Report a cura di Giovanni Mascherpa
Foto di Paul Verhagen (Paul Verhagen.com, Facebook, Achrome Moments@Twitter, Achrome Moments@Facebook)
Passano gli anni e l’Eindhoven Metal Meeting prosegue la sua crescita, che lo pone ormai fra i festival indoor imprescindibili nel panorama europeo. Se già nelle scorse edizioni il bill era di tutto rispetto, per il 2016 l’organizzazione ha profuso uno sforzo ancora più importante, raggruppando in sole due giornate un elenco di band eccezionale. A cast quasi completo, il punto esclamativo l’ha posto la chiamata di Watain e Mayhem, impegnati a riproporre i loro due album più rappresentativi, “Casus Luciferi” per i primi, “De Mysteriis Dom Sathanas” per i secondi. Un’accoppiata micidiale, che ha trascinato le prevendite fino al sold-out in prossimità della data della manifestazione. Attorno, uno spaccato variegato ed esauriente di quello che il metal estremo, soprattutto europeo, sa oggi proporre. Come e più che negli anni scorsi, la scelta dei gruppi si è posta in mediazione fra realtà guida del movimento e gruppi emergenti ma aventi già alle spalle release ‘pesanti’, tra le più celebrate degli anni recenti. Così, nel giro di poche ore abbiamo potuto ammirare le avanguardie di Emptiness e Schammasch come l’old-school death metal di Soulburn e Hail Of Bullets, affogare nella tristezza degli Harakiri For The Sky, farci traghettare nell’epica eroica dei Bölzer ed essere circondati dall’incenso sparso a piene mani dai Batushka. Una tale abbondanza di contenuti ha goduto di una veste scenica e di un contorno impeccabili: condizioni di suono ottimali, light-show spettacolari, molteplici punti-bar disponibili, un servizio di cucina efficiente e, fattore determinante, un numero di presenze che garantiva agili spostamenti da un palco all’altro e la fruizione dei concerti in rassicurante comodità. Cosa non da poco, visto che di buchi veri all’interno del programma non ve n’erano e i concerti iniziavano a metà pomeriggio per concludersi all’una di notte il venerdì e oltre le due il sabato. Insomma, è filato tutto liscio e si sono susseguiti, in particolare durante la seconda giornata, concerti che hanno ampiamente giustificato il viaggio nei Paesi Bassi.
BLEEDING GODS
Il nostro Eindhoven Metal Meeting parte dalla sala piccola dell’Effenaar, la District 19, in corrispondenza dello slot assegnato ai Bleeding Gods. La compagine si giova di diversi musicisti di lungo corso della scena olandese, per cui si spiega in fretta la popolazione in sala piuttosto nutrita e desiderosa di far baldoria. Il gruppo ha un solo album all’attivo, “Sheperd Of Souls”, ma data la relativa notorietà di alcuni suoi membri gode di un forte sostegno fin dai primi minuti. La proposta è quanto di più indicato per scaldare un’audience ancora in fase di ambientamento: un death metal truce e dai modi spicci, orientato all’impatto e al groove, poco propenso a esplorare strade strette e ignote, quanto a marciare a passo di carica sulle più conosciute autostrade della morte. La denominazione d’origine controllata dei Paesi Bassi, vale a dire soprattutto qualche reminiscenza degli Asphyx, è rintracciabile fino a un certo punto, perché i nerboruti mid-tempo, costituenti l’ossatura portante delle tracce, non sprofondano mai in paesaggi mortuari e il riffing si orienta quasi sempre su passaggi di facile consumo, lievemente sporcati di thrash. Il cantante Mark Huisman cerca costantemente l’appoggio dei presenti, districandosi disinvolto fra i compiti di intrattenimento e quelli canori, coadiuvato da una line-up preparata, che senza compiere miracoli denota gran compattezza, ottimo tiro e un pizzico di tecnica quando c’è da assecondare le deviazioni epico/melodiche di cui le canzoni sono ricche. In queste situazioni si mette in luce il chitarrista Rutger van Noordenburg, che compie il suo lavoro dando un’enfasi quasi da metal classico alle fasi soliste. Il materiale è abbastanza omogeneo e non si riscontrano momenti memorabili, ma su tale punto crediamo che nessuno nutrisse chissà quali aspettative: dai Bleeding Gods ci si attendeva qualche bastonata ben assestata e scapocciamento disimpegnato e questo, in definitiva, è ciò che ci hanno garbatamente offerto.
SOULBURN
Rimaniamo su gruppi ‘locali’ e ci alziamo notevolmente di livello quando sul District 19 giungono i Soulburn. Nati da una costola degli Asphyx, i Nostri hanno avuto una storia spezzettata, piuttosto travagliata e avara di soddisfazioni fino al 2014. Da qui è iniziata una florida seconda vita. Il terzo, debordante, album “Earthless Pagan Spirit” ha bissato le buone impressioni di “The Suffocating Darkness”, per cui hanno ben ragione di rumoreggiare gli astanti, che pregustano un lordo massacro, da sorbirsi con atteggiamento tutt’altro che contemplativo. Detto e fatto, i Soulburn sguinzagliano i carrarmati e si avventano su di noi avvampanti d’ira, mettendoci se possibile ancora più foga di quella presente sui già brutali dischi. Il death metal epico e sporcato a volte di black metal viene in questa sede abbruttito e portato alle sue estreme conseguenze. I brani sono suonati in modo fedele, ma in preda all’ebbrezza demolitrice Eric Daniels e compagni velocizzano alcune cadenze, arrivando a creare una babele infernale in poco tempo. Si sente che i quattro hanno accumulato esperienza dal vivo, le due chitarre macinano riff tritaossa in perfetta simbiosi, traghettandoci fra i campi di battaglia e corse verso nuove conquiste, mettendo in luce comunque le melodie alla Primordial/Bathory che inondano di orgoglio i loro pezzi. La resa leggermente più sporca delle versioni in studio di “Where Splendid Corpses Are Towering Towards the Sun” e “In Suffocating Darkness” non toglie nulla al loro valore, come non destano perplessità le performance individuali, imbevute di un sano entusiasmo. In sala regna il disordine, un po’ perché erano in tanti ad attendersi un concerto di questa caratura, un po’ perché l’atmosfera è decisamente euforica ed è un attimo essere sballottati in mezzo a una mischia. Tutto bene quindi, i Soulburn ad Eindhoven hanno confermato di essere una live band di robusta e vivace costituzione!
HAIL OF BULLETS
Nel caso vi foste chiesti quali cambiamenti sarebbero potuti intervenire negli Hail Of Bullets con l’avvicendamento dietro al microfono tra Martin van Drunen e Dave Ingram, la risposta fornita dalla band stessa all’Eindhoven Metal Meeting è lapalissiana: nessuno. Nel senso che se il combo olandese già imperversava sui palchi ostentando la grazia di un angelo sterminatore corazzato, ora procede nella sua opera con pari risolutezza. D’altronde stiamo parlando, nel caso di Ingram, di un personaggio avente un pedigree che parla da solo, dotato di sufficiente carisma e vigore per sostenere un confronto così arduo come quello che gli si presentava davanti. In attesa di scoprire quali saranno le prossime mosse di una band ferma, discograficamente, a “The Rommel Chronicles” del 2013, ecco una rinfrescata dei canoni aurei dell’old-school death metal. I cinque sono maestri nell’interpretare il genere e non si smentiscono neanche nella sala grande dell’Effenaar. Attorniati da un backdrop rappresentante la copertina dell’ultimo disco e da altri due teloni ai lati richiamanti i medesimi aspetti visuali, i cinque ci inghiottono presto in un suono grosso, pesante, ruminante dolore secondo un armamentario che non rimane mai avvinghiato a lungo a ritmi troppo uniformi. Che ci sia da buttarla sull’epicità tragica, oppure di accelerare di colpo e bombardare senza ritegno come un plotone aereo della Seconda Guerra Mondiale, l’efficacia dell’azione è sempre massima e la reazione, da parte di un pubblico cultore di questo immaginario visivo e sonoro, genuinamente entusiasta. Ingram spreme tutto se stesso per offrire un grande spettacolo, getta sul campo cuore e budella, letteralmente, corrisposto nell’ardore anche dagli altri musicisti. Divertimento e ferocia vanno a nozze, gli Hail Of Bullets tracimano più volte nell’armageddon senza perdere il controllo, mettendo in fila classici moderni della musica della morte quasi con nonchalance. Si passa in rassegna un cospicuo sunto dell’eccellente materiale rilasciato finora, equilibrando col bilancino la scaletta fra i tre full-length sfornati finora e indulgendo il giusto nelle pause. Una manovra a tenaglia in piena regola, quella messa in opera dal gruppo, che non poteva che concludersi con una schiacciante vittoria.
DESTRUCTION
Data la mole di concerti tenuta nel corso di ogni anno solare e i pochi cambiamenti effettuati di norma nelle scalette, non è che un’esibizione dei Destruction rappresenti di per sé una delle priorità. Se però, come nel caso del sottoscritto, è già passato qualche anno dall’ultimo incontro col trio teutonico, allora ci si può rituffare beatamente fra le braccia borchiate di Schmier, Mike e del più giovane batterista Vaaver, sicuri di non essere delusi. Col tempo, va detto, l’energia incontenibile degli show dei primi anni post-reunion si è lievemente affievolita e la coppia d’oro al comando non offre esecuzioni propriamente impeccabili. La voce del colossale cantante-chitarrista non morde più come dieci-dodici anni fa, alcuni scatti inconsulti nel patrimonio genetico della formazione si sono omogenizzati alle marce quadrate di prammatica nell’ultimo scorcio di discografia, certo è che “Life Without Sense”, “Curse The Gods”, “Mad Butcher”, rimangono icone inscalfibili per ogni thrash metaller che si rispetti. E se non tutto ci viene offerto sotto la migliore veste possibile, bastano ‘quei’ riff lì che tutti conoscono e gli acidi refrain a solleticare le voglie dei thrasher di tutte le età. I Destruction sono amati e riveriti ovunque vadano, non fosse altro che per la loro incorruttibilità a idee fuori dal ruvido thrashettone di competenza; Schmier lo sa e mentre si muove col sangue agli occhi da un microfono all’altro – i soliti tre, uno al centro, gli altri due ai lati – non manca di aizzare gli animi con invitto entusiasmo. Anche gli estratti dal nuovo, appena sufficiente, “Under Attack”, non sfigurano e guadagnano punti rispetto alle troppo standardizzate versioni in studio. Highlight di giornata, seppure in una riproposizione non eccezionale, uno dei migliori inni thrash degli anni 2000, quella “Thrash ‘Till Death” che ha segnato come poche altre canzoni la rinascita del genere dopo l’appannamento degli anni ’90. Impossibile non amare i Destruction!
WATAIN
Tempo di invocare Satana, nelle sue sembianze più crudeli. L’esecuzione integrale di “Casus Luciferi”, assieme a quella di “De Mysteriis Dom Sathanas” che seguirà a stretto giro, rappresenta il momento topico dell’Eindhoven Metal Meeting 2016. Troppo importante il secondo full-length dei dioscuri svedesi, così influente sullo scenario extreme metal moderno, per non spingere a una processione fideistica verso l’anonima città dei Paesi Bassi i veri cultori del black metal. Si sta improvvisamente stretti in sala, proprio perché nessuno vuole perdersi un’occasione simile, data anche la fama di spietati assassini in sede live che Erik Danielsson e compagni si portano dietro. Una collezione d’ossa, stese a mo’ di panni appena lavati da una brava massaia fra la batteria e due delle grosse torce presenti sullo stage, fa da macabro contorno a un allestimento scenico trasudante morbosità. Il primo a entrare in scena è Danielsson, che spalle al pubblico si produce negli inchini e nelle giunzioni di mani necessari, nella sua ottica ritualistica, ad aprire il concerto, non prima dell’accensione dei fuochi disposti sul palco. Il bruciore delle fiamme è nulla al confronto di quello di “The Devil’s Blood”, fornace di improperi e maledizioni scaturite da uno dei gironi più infami dell’Inferno, quello da cui i cinque probabilmente provengono. L’Effenaar si conferma palcoscenico ideale per rappresentazioni così eloquenti della potenza del Maligno, gli spazi larghi della venue e del palco, oltre a un’ottima acustica, fanno risaltare la carnalità malata dei peggiori figuri oggi operanti in campo black metal. Quanto a lucida isteria satanica, è dura reggere il confronto con gli Watain. Danielsson spadroneggia, l’aggressione veicolata da voce, occhi, ogni singola mossa, le braccia aggrappate al microfono quasi in un ultimo anelito al mantenimento della lucidità, prima di lasciarsi andare agli eccidi più turpi. La struttura dei pezzi di “Casus Luciferi”, costruiti attorno ad accelerazioni sprizzanti sangue, interrotte da drappeggi gotici raggelanti, che danno più volte l’impressione di chiudersi, per riaprirsi nuovamente in stacchi letali, non lascia mai allentare la tensione. I rumori orrorifici e le urla del vocalist che si frappongono tra un pezzo e l’altro contribuiscono a indurre terrore; ogni pezzo riluce di una forza emotiva squarciante, che appaga sia l’animo belligerante dei presenti, sia gli appetiti per atmosfere cariche di negativi presagi. Il culmine lo si raggiunge nella lacerazione definitiva della titletrack, un’ultima inondazione di lorda magnificenza che, come su disco, rappresenta la chiusura ideale di un concerto assolutamente magistrale per fervore, precisione ed energia.
MAYHEM
La famigerata copertina di uno dei dischi più rappresentativi del concetto di black metal campeggia lugubremente sul fondo. Un tavolino, su cui giacciono due candele e un teschio, rappresenta il frugale arredo dello stage. L’eccitazione pervade l’ambiente, tutti sono consapevoli di quanto andranno a vivere. Gli Watain hanno rispettato le attese e per i Mayhem ci si aspetta un concerto sui medesimi standard di eccellenza. Sull’iniziale “Funeral Fog”, mentre il leggendario sound zanzaroso inzuppa di perversione corpi e ambiente, Attila tribola per alcuni minuti col microfono, che non ne vuole sapere di lasciar passare le urla psicopatiche del singer ungherese. Quel poco di indispettimento maturato in sala scompare circa a metà brano, quando l’insensatezza indecifrabile della voce inizia a far gelare i cuori. Finalmente, lo scempio di “De Mysteriis Dom Sathanas” prende piena forma. I Mayhem come live band non possono per nulla prescindere dal loro cantante, per quanto la formazione abbia le sue ottime carte da giocare anche strumentalmente. Se infatti Necrobutcher e compagni ripetono fedeli, tutti incappucciati e fermi nelle loro posizioni, una lezione che a ventidue anni di distanza rimane unica e impareggiabile, denotando ancora oggi il suo carattere di rottura coi tempi e la mancanza di un vero nesso logico-consequenziale con quanto combinato in campo estremo prima di “De Misteriis Dom Sathanas”, è il personaggio alla voce che cambia completamente rotta alla performance. Le movenze stregonesche, abbinate all’uso ineccepibile di screaming e baritonale, fendono la mente come aghi su cui è rappreso un pericoloso veleno. Da “Freezing Moon”, accolta da un ferale boato e scene di completo fanatismo, il concerto va in inarrestabile crescendo. In prossimità delle transenne alcuni imbastiscono piccoli focolai di mosh, ma il grosso degli spettatori vive il concerto in tutt’altra maniera: “Cursed In Eternity”, “Life Eternal”, “From The Dark Past”, non spingono chissà quanto a lasciarsi andare a movimenti scoordinati, frutto dell’adrenalina del momento, quanto a un apprezzamento raccolto in se stessi. La negatività ombrosa, obliqua, di cui le canzoni sono pregne non ci assale direttamente come per gli Watain, o come potrebbero fare Marduk o Dark Funeral. Piuttosto, viene assorbita come fosse una sostanza inodore e impalpabile, ma che a conti fatti inocula dosi enormi di negatività, quali pochi altri ensemble sono in grado di veicolare. L’intrattenimento scenico è tutto nella personalità instabile di Csihar, che quando si appropinqua al teschio sul tavolo assume una posa concentrata ancora più carica di sordidezza di quando si muove scenograficamente davanti ai monitor. Un plauso anche al suo face-painting, fonte di stomachevole raccapriccio, perfettamente ricalcato sul vissuto e il carattere pericoloso del personaggio. Un’eccellente versione della titletrack, brano preferito di chi scrive all’interno di un vero e proprio testo sacrilego dell’extreme metal internazionale, chiude senza lasciare adito a saluti e ringraziamenti un’ora di musica straniante, che soltanto i Mayhem, con questa line-up, avrebbero potuto rendere possibile.
DER WEG EINER FREIHEIT
La seconda giornata di festival si presenta ancora più nutrita nel programma, così poco prima delle quattro di pomeriggio è già tempo di avvicinarsi al palco per il concerto dei Der Weg Einer Freiheit. “Stellar” ha ottenuto un buon successo di pubblico e critica, tale da consentire una partecipazione emotiva discreta nonostante il ruolo di opener di giornata. Recentemente la band ha subito la defezione del bassista Giuliano Barbieri e, non avendolo ancora potuto rimpiazzare, i Der Weg Einer Freiheit si esibiscono come trio. L’occupazione degli spazi e l’attitudine live, come avevamo riscontrato all’Hellfest 2015, è ancora lungi dall’essere ottimale e i ragazzi tedeschi pensano soprattutto a suonare bene le parti di competenza, poco preoccupandosi di dare anche una cornice visiva alla musica. Le bordate sonore confezionate in studio appaiono all’Eindhoven Metal Meeting un po’ smorzate, il livore elargito solitamente va a sfumare in una patina shoegaze che, seppure presente nelle versioni originarie dei pezzi, dovrebbe restare confinata in sottofondo e non uscire così palesemente allo scoperto. Così, alcuni andamenti dilatati prestano il fianco a un pizzico di noia, data anche la fragilità del suono in questa sede. Dovuta, appunto, alla mancanza di un elemento fondamentale della line-up. In ogni caso, l’energia irrorata dal trio rimane sufficiente e la qualità dei brani consente di portare a termine in modo positivo l’esibizione.
SCHAMMASCH
La pubblicazione di “Triangle” ha acceso riflettori accecanti sull’operato degli svizzeri Schammasch, aprendogli le porte di un’attenzione globale da parte degli addetti ai lavori impensabile solo un anno fa. Di conseguenza la band ha cominciato a muoversi per portare la sua musica a una platea più vasta, passando per forza di cose attraverso un po’ di gavetta. Il che vuol dire scontare, per il momento, la desuetudine a suonare live di frequente, che si afferma in una certa farraginosità nel dare slancio alle architetture scenografiche del proprio materiale. Avvolti da nuvole di fumo che rendono a tratti assai arduo scorgere le figure dei musicisti, i cinque di Zurigo passano in rassegna le lunghe, pittoresche e cangianti evoluzioni compiute su “Triangle” e quelle più rudi delle pubblicazioni precedenti, muovendosi liberi fra oscurità maestosa e spiritualità altera. Non si lesina in partiture trascinanti e di ampio respiro, avvalorate nell’effetto dai vestaglioni usati per coprire le fattezze dei musicisti. Gli sguardi si posano inevitabilmente, in prevalenza, sul leader Christopher Ruf e la sua tunica pregiata, mentre dal punto di vista strettamente esecutivo il cantante/chitarrista compie il suo lavoro bene, ma con qualche sbavatura. Il growl ha vigoria solo discreta, va meglio il pulito, che lascia senza fiato sulla stupenda “Metanoia”, quando sembra di sentire declamare Eric Clayton dei Saviour Machine al di sopra d’immaginifiche tessiture avant-garde. Il materiale più estremo colpisce nel segno, proposto sicuramente in modo fedele, perdendo qualcosa in trasporto e magia, diffusa solo in parte. Diciamo che, se con l’ultimo album gli Schammasch sono divenuti una formazione ben al di sopra della media, dal vivo questa distanza nei confronti della massa non si nota ancora. Viste le qualità in dote, crediamo sia solo questione di (poco) tempo perché anche i concerti siano all’altezza delle prove in studio.
MEMORIAM
Nati per occupare il periodo di inattività dei Bolt Thrower diventato, purtroppo, un addio definitivo alle scene, i Memoriam sono assurti a questo punto quali profeti per le generazioni future del death metal made in England, forgiato dai leggendari autori di “…For Victory” e “The IV Crusade”. C’è attesa per il concerto, Karl Willets e compagni sono a una delle prime esibizioni fuori dal Regno Unito e i fan dei Bolt Thrower stanno attendendo con malcelata trepidazione il primo album dei quattro, “For The Fallen”, la cui uscita è prevista per il 24 marzo su Nuclear Blast. Osservando i modi del singer, è facile capire come l’assenza dalle scene fosse un fardello davvero insostenibile per il venerato artista di Birmingham, il quale ci mette mezzo secondo a conquistare la platea, forte di un entusiasmo spensierato, contagioso anche per chi non è propriamente un affezionato del personaggio. Willets sorride beato, si gode ogni secondo sul palco, scuote la criniera argentata seguendo l’ebbrezza suscitata dalla musica. La voce ha perso in profondità, non in espressività, il cantante rimane impareggiabile nel veicolare i sapori amari dell’epica bellica, sorretto da una band già abbastanza rodata, anche se ancora da registrare per alcuni aspetti. Il materiale a firma Memoriam appare come una rivisitazione più scarna del suono dei Bolt Thrower, per certi versi più primitivo, dotato di strappi grind dirompenti e sufficientemente efficace anche nei mid-tempo. Il punto di svolta per le canzoni è appunto la vocalità, mentre non convince del tutto la presenza di una sola chitarra. Scott Fairfax sembra spesso con l’acqua alla gola nel tentativo di conferire la necessaria pesantezza alle ritmiche e di rifinire adeguatamente le melodie. Il deficit diventa insormontabile durante i ripescaggi della discografia della band precedente del cantante e di Andrew Whale, quando servirebbe un miracolo per stare al passo, visto che quei pezzi erano solitamente suonati con due chitarre. Ma l’emozione è grande lo stesso e tocca il suo apice in “Inside The Wire”, da “Honour – Valour – Pride”, quando Willets accoglie sul palco per duettare con lui Dave Ingram, all’epoca di quella canzone cantante titolare dei Bolt Thrower. Le linee vocali sono cantate all’unisono, i due omoni si affrontano fraternamente, abbracciandosi a più riprese, trasformando l’ospitata in uno dei momenti più intensi dell’intero festival. Qualche particolare va migliorato, i Memoriam non sono per ora una macchina da guerra indistruttibile ma, visto il calibro dei musicisti coinvolti e la spinta di un passato tanto glorioso, non ci metteranno molto a trovare la propria quadratura del cerchio in sede live.
HARAKIRI FOR THE SKY
Sul District 19 è l’ora degli Harakiri For The Sky, che in estate sono riusciti a dare un seguito credibile ad “Aokigahara” tramite un disco, “III: Trauma”, bilanciato fra la rabbia disperata dei primi due album e sentori di un discorso più astratto e dilatato, in parziale rottura ai capitoli discografici precedenti. Fra l’ultima parte del 2015 e tutto il 2016 la band ha rinvigorito i muscoli con una lunga serie di concerti, sfruttando appieno il seguito guadagnato in tempi recenti. L’anno passato la creatura di M.S. e J.J, il nucleo vero e proprio degli Harakiri For The Sky, rimpolpato live da un secondo chitarrista, bassista e batterista, denotava una certa timidezza nell’affrontare il concerto. L’attacco di “Calling The Rain”, lunga opener dell’ultimo disco, lascia invece tutt’altra impressione nel folto assembramento di persone accorso: gli Harakiri For The Sky ci mettono difatti tutt’altra grinta rispetto alla comunque positiva performance del Metal Embrace 2015, i tipici graffi chitarristici e la selvaggia scontrosità ritmica stanno perfettamente al loro posto, esattamente come li desidereremmo. A dirla tutta, traspare una cattiveria che in “III: Trauma” viene un po’ ammansita dalla produzione pulita, mentre adesso dal vivo la compagine austriaca ci si fionda addosso con atteggiamento predatorio, senza trascurare la strisciante malinconia che fa da contraltare alla rabbia indiscriminata. Il cantante non sarà mai un comunicatore di primo livello, ma l’aria da ragazzo afflitto e incompreso si sposa ormai a un utilizzo meglio controllato della voce e il personaggio comincia ad avere le stimmate del frontman, seppure in una maniera molto schiva. Complice un gioco di luci frenetico, sottolineante come meglio non si potrebbe l’urgenza e l’irrequietezza dei cinque, il concerto prende una piega esaltante, a cui non si sottrae quasi nessuno in sala. Passando da una “Funeral Dreams” a “Burning From Both Ends”, fino alla conclusiva “Jhator”, le lacerazioni sconfortate e gli arpeggi lacrimevoli provocano moti di totale rapimento accanto a gratificanti headbanging in simultanea da parte delle prime file, scene che solo un anno fa difficilmente i musicisti viennesi sarebbero riusciti a suscitare. Un anno di concerti è servito eccome, gli Harakiri For The Sky hanno messo in un angolo le insicurezze e buttato il cuore oltre l’ostacolo: il processo di crescita continua.
HELL
Uno spazio riservato al classic metal l’Eindhoven Metal Meeting cerca sempre di riservarlo, anche quando tutt’attorno borbottano vulcani di atrocità malefiche. Perché vi sia assonanza col resto del programma, solitamente le compagini chiamate a presenziare ostentano a loro volta un pantheon tematico-sensoriale devoto alle tentazioni diaboliche. Non si fa eccezione nel 2016, con la presenza degli Hell sul palco principale. La bizzarra storia del gruppo, transitato come fugace meteora negli anni della NWOBHM e ritornato in grande stile negli anni 2000, quando ha sfornato due ottimi dischi come “Human Remains” e “Curse And Chapter”, si arricchisce di una prestazione sopra le righe in terra olandese. Il merito principale nella riuscita dello spettacolo, ammantato di una teatralità vorticosa degna di quella del sommo King Diamond, va ascritto all’eccitato stage acting del cantante David Bower. Il quale, di fatto, è un attore professionista, noto per partecipazioni a note serie televisive e rappresentazioni teatrali. Il singer si presenta con una finta corona di spine in testa e il microfono agganciato all’orecchio, così da potersi muovere senza alcun impedimento per il palco. La voce scatta agile e mai doma fra tonalità quasi sempre molto alte, nelle quali è infuso un carico di suggestioni debordante, rese ancor più vivide dagli sguardi penetranti e dalla tensione costante verso l’audience. Ogni elemento corporale concorre a produrre spettacolo, catalizzando le attenzioni e ingenerando una partecipazione accesa anche da chi non conosce a menadito l’operato della band. Il resto della formazione, diviso fra elementi più attempati (tra cui segnaliamo l’affermato produttore Andy Sneap) e altri con qualche anno in meno sul groppone, viaggia sicuro e vigoroso; le scudisciate speed metal non lasciano insensibili, così come quelle più sulfuree immergono nella contemplazione e affascinano per la sensibilità con cui sono suonate. I cambi d’abito e la finta autofustigazione di David Bower danno colore al concerto, diviso dagli Hell in piccoli mini-atti, che si susseguono senza indulgere in pause snervanti fra l’uno e l’altro. Quella in compagnia degli Hell è stata un’ora veramente elettrizzante, non ci aspettavamo di trovare i metaller inglesi in così sfolgoranti condizioni di forma.
BÖLZER
Entriamo con qualche difficoltà al District 19, perché nei due anni trascorsi dalla precedente calata ad Eindhoven lo stuolo dei seguaci dei Bölzer si è allargato, e non di poco. “Hero”, uscito solo poche settimane prima del festival, ha fatto capire che l’inventiva del duo è ben lungi dall’essersi esaurita con il demo “Roman Acupuncture” e gli ep “Aura” e “Soma”. Piuttosto, sta spingendosi in mondi sconosciuti. E lo sta facendo maledettamente bene. La ripulitura da alcune inquietudini estremiste e l’approdo in territori prossimi all’avant-garde dell’album appena edito lascerebbe supporre un approccio leggermente più ragionato anche ai live. Succede l’esatto opposto. Il fulmineo attacco di “The Archer”, aperta da un drumming marziale e un riffing ricolmo di prepotenza e muscolarità guerriera, si abbatte come un gigantesco martello di Thor sulle nostre teste. I volumi sono altissimi ma, fattoci il callo, scopriamo quasi con stupore che non stanno seppellendo il camaleontismo chitarristico e la stessa voce di KzR emerge limpida dal marasma generato dagli strumenti. L’ordinato sperimentalismo di “Hero” viene rivestito di tela grezza e un approccio barbaro che non mortifica la raffinata avventurosità del materiale più recente, così che in sala, vuoi anche per la calca che impedisce ampi movimenti, prevale un’ipnotizzazione di massa. Dal vivo, lo possiamo capire quando è il turno di “C.M.E.” e “Roman Acupuncture”, le differenze stilistiche fra le diverse pubblicazioni si assottigliano, grazie a una veemenza titanica che, assieme al tocco essenziale di HzR e l’inconfondibile suono della dieci corde, costituisce la pietra angolare dell’operato degli svizzeri. Eccellente la tenuta di palco, il cantante/chitarrista rifulge di un carisma eroico, dato dalle sembianze ciclopiche e dal modo di interpretare il concerto, energico come se fosse impegnato in un gigantesco combattimento all’arma bianca, impavido di fronte a migliaia di nemici. Fumo e luci che s’incrociano all’impazzata infondono un’idea di forte dinamismo, mescolato a una drammaticità che raggiunge l’apogeo durante “I Am III”, composizione articolata e piena di mutamenti imprevedibili. “Spiritual Athleticism” e “Enthraced By The Wolfshock” volano via a velocità supersonica, prive di increspature, KzR sicuro alla voce in tutte le sue sfumature. Il concerto si chiude in un ultimo tuono, lasciando non poco interdetti. Sempre meglio, i cari Bölzer.
MOONSPELL
Ultima tappa live del 2016 per i Moonspell. L’autunno della formazione lusitana è stato all’insegna del ricordo e della celebrazione, Ribeiro e compagni si sono soffermati sui primi due album, i giustamente celebrati “Wolfheart” e “Irreligious”, raccogliendo consensi in ogni angolo d’Europa. Ad Eindhoven il tempo a disposizione non consente di suonare per intero entrambi i dischi, come avvenuto negli show da headliner, ci si chiede quindi come voglia gestire la situazione la band. Di fronte a una platea caldissima, bastano le prime note di “Opium” a scatenare un’alterazione temporale e trasportare chi ha sorpassato la trentina negli anni in cui questa canzone era un must negli ascolti adolescenziali. Il frontman ruba la scena ai più compassati compagni, che dalle rispettive postazioni ricamano note fascinose con grande classe, concedendo quasi nulla al lato spettacolare e puntando a dare sostanza e poesia alla musica. “Awake” è terremoto ed estasi, dramma e passione, si freme di autentica emozione in sala, perché i Moonspell sono veramente in stato di grazia e ci immergono magnificamente nelle calde atmosfere diffuse dall’iconico album del ’96. Quando irrompe anche “For A Taste Of Eternity”, iniziamo a pensare che “Wolfheart” resterà un po’ in disparte almeno in questa occasione, lasciando al materiale più scorrevole e immediato del suo successore il compito di stregare gli avventori. La celebrazione del ventennale di “Irreligious” procede senza intoppi, alzando a ogni pezzo la sensazione di assistere a qualcosa di veramente sentito, che non risponde a un’esigenza commerciale del combo, ma va a toccare nel profondo ogni singolo musicista, oltre che ogni singolo fan. Per “Raven Claws” abbiamo anche l’ospitata di Mariangela Demurtas dei Tristania, a dare vita a un’interpretazione sfolgorante, molto simile all’originale, di uno dei brani più imprevedibili del full-length. Il suo contraltare è l’abluzione nei fumi diabolici di “Mephisto”, che mette in luce l’intatta potenza di Fernando nello sfregiare con growl catacombali, mentre sul finale arriva finalmente il turno di omaggiare “Wolfheart”. Il mantello indossato da Ribeiro dopo un rapido giro dietro le quinte non dà adito a dubbi, è il turno di “Vampiria”, e immaginarie spruzzate di sangue, come fossero un profumo di classe, guizzano qua e là tutt’intorno. “Alma Mater” lascia attoniti, come sempre, per l’intensità di ogni nota, cantata con un trasporto che nessun’altra canzone dei Moonspell può suscitare. “Full Moon Madness” arreca gli ultimi graffi, stillanti vivo piacere dai nostri animi, appagati senza se e senza ma da un concerto magico, interpretato col cuore in mano e un’inconfondibile focosità latina dai musicisti portoghesi.
EMPTINESS
Ci spiace lasciare Johan Edlund e le rotonde sciccherie gothic dei Tiamat, che sul palco grande stanno tenendo un concerto maiuscolo, ma la stranezza chiama, reclama le nostre attenzioni e non le possiamo dire di no. Gli Emptiness non sono derogabili. L’enigmatico combo belga si esibisce a luci basse, i fari di tonalità blu, richiamanti l’artwork di “Nothing But The Whole”, dominano, mettendo in controluce i musicisti e lasciando che l’attenzione sia catturata dallo schermo alle loro spalle. Guardandoci attorno, capiamo che l’audience è divisa in due parti di numerosità non omogenea: la prima, più ridotta e convinta, è formata da chi sa perfettamente cosa aspettarsi e non sta nella pelle al pensiero di sentire ‘quei suoni lì’ uscire dalle casse. La seconda, la maggioranza, ha sentito parlare degli Emptiness, vuole capirci qualcosa, non ha la benché minima idea di cosa diavolo possano partorire dagli strumenti. Così, intanto che scorrono “Go And Hope” e “Behind The Curtain”, qualcuno rimane e qualcuno se ne va, capendoci poco o nulla di quanto sta ascoltando. L’esecuzione è fedele e mescola splendidamente percezione uditiva e visiva, secondo un piano di battaglia studiato nei dettagli. Le immagini proiettate hanno per filo conduttore la modernità, la meccanizzazione, l’umanizzazione forzata ed eccessiva del pianeta: gli spezzoni scorrono concentrici, lo stesso filmato sdoppiato e proiettato in simmetria su entrambi i lati, in loop destabilizzanti che si saldano a una musica scivolosa, mantrica, una colonna sonora di sapore avanguardistico che mantiene solo a tratti contatti col death, il black, il progressive, il post-metal nel senso più ampio e vago del termine. Un musicista rimane seduto in un angolo, ad armeggiare con un set di effetti, dai quali estrae suoni arditi, sinuosi, imprevedibili e singolarmente armonici. Vi è un senso di malsano equilibrio a permeare le gesta della band, avamposto di irregolarità e coraggio che sonda i paradossi della musica contemporanea, vi scava dentro, vi estrae idee che forse altri hanno accarezzato, visionato, ma non hanno avuto il coraggio di portare pienamente alla luce. Pochi i momenti di secca brutalità, graditi per carità, sicuramente non centrali né indispensabili a uno show che si nutre di piccoli cambiamenti, torrenti bluastri a densità variabile, torbidi flussi di coscienza fluorescenti. Nonostante l’originalità dell’insieme e di ogni suoi singolo elemento, da chitarre elegantemente lugubri, in rotta verso i buchi neri dell’anima, a ritmiche in bilico fra progressive e post-rock, finendo con una voce biascicata altamente suggestiva, tutta questa bizzarria la si gode senza sforzo alcuno. Gli Emptiness, dopo tutto, sono relativamente diretti, basta non rifuggirli per il loro sfrontato sdegno verso ogni regola del metal: chi non ha abbandonato anzitempo, si è goduto un concerto da ricordare e raccontare con piacere agli amici.
BATUSHKA
Scende la notte su Eindhoven. L’ultimo concerto è previsto per l’una e mezza, orario che nelle passate edizioni scoraggiava il grosso dei presenti, inducendoli a tornare verso i propri giacigli prima della chiusura definitiva del festival. Stavolta, nonostante venga accumulato un ritardo di circa venti minuti, che porta l’ora d’inizio in prossimità delle due, la folla davanti al Large Stage è bella nutrita. Il motivo è semplice: dinnanzi a un backdrop raffigurante una Vergine Maria senza volto con Gesù Cristo in grembo, arrivano a tenere una fastosa cerimonia i polacchi Batushka, balzati agli onori delle cronache grazie a una miscela non proprio usuale di black metal atmosferico e canti gregoriani. L’entrata in scena è pirotecnica nella sua semplicità, con strumentisti e coristi che prendono posto ordinati, freddi, come fossero monaci in procinto di iniziare una giornata di preghiera e lavoro. Enormi vestaglioni neri riccamente decorati indosso, il volto coperto, in otto appaiono on-stage. Per ultimo, quando gli strumenti hanno già iniziato a propagare i loro spiritati miasmi, si installa davanti a un leggio il voluminoso cantante, non prima di un’obbligatoria aspersione d’incenso dal turibolo. Se il corredo visivo dà ottimi presagi, la musica mantiene le attese suscitate da cotanto splendore. L’unico full-length pubblicato finora, il già rinomato “Litourgiya”, viene passato in rassegna integralmente, mantenendo l’accorto equilibrio delle versioni in studio. Il materiale scorre rapido e pungente, il black metal nelle mani di questi ignoti musicisti – si vocifera siano della partita artisti già ben noti negli ambienti extreme metal esteuropei – diventa materia multiforme, in bilico fra tradizione e modernità. Le chitarre a otto corde danno spessore lasciando comunque traspirare armonie ritualistiche ammalianti, le ritmiche contemplano tirate ferali come piccoli rilassamenti utili a impregnare l’aria di misticismo, mentre i cori si stagliano sovrani, potentissimi. Quattro-cinque voci perfettamente intonate, in simultanea o a turno, si elevano erigendo una muraglia di umori ecclesiastici, intersecandosi allo screaming forsennato, già di per sé teatrale, della voce principale. L’orecchiabilità di fondo e l’assenza di ghirigori fumosi permettono ai Nostri di far breccia in pochi minuti, così che lo show si trasforma in una cavalcata trionfale. Un bacio a un’icona rappresentante la copertina del disco e una benedizione urbi et orbi ci congedano, felici e soddisfatti di quanto offerto dai Batushka e dal festival nella sua interezza. Torneremo ancora ad Eindhoven, ne siamo certi.