Report a cura di Giovanni Mascherpa
Il terzo fine settimana di dicembre cade un Natale ben più entusiasmante di quello dedicato alla Santa Natività. Eindhoven, per gli appassionati di metal estremo, è da qualche anno una credibile, moderna Betlemme e anche nel 2017 si è ben concessa a razzie da parte di avventori provenienti da tutta Europa. L’happening organizzato presso l’Effenaar ha raggiunto il suo massimo fulgore nel 2016, mettendo in fila una line-up ai limiti dell’immaginabile, circostanza che permise allora di toccare il sold-out con qualche settimana di anticipo. Quest’anno l’organizzazione ha apparecchiato un lotto di nomi prettamente rivolto ai cultori della materia, negli headliner le scelte sono cadute su nomi storici abbastanza lontani dai loro apici (Venom, Carpathian Forest, Master’s Hammer, Tankard) ma che hanno ancora una loro perversa seduzione sull’uditorio estremista. Per conto nostro, ben più ricco e articolato appariva tutto il resto della programmazione, comprendente alcune delle migliori realtà sorte nell’underground continentale dal 2010 in avanti. Il consueto, riuscito mix fra becerume, ricerca, sperimentazione, visceralità e ragionamento, con i piedi ben piantati nella tradizione, che abbiamo imparato a conoscere e apprezzare dal 2014 in avanti, ha contraddistinto un’altra edizione che se non avrà toccato le vette di presenze delle ultime edizioni, sul piano artistico è stato un altro altisonante successo. Innumerevoli, soprattutto il sabato, le prestazioni da ricordare, davanti a un pubblico che per una volta non è quello variegato e trasversale di altri festival, piuttosto fieramente denim and leather, arcigno, intransigente, metallaro nel midollo. E, quel che più conta, erudito e appassionato a sufficienza da celebrare con uguale entusiasmo gli act di maggiore risalto e quelli che si muovono all’ombra dei grandi nomi. Un pavimento perennemente appiccicaticcio per la birra caduta al suolo, giubbotti di jeans ricoperti di toppe di ogni tipo, reperti umani estratti da un negozio di dischi degli anni ’80-’90, urla disumane e una certa mancanza di creanza figlia di un’evoluzione mozzata sul nascere, hanno influenzato l’ambiente spensierato e avulso dalla realtà esterna dell’Eindhoven Metal Meeting. Suoni perennemente al top (con le poche eccezioni di cui vi diremo), cambi di palco pressoché privi di ritardi e una logistica collaudata hanno collaborato alla riuscita di una manifestazione cui è difficile resistere e che fa tornare a casa con un sorrisone impossibile da levarsi di dosso per giorni.
PENTACLE
Lo sciopero dei piloti Ryanair ci obbliga a un non gradito cambiamento di programma, che costringe a volare su Amsterdam, prima di raggiungere Eindhoven in treno. Disagio aggirato subendo meno fastidi del previsto, ma che ritarda lievemente la nostra entrata nel locale. La fornace di rumore ci si spalanca allora dinnanzi per i ruvidissimi Pentacle, orgogliosa leggenda dell’underground olandese. Ancorati nei secoli dei secoli a un grintoso, basilare death metal di ascendenza prettamente nordeuropea e che più old-school non si potrebbe, i quattro di Bladel ci salutano con un backdrop recitante un messaggio inequivocabile: ancient death metal. Un apparire rustico di tutti e quattro si armonizza a una musica ideale per scaldare gli animi e liberare compiutamente i bassi istinti: ogni brano è un assalto forsennato che non teme tentennamenti o sente il bisogno di aprirsi a registri ariosi. Canzoni sparate in faccia, caratterizzate da un lavoro di chitarra tradizionale ed energico, dove pure gli assoli non hanno cittadinanza (se ne udirà uno di numero sul pezzo di chiusura), sono scaraventate in faccia con l’atteggiamento infingardo di chi al di fuori del death metal che sta suonando non ha voglia di occuparsi di niente e di nessuno. L’alternanza fra up-tempo cavernicolari e radi mid-tempo, posizionati giusto per concedere qualche attimo di relativo refrigerio, è quanto ci si può attendere da Wannes Gubbels e la sua irragionevole ciurma. Un concerto di cruenta concretezza, che non delude proprio nessuno.
DISHARMONIC ORCHESTRA
“Are you ready for some weird metal?”. Vuoi dirgli di no? L’introduzione allo show da parte di Patrick Klopf, condita da un quasi impercettibile sorrisetto sardonico, riassume l’indole surrealista di un combo mai accodato a niente e nessuno, transitato nel panorama extreme metal senza causare folate di interesse veramente degne di nota. Nonostante una proposta originale, che prende il death-grind novantiano e lo scompone in un rompicapo spigoloso che nulla ha a che spartire con i deliri digitali del post-core, del math-core o del progressive death metal più ardito e fastoso. Al contrario, i tre austriaci trasmettono, nell’orda di tempi bislacchi, riff repentini, colpi di testa improvvisi su cui si reggono le loro composizioni, una fedeltà di fondo al primo metal estremo europeo. Non è difficile riconoscere spunti che non potrebbero arrivare da nessun’altra parte che dall’underground dei primi anni ’90: la passione per l’alternative rock, il jazz, la sperimentazione libera e selvaggia, hanno dato quindi una svolta bizzarra ai musicisti di Klagenfurt, sempre un passo avanti in termini di esplorazione e contaminazione di suono. La sala grande dell’Effenaar appare svuotata del grosso dei suoi effettivi, il materiale dei Disharmonic Orchestra (tornati a pubblicare inediti con l’album “Fear Of Angst”, nel 2016, e l’ep “Raw” nel 2017), pur se mediamente rapidissimo e di sfrontato impatto, prevede tante di quelle torsioni e incastri che capirne il senso è esercizio quasi da esame di matematica all’università: poco male, il trio suona benissimo e con trasporto, evitando quel distacco facile da riscontrare in gruppi di così elevato tasso tecnico. Segnaliamo un breve omaggio ad Adriano Celentano, citato nell’annuncio di un brano, concluso proprio con un sample del celeberrimo Molleggiato. Se l’Eindhoven Metal Meeting 2017 è stata un’esperienza memorabile, lo dobbiamo anche a questo strampalato terzetto.
BLASPHEMY
Musica brutta per gente brutta. Non prendete troppo alla lettera la definizione e non sentitevene offesi, nel caso vi inchiniate ogni santa mattina davanti a un mega-poster raffigurante la copertina di “Fallen Angel Of Doom”. Vi sfidiamo a sostenere che vi sia ‘bellezza’ quale traduzione di grazia, perfezione e armonia nella musica dei misantropi canadesi e che essa evochi sentimenti positivi. Passati in quel di Eindhoven già tre anni orsono, ospitati in un District 19 gremito, nell’anno che li rivide all’opera sui palchi in Europa dopo tempo immemore, ora i Blasphemy tornano a tagliare gole nella sala grande, salutati come moderni Anticristo. Pittati da degenerati quali essi sono, con un’ideale palma del più abbietto vinta a mani basse dal corpulento bassista, presentatosi a torso nudo e tutto dipinto a grossolane strisce grigio-nere, i cinque hanno vita facilissima nell’ingenerare l’Apocalisse dinnanzi a sé. Un tetro minimalismo e l’assenza di qualsiasi sovrastruttura che non sia la storpiatura verso la sozzeria del suono di ogni strumento, voce inclusa, costituiscono i tratti fondamentali di una ricetta sonora all’epoca trascurata, oggi nelle orecchie di tutti coloro che masticano extreme metal. Il ruolo di padrini di un’intera generazione gioca allora un ruolo fondamentale nel far apprezzare un concerto che tiene fede alle premesse e incute un timore genuino nell’audience, sballottata da una primordiale brodaglia death-black che, rispetto alla prova di tre anni fa, appare meglio definita e se possibile ancora più brutale. Come allora, la durata del set – cinquanta minuti – amplifica gli effetti di disagio e angoscia; urla isteriche, assoli straziati, lacerazioni ritmiche si accavallano come corpi martoriati su una rete di recinzione elettrificata, scossi nelle membra ad ogni scarica indotta. Un’esperienza ‘al limite’ a tutto tondo, che passa in rassegna in maniera quasi omnicomprensiva la scarna discografia della formazione: i sentimenti al termine ondeggiano fra sbigottimento e piena soddisfazione, in ogni caso non si può dire che i Blasphemy abbiano lasciato indifferenti.
DOOL
L’onda lunga di “Here Now, There Then” assume il massimo del suo volume proprio nell’attimo appena precedente al felice schianto sull’Effenaar. Il District 19 è ricolmo di persone che non vogliono assolutamente perdersi una delle new sensation dell’anno in chiusura. Il fatto che il gruppo sia olandese ovviamente contribuisce a cotanta partecipazione e i cinque, da par loro, non tradiscono alcuna emozione. In estate ne eravamo rimasti soggiogati al Prophecy Fest, quando si presentarono in una line-up allargata comprendente due coriste e una violinista. In questo caso assistiamo a un concerto più ‘classico’, privo di aggiunte esterne, la van Dorst non alterna nemmeno chitarra acustica ed elettrica, utilizzando solo la seconda. Ciò che non cambia è l’impressione travolgente e la classe sconfinata emanata dal collettivo. Canzoni già di per sé ottime come quelle comprese nel full-length d’esordio avvampano di un’energia rara, il matrimonio con l’oscurità innalza atmosfere solenni, si promana una magia antica e non precludente un trasporto patrimonio dell’hard rock al massimo del suo splendore. I rallentamenti doom portano a trattenere il fiato, quasi che il minimo scricchiolio possa minare l’estasi; lo scrosciare all’unisono delle tre chitarre, quando i Dool rombano fra classic metal, death rock e post-punk muscolare, smuove anche i più rudi e convinti black metaller, forse a loro volta increduli di essere così ammaliati da trame così seducenti. La van Dorst trascende il semplice ruolo di cantante, non le servono pose studiate o trucchi scenografici per catturare le attenzioni; sfodera un carisma fuori dal comune, che la rende una delle figure più efficaci in circolazione nel circuire il prossimo, incatenarne la mente e trascinarlo con sé in un mondo arcano ricco di simbolismi e sortilegi. “In Her Darkest Hour”, “She Goat”, “The Death Of Love” sono già a pieno diritto nuovi classici dell’hard’n’heavy. A breve, cotanta beltà arriverà anche in Italia per un paio di date in compagnia degli Harakiri For The Sky: un must della stagione concertistica 2018.
DARK TRANQUILLITY
I Dark Tranquillity sono stati aggiunti quasi all’ultimo momento, causa defezione dei My Dying Bride. Quindi, quello che si trovano davanti non è esattamente il loro pubblico abituale. Diciamo pure che la parte preponderante di chi ha pagato il biglietto non è esattamente qui per loro e lo si nota dai larghi vuoti in sala, inusuali per una formazione di questo calibro. Ancora in fase di promozione dell’ultimo “Atoma”, i cinque svedesi non hanno comunque intenzione di deludere chi ha voglia di spendere del tempo in loro compagnia. L’allestimento dello stage garantisce un corredo visuale di alto profilo, data la proiezione di video delle canzoni e altri filmati afferenti l’universo tematico del gruppo sull’ampio fondale alle loro spalle. Ciò distrae leggermente dall’osservazione dei musicisti, tutti abbastanza compassati ad eccezione di quel gran showman che è Mikael Stanne. C’è da dire che il lungocrinito singer non attraversa una delle sue giornate migliori, la sua voce esce un po’ gracchiante, ma ciò è compensato dall’ardore e dalla giovialità con cui si approccia al pubblico. Niente ripescaggi old-school in questa occasione, la setlist pesca in modo equilibrato dal materiale degli anni 2000, privilegiando gli aspetti melodici e di atmosfera alle scorribande più brutali. Dei suoni leggermente meno potenti della maggior parte degli ensemble transitati sullo stesso palco non frenano la carica delle tastierose “Clearing Skies” e “Forward Momentum”, o dei sempre graditi ripescaggi da “Damage Done” (“Monochromatic Stains”, “The Treason Wall”). Nel segno del materiale ultra-catchy, mietono consensi la ruffiana “The Science Of Noise” e “The Wonders At Your Feet” e fa un’ottima figura anche “ThereIn”, da “Projector”, appena prima della chiusura affidata a “Misery’s Crown”. Una prestazione non del tutto impeccabile, quella dei Dark Tranquillity, più routinaria di altre ammirate nella due giorni, pur sempre un gran bel sentire e vedere.
CULT OF FIRE
Perdiamo il conto delle candele accese sui due altari posizionati on-stage per i Cult Of Fire. La misteriosa compagine ceca, oltre che per l’orientaleggiante speziatura del suo black metal, ha tra i motivi di successo una conturbante patina esoterica e il ricalcare un forte immaginario liturgico, di cui sono diretta emanazione gli stravaganti paramenti scenici e, appunto, i candelabri, i teschi, i vari monili posizionati sul palco. L’attesa è palpabile, “Ascetic Meditation Of Death”, vecchio ormai di tre anni abbondanti, ha incantato trasversalmente i cultori dell’underground meno allineato, unendo in un patto d’acciaio gli ascoltatori tradizionalisti e quelli di ampie vedute. Assisi quali multicolori statue di marmo, i due chitarristi nascosti dietro ingombranti candelabri, il solo frontman dalle mani guantate a concedersi alla vista, impenetrabile agli sguardi in volto come i compari – la faccia è completamente coperta da un velo nero – i quattro promulgano una musica fatta di sottigliezze e arcani splendori. Le chitarre impastano melodie dorate, originali progressioni ammaliano in un maligno processo catartico, un avvicinamento pericoloso a divinità malsane compiuto attraverso armi seduttive e non punitive. Per quanto la forza di rottura del black metal sia un architrave del Cult Of Fire-pensiero, è la ricerca di suoni inusuali amalgamati a un chitarrismo ruvido e rapidissimo la cifra distintiva del quartetto, che affoga i suoi toni intellettuali in un comunque spietato bagno di sangue. Quando i suoni sono dalla loro parte come ad Eindhoven, il tremendo potere evocativo delle loro articolate composizioni colpisce inesorabile, con le sette corde coadiuvate da un drumming incessante e una voce crudelmente camaleontica. Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, il frontman non rimane indifferente alla spinta della folla, tutt’altro: le risponde con cenni di approvazione, la spinge ad aumentare gli incitamenti, dal movimento ritmico delle mani pare la voglia dirigere come un attento direttore d’orchestra. Che la dea Kalì danzi sfrenata a maledire le vostre spoglie.
DARKANE
Non si può dire abbiano vissuto una delle loro serate più fortunate i Darkane, primo act che riusciamo ad acciuffare nel programma della seconda giornata. Durante un festival per il resto privo di intoppi, tutte le sfighe aleggianti in quest’angolo di Paesi Bassi decidono di scagliarsi all’unisono sui death-thrasher svedesi. Poco dopo l’inizio dell’esibizione, le chitarre iniziano a gracchiare, fino a rendere insostenibile l’ascolto. Terminato il primo pezzo, i musicisti capiscono di doversi fermare e risolvere il problema. Purtroppo l’armeggiare dietro gli amplificatori non porta miglioramenti significativi e serve allora un secondo stop, con i componenti della band che cercano di dissimulare l’irritazione buttandola sull’ironia. Se ne va tempo prezioso e, ci spiace dirlo, quando gli strumenti riprendono a funzionare, non è che i Darkane producano chissà cosa. Pallida incarnazione dei voraci avanguardisti autori di “Rusted Angel” e “Insanity” a cavallo del terzo millennio, gli svedesi in questa sede suonano esattamente come una delle decine di compagini giunte sul mercato nella loro scia: riff presi al discount, batteria quadrata e prevedibile, cronometrica alternanza di voci sporche nelle strofe e pulito sul chorus. Se consideriamo inoltre i polmoni prosciugati di potenza del cantante e un portamento non propriamente da assassini seriali, capirete quanto sia risultata insipida la prova di quelli che negli anni di massimo fulgore dello swedish thrash erano capofila di un’intera scena. Meglio rispolverare i loro migliori dischi e sperare che stiano solo subendo un periodo di leggero appannamento.
GAAHLS WYRD
Poche personalità sanno riassumere con la sola presenza, uno sguardo, il semplice passo, il concetto di black metal. Impossessarsi di questa forza espressiva senza incorrere in forzature è dote rara ed è quella che connota il buon Gaahl al di là delle notevolissime doti vocali. L’ex Gorgoroth sta mettendo a ferro e fuoco l’Europa con il suo progetto Gaahls Wyrd, dove ripercorre la sua avventura nel black metal norvegese attraverso le molteplici incarnazioni cui ha prestato la propria voce. Sulle note di “Sign Of An Open Eye” si coagulano i primi focolai di ferale passione, basta l’entrata in scena degli esperti compagni di ventura del protagonista principale per accorgersi che l’atmosfera è quella giusta, tesa e infiammabile. L’aggressività mefistofelica degli strumentisti contrasta con l’entrata in scena del frontman, che si astiene da movimenti scattanti ed espressioni di accesa acrimonia, contemplando flemmatico le prime file. La temperatura sale di conseguenza al respiro sempre più cruento della musica, dove parentesi di epicità sanguinolenta si sfrangiano in sciabolate maestose e spesso connotate di una certa armonia di fondo. Poi, certo, quando ci si affaccia sul materiale più datato, per forza di cosa esce una negatività raggelante, uno stridore di suoni violentato da uno degli screaming più enfatici e impressionanti sulla piazza. Non meno devastanti, se si vuole anche per l’effetto surreale e altrettanto minaccioso che infondono, le escursioni in pulito; la brutalità dell’insieme deroga allora per alcuni attimi dal bieco strozzamento e assume un tono teatrale, che mescola estasi e punizione finale. Gaahl cammina calmo per il palco, lo sguardo attraversa occhi e mente di chi lo incrocia, la figura del singer provoca allo stesso tempo ammirazione e paura, mentre passa in rassegna capitoli più o meni noti di Gorgoroth, Trelldom e God Seed. Gli altri membri del gruppo escono facilmente dal ruolo di semplici accompagnatori, denotando a loro volta la sicurezza di chi sul palco non solo suona, ma vive nel profondo la sua musica e gode nel trasmetterne le palpitanti sensazioni a chi ha davanti. Lo scambio di simboli diabolici fra Gaahl e un bimbo in spalle al padre, capitato fin a ridosso del palco, è in assoluto l’immagine più significativa del concerto e dell’intero Eindhoven Metal Meeting.
ANOMALIE
Giovane linfa scorre nelle vene degli Anomalie, giunti con l’ultimo album “Visions” allo stadio di piena maturazione. Affrancatisi da uno status di semplici seguaci del filone post-black metal ‘emotivo’, gli uomini di Marrok, frontman e unico songwriter, si presentano ora come un ibrido di black metal evoluto, folk, prog e death metal melodico, nel quale la componente epica, quasi viking, si è guadagnata uno spazio di tutto rispetto. Ed è proprio questo approccio virilmente tragico, di narrazione di un passato drammatico e perduto, di una natura che reclama il suo spazio nella vita dell’uomo, a costituire il perno attorno a cui si srotolano i pezzi dal vivo. Un piccolo altare votivo, arredamento utilizzato in forme lievemente diverse da molti act transitati in questi anni all’Effenaar, serve a Marrok per compiere eloquenti gesti di adorazione e rispetto, compendio estetico a una musica che vive della cupa possanza delle tre chitarre e di tempi medi corposi. Echi bathoryani escono lievemente smussati nell’impatto da volumi non eccelsi delle sei corde, più monocordi e meno pastose di quanto si oda su “Visions”. Nonostante si noti un appiattimento nelle dinamiche e nei registri emotivi del dettagliato panorama sonoro dipinto su disco, gli austriaci non deludono. Tale è il fervore con cui suona, che il sestetto arriva dritto al cuore dei presenti nonostante una prestazione considerevolmente più grezza di quella in studio. Il vocione di Marrok trasmette appieno la genuina comunione con il mondo naturale che la band intende instaurare nelle sue canzoni, tormentate, focose e rabbiose ma in grado di perdersi, all’occorrenza, in attimi di quieto raccoglimento. Non il concerto della vita, ma una valorosa testimonianza di un’altra bella realtà dell’extreme metal europeo.
OUR SURVIVAL DEPENDS ON US
È uno spettacolo non comune vedere all’opera questa compagine austriaca. I musicisti sembrano usciti da una boscaglia dopo lungo eremitaggio lontano dalla civiltà, dietro si sono portati anche una pelliccia, attaccata, tanto per farla notare, all’asta di un microfono (un bel volpino di colore chiaro, nell’occasione). La fragranza di incenso nell’aria è fortissima, gli Our Survival Depends On Us ci tengono che vi sia un ambiente confortevole per i loro racconti. L’essere impegnati anche in progetti neofolk e cantautorali influisce sui modi affabulatori caratterizzanti il loro metal multiforme, un doom-sludge mistico e progressivo assolutamente unico, che si avvale di intersezioni vocali intense compiute dalle tre voci, operanti in solitaria o simultaneamente. Lunghi cantici intrisi di spiritualismo e simbolismi si elevano nel District 19, i pezzi si avvolgono su se stessi in morbidi drappi, rotti da isolate accelerazioni che riportano in prima linea la foga dell’extreme metal. Sprazzi fugaci, la musica assume più di frequente toni confessionali, si ingrossa senza perdere una rustica eleganza, abbellita da un lavoro di tastiera di sottofondo piuttosto originale. Perdere la cognizione del tempo e dello spazio è un attimo quando si è alle prese con gli Our Survival Depends On Us, parentesi bucoliche rasserenanti si accomodano soavi in mezzo a un lento turbinare di chitarre vibranti, gonfie di pathos e riflessività. “We Are Children Of The Dawn” é l’orgoglioso inno comprensivo dei tratti distintivi del pensiero lirico e sonoro della formazione, che nelle poche occasioni in cui si presenta su di un palco sa infondere sensazioni inimitabili.
CORONER
È vero, il promesso nuovo album non è arrivato neanche nel 2017. La scaletta non subisce variazioni sostanziali da qualche anno. Non prestano cura ad alcuna scenografia. Però, quando suonano dal vivo, c’è solo da inchinarsi. I Coroner all’Eindhoven Metal Meeting producono uno show che rende piena giustizia alla loro storia e ne conferma l’assoluto avanguardismo. Anche in tempi di virulente sperimentazioni come quelli attuali, il techno-thrash degli elvetici rimane qualcosa di totalmente fuori dai canoni e dal vivo riluce di una modernità finanche superiore ai dischi. Thomas Vetterli non è mai stato celebrato a sufficienza per il suo stile innovativo e la ricerca di suoni molto personali, alla stregua di come usava comportarsi più o meno negli stessi anni Piggy nei Voivod. Nel quadro di una prestazione scintillante, i solismi insinuatisi un po’ dappertutto del chitarrista ex Kreator rapiscono orecchie e occhi, uno shredding straripante perfettamente incastonato in avveniristici labirinti di note che, oggi come quando furono concepiti, mettono alla frusta gli ascoltatori. Nel caso del materiale di “Grin” e “Mental Vortex” (“Internal Conflicts”, “Semtex Revolution”, “Divine Step (Conspectu Mortis)”), l’unico comportamento possibile è quello di rimanere vigili sugli arrangiamenti e gli effetti fantascientifici, orchestrati dal membro aggiunto Daniel Stössel; quando si torna a “Punishment For Decadence” e “No More Color” (“Masked Jackal”, “Tunnel Of Pain”), allora possono partire headbanging e qualche ben accolta baraonda a bordo stage. Buona la forma vocale di Ron Royce, anche se il ghigno d’epoca è stato sostituito da una più anonima voce rauca, per evidente impossibilità di affrontare le linee vocali come una volta. Osservazione minima, i Coroner funzionano alla grande, sia nel suonare dritti e selvaggi che nell’accarezzare atmosfere algide ed esploranti l’ignoto. La doppietta “Reborn Through Hate” (accolta da un’ovazione)-“Die By My Hand” non può che fungere da ultimo colpo di baionetta ai nostri cuori, raramente emozionati da una tale fulgida testimonianza di techno-thrash d’annata.
JESS AND THE ANCIENT ONES
Incurante dello sporco accumulatosi, Jess si presenta a piedi nudi, indossando un vistoso vestito fiorato d’altri tempi, in mano il suo adorato tamburello. L’occhio di riguardo all’hard rock underground dell’organizzazione premia stavolta il brillante combo finlandese, uscito a inizio dicembre con il terzo disco “The Horse And Other Weird Tales”. Non avendo alle spalle una campagna promozionale accanita, non crediamo siano ancora in molti a conoscere le nuove canzoni del sestetto nordico al momento in cui si presentano ad Eindhoven, mancanti del secondo chitarrista. Non ce ne vogliano i comunque ottimi musicisti che l’accompagnano, ma non vi è dubbio che a fare il bello e il cattivo tempo sia quella divertentissima pazza della frontwoman. Pensate allo stereotipo dell’hippie, imbottitela di adrenalina, cocktail di acidi, donatele vocalità afro ed estensione bel al di sopra della media e avrete grosso modo la cara Jess. La mimica fa pensare a quella di un teatrante comico parecchio sopra le righe, oppure ai modi di un’odalisca o danzatrice del ventre fuori controllo; nulla che non sia funzionale a far meglio apprezzare una musica indiavolata, che nell’eccentricità degli accostamenti al nudo rock’n’roll ha la sua cifra distintiva. Perpetuando il moto di scuotimento del tamburello, Jess passeggia tarantolata accanto ai suoi altrettanto dinamici compagni di ventura, intonando sicura e fomentata da un incandescente fuoco interiore le canzoni più impattanti del repertorio. Focus sul secondo album “Second Psychedelic Coming: The Acquarius Tapes”: “The Flying Man”, “The Equinox Death Trip” e “Wolves Inside My Head” porterebbero a comportamenti esagitati gli individui più dotati di autocontrollo, forti di fraseggi imbottiti di stimolanti e arrangiamenti incredibili per come aggiungono particolari senza appesantire il flusso sonoro. Le nuove “Death Is The Doors” e “Shining” non sono da meno, è divertente vedere truci omaccioni abbozzare balli inconsulti, stregati dalla scivolosa gelatina d’organo, le acidule linee di chitarra e le urla sfrontate di Jess. Straripanti a dir poco Jess And The Ancient Ones, ce li coccoliamo in uno scenario relativamente raccolto, sperando non perdano mai la loro purezza d’intenti per aprirsi a platee ben più vaste.
THE GREAT OLD ONES
Ultima data del tour che li ha visti esibirsi a supporto dei Gaahls Wyrd, i The Great Old Ones sono inseriti in uno slot suggestivo, a parere di chi scrive nella ora più delirante del festival. La notte del secondo giorno è dei persistenti, coloro che non cedono alla stanchezza e rimangono fino alla fine, sapendo che proprio nella coda sono previsti tesori di inestimabile valore. È stato così nelle edizioni passate, accade anche per il 2017. H.P. Lovecraft ci scruta severo dall’enorme fondale a fondo stage, le luci rosse e blu puntano sulla sala, tenendo i musicisti semioccultati, incappucciati e spersonalizzati. I suoni non causano scherzi scomodi, tenere in equilibrio le tre chitarre in dote al gruppo non è esercizio semplicissimo per i fonici, però di problemi in questo caso non se ne rilevano. Quando non ghermiti da ostacoli tecnici, i The Great Old Ones travalicano i confini della ragione. Gli schemi compositi della batteria pongono marmoree fondamenta per il sovrapporsi cangiante in sfumature di nero delle chitarre, una erezione di cattedrali vastissime e robuste che cambiano di forma e consistenza nel veloce asserragliarsi di ritmiche e armonie, complesse e annichilenti. Un discorso ermetico, quello di pezzi dalla carica emotiva enorme come la brutale “Antarctica”, che non lesina in deviazioni irrealmente astratte e relativamente quiete, che se su disco hanno ampio spazio, dal vivo sono più spesso inglobate in un accanirsi assai frenetico sugli strumenti. Comunicazioni nulle da parte della band, intenta a suonare con intenti distruttivi, brava a sfruttare il minutaggio disponibile per suonare al massimo delle possibilità e non regalare nulla al semplice intrattenimento. Un’erudita lezione di violenza, fra post-metal, black evoluto e sludge, all’altezza della fama conquistata dal combo con gli immaginifici “EOD: A Tale Of Dark Legacy”, “Tekeli-Li”, “Al Azif”.
AUĐN
Orari da sonnambuli, quelli cui ci obbligano gli Auđn. In sala anche Gaahl ammira compiaciuto questi giovani che definire di belle speranze sarebbe ingiurioso nei loro riguardi. Perché non c’è da valutarli in prospettiva, piuttosto lodarli per l’agghiacciante – in senso positivo – presente. Dall’enfasi visiva dei The Great Old Ones scendiamo all’essenzialità di ragazzi che si presentano in giacca e maglia nera, pronti per una sfilata su qualche passerella di moda casual. Invece piazzano tra capo e collo una di quelle esibizioni da ricordare negli anni, ferocissima, posseduta da demoni assetati di sangue ma anche di una sofferenza più cerebrale, non per questo meno dolorosa. Il riffing sottile e tagliente sferza come vento gelido e desta anche chi ormai sta lottando per non cadere anzitempo fra le braccia di Morfeo. In un attimo, sottoposti a un assedio di black metal in bilico fra scuola novantiana e le atmosfere intellettuali e contaminate dei 2000, l’energia dei presenti è ai massimi livelli e viene la tentazione di avvicinarsi il più possibile alle transenne, per subire meglio l’impatto scarnificante degli islandesi. L’intensità straziante, priva di soluzioni di continuità, porta a immaginarli come dei Deafheaven ricoperti di pece, paragone rinforzato dal cantato sadicamente emotivo e dal carisma incombente del frontman. Non hanno bisogno di inventarsi alcuna posa o trucco visivo gli Auđn, le canzoni di “Farvegir Fyrndar” si riversano su di noi fra tremolii poetici e crudeli e scariche inarrestabili della sezione ritmica. Non c’è un attimo di tregua, un momento di relativa calma, una sequenza vagamente tranquilla. La riflessione, durante e dopo il concerto, è che degli Auđn non ne avremmo avuto abbastanza anche se avessero raddoppiato la durata del concerto. Chiusosi alle due e mezza in un abbraccio collettivo coinvolgente i membri di Gaahls Wyrd, The Great Old Ones e gli stessi islandesi, compagni di tour giunti al rompete le righe, sotto gli occhi soddisfatti di un Gaahl rimasto con gli occhi incollati al palco fino al termine. Buonanotte Eindhoven, arrivederci al 2018.