiasmo sfoderato, quasi sfocia nel metal estremo. Con la percettibile differenza di un cantante dai mille polmoni, Paul Kearns, a stagliarsi su una coppia di chitarre pompatissime e l’accoppiata basso-batteria tirata a lucido. Il singer, per il poco che si era potuto udire nell’ep del 2013 “Death’s Crown Is Victory”, ci sembrava possedesse una discreta potenza e una ruvidezza tipicamente da vichingo, ma dubitavamo potesse diventare una piccola icona dell’epic metal di nobili natali, legato a un modo di narrare barbare gesta lontano dalle facilonerie di certo power moderno. Ci sbagliavamo di grosso, in concerto il singer inglese, dotato anche di una presenza scenica massiccia e di una gestualità enfatica assai avvincente, sa il fatto suo e sfodera note alte belle piene, tenute senza mostrare pericolose tentazioni al falsetto. Concentrarsi solo sul suo operato sarebbe però ingeneroso, tutti e cinque i musicisti si mettono in luce, suonando con innegabile trasporto e causando un clima euforico in sala, quale forse né band né pubblico si sarebbero aspettati di vivere. L’epic doom non gode della stessa rinomanza sull’attuale scena metal come altre frange più estreme della musica del destino. Sarebbe il caso di ricordarsi che in questo ambito, tra gruppi vecchi e nuovi, vi sono in giro artisti di grandi qualità e, nel caso dei Solstice, possiamo dire di averne avuto una grandiosa riprova. Adesso speriamo arrivi anche un full-length, sono passati quasi diciotto anni da “New Dark Age”…

LVCIFYRE
I divoratori del Sole non sono mai sazi e arrivano a partorire frutti immondi anche in un happening meno settoriale di quelli dove di solito osano bazzicare. Stiamo parlando dei Lvcifyre, di cui abbiamo avuto ampiamente modo di parlarvi recentemente sia per l’eccellente secondo album “Svn Eater”, sia per performance live incendiarie, possedute da un istinto demoniaco che solo chi vive interamente per queste sonorità riesce a portare in scena. Lo show nella sala del District 19 tiene fede a quanto abbiamo già imparato ad aspettarci dai quattro londinesi, mettendoci di fronte a un death/black implacabile, sfigurato da un approccio bestiale che fa le fusa al caos senza immergercisi del tutto. I suoni non premiano come al Wolf-Throne Support Festival l’asfittico mix di scorticate chitarre ribassate, impatto cataclismatico e malvagità fuori controllo, certe finezze udite in terra francese vengono smorzate, a favore di un vomitare di note in bassa fedeltà che rende in ogni caso giustizia alla cattiveria luciferina dei ragazzi. Visivamente i Nostri ci sanno deliziare con pochi tocchi, puntando su luci rossastre, penombra e l’armamentario di borchie pesanti dalle quali il metaller vecchia scuola non può prescindere. La riduzione nello spettro espressivo di un riffing che normalmente scava nella carne con una certa mescolanza di sapori blasfemi, alternando piccoli accorgimenti d’arrangiamento a rasoiate in piena arteria, mette in luce più del dovuto la sezione ritmica, così che certe derive blackened death possano prendere il sopravvento e causare un brusco processo ‘regressivo’ della musica offerta. Questa maggiore assonanza ai peggiori pervertiti war metal in circolazione non stempera in ogni caso l’estro del quartetto, che tenendo fede a un cipiglio simile a quello dei Marduk non si fanno intimorire da suoni non adamantini e spingono a testa bassa per tutto il tempo a disposizione, incontrando solo apprezzamenti da chi li segue ammutolito da cotanta ferocia nichilista. Il Sole è scomparso nelle loro gole.

MARDUK
Se il black metal deve essere prima di tutto veicolo di bieco abominio, il tramite ideale fra l’uomo e i Signori degli Inferi, i Marduk non possono che essere i medium perfetti per trasportarci in un baccanale di passioni sfrenate e atrocemente lussuriose. I guerrieri dell’Apocalisse capitanati da Morgan compiono il consueto scempio in quel di Eindhoven, dando un saggio di tirannia schiacciante nei confronti di qualsiasi imitatore voglia osare mettersi al loro cospetto e sfidarli. Un vasto telone con il nome del gruppo campeggia dietro la batteria, non vi è altro sul palco, solo quattro sagome oscenamente pittate, lucide e avvinte dal morbo di una rabbia sterminata, che non ha alcuna possibilità di essere placata. È uno spettacolo noto quello dei Marduk, band che non si è mai nascosta dal vivo e pretende da se stessa il massimo, incurante di tutto quello che il mondo del metal estremo sta vomitando in tema di sonorità surreali, lunatiche, approntate per stupire. I quattro di Norrköping, no, badano al sodo, mietono vittime a enormi manciate, rasentando l’armageddon ad ogni canzone. Il materiale più controllato prende poco spazio, il grosso della setlist vede il gruppo esibirsi nel repertorio efferato, rapido e tagliente che li ha resi leggendari anche per i meno attenti al panorama delle sonorità nere come la pece. Morgan sfodera la consueta sequela di riff acuminati, rivestiti di una bestialità ancora oggi raggelante come agli esordi, mentre Mortuus decanta blasfemie con fede cieca nelle parole pronunciate, infondendoci uno spaventoso livore. La voce si staglia empia fra stacchi rapidissimi, che stregano l’audience come fosse la prima volta che si trovasse davanti a una tale orda di serial killer. Diventa pressoché pleonastico segnalare quali brani siano stati inclusi in scaletta, analizzare cosa possa aver reso meglio, quali analogie o differenze vi siano con performance passate. Luci verdognole e rossastre sottolineano l’apparenza sinistra dei musicisti, sottendendo un’essenza sovrannaturale, un pericolo da cui poter solo scappare, oppure esserne completamente sventrati. L’eccidio quale forma di arte satanica raggiunge l’apice in “Throne Of Rats”, ricolma di genuino disgusto, frutto degenere di una mentalità sterminatrice fuori dal comune. Su disco e dal vivo, i Marduk rimangono una certezza incrollabile.

SAMAEL
Aspettavamo al varco i Samael per capire se sarebbero riusciti a proporre con la stessa foga modernista dell’Hellfest la galassia di contrasti di “Ceremony Of Opposites”, celebrato in lungo e in largo dagli svizzeri nel corso del 2015. L’atmosfera più raccolta dell’Effenaar rispetto alla vastità del Temple a Clisson non cambia di molto le condizioni in cui i quattro devono operare e non vi sono nemmeno mutamenti negli abiti e nel trucco di scena. La faccia smezzata fra bianco e nero di Makro, il trucco vistoso nel contorno occhi di Vorph, la stessa energia gladiatoria del leader incutono timore e rispetto, ci consegnano l’immagine di una formazione smaliziata, pronta per dare l’ennesima lezione su cosa voglia dire prendere un disco di un’altra epoca, concepito in un’era musicale completamente diversa, e adattarlo ai gusti odierni senza perdere in brillantezza e carattere. Allora non possiamo che ripetere quanto detto per l’esibizione di giugno in Francia, lodando il coraggio di ritornare sui propri passi per ribadire la propria unicità, il riflettere in una musica un tempo più ruvida e scarna la traboccante follia industrialoide dei tempi moderni. I suoni sintetici delle chitarre, le sventagliate di gelidi effetti di Xy, i tamburi sferzati da un’energia primitiva unico aggancio a una forma metal più canonica, si ammantano di grandeur apocalittica, mentre l’entropia va sfuggendo di mano e la pervasività di un disegno futurista sempre più chiaro e lampante colpisce nel segno anche in canzoni nate sotto una luce più cupa e ancestrale. “Baphomet’s Throne” rappresenta la venuta di un Satana cibernetico così evoluto da non essere quasi più riconoscibile nemmeno per coloro che lo hanno a lungo evocato, gli opposti si toccano ed eruttano verso il cielo sfoghi di pura materia galattica, con gli effetti di un funambolico Xy a dare i colpi di grazia sopra alle marziali sequenze imbastite dalle chitarre. Lo spazio residuato dall’esecuzione del disco del ’94 viene riempito da ben tre pezzi del successivo capolavoro “Passage” (“The Ones Who Came Before”, “Rain”, “My Saviour”), un estratto di “Reign Of Light” (la title-track) e “The Truth Is Marching On” dall’ormai vecchio di quattro anni “Lux Mundi”. Non va sprecato un secondo di concerto, la prestazione musicale rasenta la perfezione un po’ come tutte le altre volte che abbiamo visionato e ascoltato i Samael dal vivo. Il pubblico se ne accorge, tributando un’accoglienza fragorosa a queste leggende viventi, ancora perfettamente in sella e pronte a compiere nuovi passi nella loro irresistibile evoluzione.

Samael - Eindhoven Metal Meeting 2 - 2015
Samael - Eindhoven Metal Meeting 1 - 2015
HOODED MENACE
Parte tardissimo l’ultimo show del festival, venti minuti prima dello scoccare delle due. Quasi a metterci del sadismo e a rendere spossante l’ultima parentesi di questa lunga due giorni, gli organizzatori propongono un mattone death/doom di spropositate sembianze, ovvero gli Hooded Menace. Non tragga in inganno la maggiore presenza di melodie nelle prove recenti, il ricorso alle finezze non ha intorbidato la componente mortuaria dei finnici, che nei primi minuti hanno il loro bel da fare per accaparrarsi un po’ di attenzione. In sala, almeno all’inizio, siamo davvero in pochi, solo gli strenui sostenitori del doom sono ancora in piedi a gustarsi le legnate in slow motion di Lasse Pyykkö (nasconde lo sguardo dietro occhiali da sole specchiati anche al buio…) e dei suoi vigorosi sodali. Quando c’è da pestare gli Hooded Menace se la cavano benissimo e, complice la dimensione esigua del District 19, ci vuol poco perché la sabbia del sonno svanisca dai nostri occhi e il corpo riprenda vita dinnanzi a una così rovente esaltazione della morte. La pigra immobilità dei musicisti contrasta con l’energia di una proposta che caracolla nel doom, ma ha nella forza del death i pistoni per spingere lontano una band che si dibatte fra armonizzazioni meravigliose e trascinamenti nelle catacombe con pari fortune. Il growl di Markus Makkonen non porta discontinuità con le prove in studio, dove è il leader Pyykkö a lordare col suo timbro grasso gli strascicamenti nell’oscurità: tutto è al suo posto, man mano che il tempo passa chi non ha ancora lasciato il locale entra per dare un’occhiata e si ferma, avvinto da una performance un filo più rozza di quanto udito in “Effigies Of Evil” e “Darkness Drips Forth”, affine al death metal degli inizi piuttosto che al maestoso doom estremista dei tempi recenti. La notte di Eindhoven sembra non finire mai, con gli Hooded Menace si entra in una dimensione indistinta scevra di agganci con la realtà. A questo punto, solo gli incubi paiono avere un senso. Si chiude sfiniti, ma contenti: l’Eindhoven Metal Meeting si è rivelato nuovamente una manifestazione di alto profilo, meritevole di essere diventata un punto di riferimento per tutta la scena estrema europea.

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