Report a cura di Giovanni Mascherpa
Tocca la decima edizione l’Eindhoven Metal Meeting, tradizionale appuntamento prenatalizio divenuto da qualche anno uno dei principali festival indoor europei. La fortunata programmazione a metà dicembre lo svincola dal fitto calendario dei live autunnali, fattore che assieme alla facilità di accesso da molti punti del Vecchio Continente, porta metaller di molte nazionalità diverse a riversarsi regolarmente nella città della Philips, per godere di un programma ricco e variegato, solidamente ancorato alla tradizione. Se negli anni scorsi la scelta delle band portava a una miscellanea di nomi vecchi e nuovi di death e black metal, con qualche concessione all’hard rock e al classic metal, oppure a qualche act trasversale e incline alla sperimentazione, in questa edizione la line-up ha assunto caratteri ancora più netti e intransigenti. Tolte rade eccezioni, di melodia e atmosfere sognanti non si è proprio avuto sentore, mentre hanno abbondato le atrocità, gli spargimenti (virtuali) di sangue, l’abbruttimento e l’occulto. Se, apparentemente, questa edizione si presentava con vedute meno elastiche e un canovaccio più prevedibile, alla prova dei fatti le differenti interpretazioni di sonorità nere e ammorbanti, unite a una qualità complessiva delle performance molto elevata, ha largamente soddisfatto le aspettative. Il bilanciamento di pesi massimi e realtà underground ha ancora una volta convinto e se i punti esclamativi sono arrivati dai nomi più noti, le band più giovani e ancora poco conosciute hanno combattuto valorosamente. Non possiamo che lodare il clima fieramente ‘true’ vissuto all’Effenaar, che fa dell’Eindhoven Metal Meeting un evento rigorosamente per metallari duri e puri, difficilmente affrontabile da chi non sia devoto conoscitore di death e black metal nelle forme classiche e consolidate dagli anni ’80 ad oggi. La manifestazione è andata sold-out con un paio di settimane d’anticipo sulla data dell’evento, circostanza abituale per gli organizzatori, che da un anno con l’altro si dimostrano capaci di mantenere standard elevati e di non deludere il largo numero di fidelizzati avventori.
IXXI
Il festival inizia per noi al District 19, dove il benvenuto non può che darcelo una compagine fervidamente ‘true’ nel suo modo di rapportarsi al metal e all’audience. Gli Ixxi rappresentano un buono spaccato della classe media del black metal svedese; oltranzisti, violentissimi, blasfemi, dotati di spunti melodici di facile lettura. L’arredamento dello stage non fa sconti in vessilli satanici e ostentazioni di gretta malvagità, né ciò accade per l’aspetto dei musicisti, lordati di sangue per provocare ribrezzo e timore. A dire il vero, fra espressioni da cattivi molto accentuate, pose plastiche e una ricerca sistematica del contatto con il pubblico, gli Ixxi più che demoni degli Inferi giocano il ruolo di divertenti intrattenitori. La musica scorre abbastanza semplice e senza grandi colpi di genio, mettendo in fila brani ritmati e di impostazione datata, che prendono la loro carica sprezzante dai Marduk, un lieve aplomb melodico derivato dagli Watain e la lucidatura black-thrash ante-litteram direttamente dai Bathory. La prestazione, intensa e luciferina, è degna di rispetto e non produce palesi sensazioni di sfinimento, accolta con favore da una platea che più truce non potrebbe essere. Un discreto riscaldamento.
SLÆGT
Quanto accade per l’esibizione degli Slægt è uno dei motivi per cui ci si schioda da casa e si va fino nei Paesi Bassi per un festival musicale. Difficilmente alle nostre latitudini la loro presenza in concerto desterebbe fameliche attese, invece ad Eindhoven bisogna stare attenti a entrare in sala con un minimo di anticipo per non rimanere esclusi. La sala piccola dell’Effenaar si riempie infatti fin quasi alla sua massima capienza, costringendo a ristrettezze di spazi non così frequenti da queste parti. Il giovane quartetto danese è reduce dall’ottimamente accolto “The Wheel”, ma francamente non immaginavamo potessero catalizzare così tante attenzioni! Certamente questi ragazzi incontrano in pieno i favori dell’avventore medio dell’Eindhoven Metal Meeting: legati a concetti metal vecchio stampo, energici, sinistri ma dotati di un apparato melodico trascinante e direttamente debitore di Iron Maiden e Judas Priest. L’impatto è simile a quello dei Tribulation nel periodo immediatamente successivo a “The Formulas Of Death”, il riff death-black si trucca sapientemente di arie gotiche e slanci progressive, tenendo però in primissimo piano e come fiore all’occhiello un duellare di chitarra spiccatamente ottantiano. Il suono a dire il vero è un po’ grezzo e i volumi molto alti tendono a coprire alcune armonizzazioni, ciò nonostante la qualità delle canzoni non ne esce mortificata. Il dimenarsi autentico e febbrile dei ragazzi nordici contribuisce a eccitare un pubblico preparato e scattante, che accoglie con meritate ovazioni gli estratti dell’ultimo disco e di “Domus Mysterium”. Una prova di maturità superata con sicurezza dagli Slægt.
KETZER
Passati dal black-thrash dei primi due album a una specie di classic metal estremo con l’ultimo full-length “Starless”, i Ketzer dal vivo tradiscono in parte la recente svolta melodica, proponendosi come una via di mezzo fra quanto prodotto nei primi anni di carriera e ciò che hanno offerto in tempi recenti. Se è vero che traspare una forte indole rock nella costruzione dei riff e nelle ritmiche, dall’altro lato la foga strumentale, e il cantato in particolare, appartengono pienamente all’extreme metal. Vi è un certo tono marziale, spietato, quasi militaresco, a contraddistinguere i Ketzer nella loro formulazione live. Vedendo il gruppo all’opera, così iracondo e intransigente, ci accorgiamo che la fascinazione per il filone del thrash teutonico e le commistioni col black metal si saranno anche affievolite su disco, ma non sono scomparse dal DNA della band. La discografia dei Nostri non gode della presenza di grandiose hit e un pizzico di convenzionalità pare attanagliare il materiale offerto, nonostante la prova convincente di tutti gli elementi. Il District 19 non è esattamente stracolmo in questo frangente, vuoi anche per la concomitanza coi ben più noti Desaster, ma pur senza strafare il cantante Infernal Destroyer e i suoi compagni non demeritano, non interrompendo quel flusso di astiosa animosità che sarà il filo conduttore dell’intera due giorni.
WIEGEDOOD
Nonostante appartengano al collettivo Church of Ra, del quale fanno parte realtà dall’identità trasversale come AmenRa, Oathbreaker, Hessian, The Black Heart Rebellion, di frammenti visionari e di matrice post-metal nei Wiegedood vi è ben poco. Tutt’altro, il trio belga ci trascina brutalmente nelle atmosfere del più nefando black metal norvegese novantiano, impossessandosi della forza demoniaca che guidò al tempo i vari Immortal, Gorgoroth ed Emperor. Le gelide tempeste strumentali di un’opera cardine come “Battles In The North” riecheggiano con lievi aggiornamenti sonori nelle trame velocissime e particolareggiate dei Wiegedood, che ripudiano giri melodici ariosi e vistosi cambiamenti d’atmosfera, concentrandosi piuttosto sul sorreggere un muro di suono tra i più assordanti uditi ad Eindhoven quest’anno. Le poche situazioni di relativa calma hanno il solo compito di dare ancora più enfasi alle lunghe progressioni di chitarre e batteria; non si tratta di meri sfoggi di rabbia sconsiderata, le lievi variazioni nel guitarwork e gli arrangiamenti di batteria mettono in luce le qualità dei musicisti e donano spessore a canzoni tremende, tracimanti odio e nichilismo. Nessun intellettualismo, nessuna astrazione, bandita ogni sperimentazione, solo true norwegian black metal, delocalizzato nel Benelux. Di una concretezza e un’efficacia spaventose.
POSSESSION
Il vistoso face-painting, l’abbigliamento da metallari vecchio stampo e la profusione di croci rovesciate e stendardi col nome del gruppo donano un’atmosfera rassicurante al concerto dei Possession. Come già si nota durante il soundcheck, la band è carica e pronta a inscenare un atroce bagno di sangue. Il black metal in questo caso si fa volentieri malmenare da cospicue dosi di thrash primordiale e ostenta isterismi e bestialità che vanno facilmente a ricordare il war metal e in generale l’offerta di label come Nuclear War Now! e Iron Bonehead. Siamo al cospetto di un gruppo dall’attitudine franca e genuinamente pazzoide, capitanato da un cantante sopra le righe come V. Viriakh, che si profonde in una performance spiritata, a volte volutamente fuori controllo, sprezzante e dedita a urla semplicemente disumane. Vogliono il caos, si dedicano al caos come missione di vita i belgi, che si comportano sul palco più come un manipolo di thrasher di metà anni ’80 che come seriosi seguaci di Satana. Il clima impulsivo e dissacrante dell’esibizione si trasmette alle prime file e osserviamo nascere un mosh piuttosto raccolto, ma vigoroso e alimentato incessantemente da quanto vomitato dalle casse. La buona calibratura dei suoni e canzoni scritte con cognizione permettono all’esibizione di rimanere su standard piuttosto elevati, evitando punte di banalità e ignoranza che in tale ambito accade non di rado d’incontrare. Qua invece si fa sul serio e i Possession portano a casa solo consensi, dando continuità ai positivi riscontri suscitati dall’album “Exorkizein” e l’ep “1585-1646”.
URFAUST
Campioni del raccoglimento, maestri nell’indurre alla riflessione e all’introspezione, gli Urfaust radunano fedeli di lungo corso e nuovi adepti in un District 19 traboccante persone e incenso. Già i Possession avevano fatto fiammeggiare i candelabri e sparpagliare pungenti essenze, con il duo olandese la cosa non poteva che degenerare, vista l’attenzione che la band ripone affinché ogni componente sensoriale si accordi all’emotività della musica. Un suono metafisico, ripetitivo, tramite per stati mentali sconnessi dall’empirico, che da anni ha catturato l’attenzione di un’audience assai variegata. Il rapimento della maggior parte degli astanti è evidente, all’interno di un bill per larga parte propenso alle rudezze e al cieco odio gli Urfaust spiccano per i loro toni minimali, ancora più forti in concerto. Se nel disco i synth allargano lo spettro sonoro e arricchiscono le inconfondibili gesta delle chitarre, live l’assenza delle tastiere – nonostante siano visibili on-stage, non vengono per nulla utilizzate – riduce all’essenziale l’impasto doom, dark rock e ambient della formazione. IX prosciuga le riserve alcoliche dell’Effenaar, quasi che tutti quei liquidi gli servano da carburante per i suoi vocalizzi nasali, affrontati con grande trasporto. VRDRBR è preda della medesima estasi del sodale, sempre bravo a dare tiro e carattere a tempi semplici, giusto supporto per il tono cerimoniale, ridondante e catartico della setlist. Stranamente, non arriva nulla dall’eccellente ultimo full-length “The Constellatory Practice”, né dall’appena precedente “Empty Space Meditation”. Si va allora a scavare nel passato, con proposte che, lo percepiamo dai sussulti di chi abbiamo vicino, ben si aggradano alle preferenze dei presenti. Arriviamo in fondo palesando un poco di stanchezza, dato l’immobilismo impenetrabile del concerto, ma senza che ciò infici la qualità di una formazione unica anche dal vivo.
SEPTICFLESH
Un kolossal cinematografico in versione death metal sinfonico. Questo sono oggi i Septicflesh, sfavillanti e pieni di sé, consapevoli della propria forza e di poter disporre di chi hanno davanti a piacimento. Spiros Antoniou è un performer navigato, prima ancora che un musicista di spessore, la sua personalità tracima quanto basta per essere il punto focale dell’intera esibizione, quasi nascondendo l’operato dei pur bravi compagni. Non si contano le arringhe profuse per aizzare il pubblico, quei ‘my friends..’ cui seguono brevi frasi a presentazione dei singoli brani, che spingono a scatenarsi su note epiche, altisonanti, sempre brutali. L’attenta calibratura delle parti sinfoniche registrate non toglie pathos alla particolare miscellanea di death metal cromato e musica classica, che nel caso del quartetto ateniese va bene in profondità nel caratterizzare i pezzi e non serve semplicemente quale ingrediente di contorno. Come puntualmente accade dalla reunion del 2007, la setlist rimane incentrata sulle pubblicazioni dell’ultimo decennio abbondante, dove ovviamente fanno sfoggio di sé gli estratti dell’ultimo “Codex Omega” (“Martyr”, “Enemy Of Truth”, “Portrait Of A Headless Man”) e si integrano ottimamente anche composizioni molto catchy di “Titan”, come “Prometheus” e “Prototype”. L’alternanza di mastodontiche scariche di blastbeat, attimi di sospensione, concitate invocazioni e melodie orientali sembra costruita apposta per far detonare gli istinti dei presenti, ancora carichi dopo una giornata altamente coinvolgente. I Septicflesh hanno gioco facile nel dare le ultime stoccate – mortali – della serata.
ATTIC
Saranno anche dei cloni dei Mercyful Fate, o una loro furba semplificazione, se vogliamo dare retta ai detrattori, fatto sta che gli Attic dal vivo difficilmente deludono. La band tedesca è di quelle assai vistose, maxi-crocefissi a testa in giù e immagini ecclesiastiche declinate in senso peccaminoso sono elementi fondamentali dello stage, nulla del tipico immaginario anticlericale va perduto quando Meister Cagliostro e compari vanno in scena. Il singer è per forza di cose l’ago della bilancia, il suo falsetto tagliente è il traino per ogni altra componente di suono, una rivisitazione esasperata e virata allo speed metal di NWOBHM, delle diverse incarnazioni del Re Diamante e di formule care all’underground teutonico degli anni ’80. Mentre il cantante spadroneggia con note altissime e tenute senza intoppi, il gioco di chitarre e la foga esecutiva danno risalto a pezzi di ottima fattura, tra i migliori partoriti in campo classic metal negli anni ’10. Non è un caso che in sala l’atmosfera sia elettrica e in molti conoscano bene quanto suonato, come non sorprende che abbiano uguale attenzione anche quelle rare circostanze in cui il gruppo rallenta e si dedica a concentrate odi demoniache. L’orrore cala definitivamente su di noi con “The Headless Horseman”, il simbolo di quanto prodotto dagli Attic finora, il modo ideale per chiudere un set riuscito in ogni suo aspetto.
HARAKIRI FOR THE SKY
Divenuti una presenza costante nel circuito live europeo, gli Harakiri For The Sky hanno ridotto un tour alla volta il divario fra l’eccellenza delle prove in studio e concerti sì di buon livello, ma mai aderenti in pieno alla ricchezza sensoriale ed esecutiva dei dischi. Un inseguimento portato a termine proprio in questa apparizione ad Eindhoven, a due anni dalla comunque valida esibizione sul District 19. Questa volta gli austriaci vanno in scena nella sala grande e la scelta si rivela azzeccata sia per l’accoglienza riservata loro – la fanbase attuale non è di poco conto nell’Europa centrosettentrionale – che per la prestazione in sé del quintetto. L’intensità sprigionata, l’immedesimazione con i tristi, disperati tratti delle lyrics, l’immersione in un contesto sonoro graffiato di rabbia, sconforto, ansiti di riscatto e abbandono, esprimono come meglio non si potrebbe l’identità tormentata della formazione. Le versioni di “Funeral Dreams”, “Calling The Rain”, “Jhator” presentate in Olanda non perdono nulla in termini di bellezza e autenticità se confrontate con le loro incarnazioni originarie e guadagnano percettibilmente in istintività e rabbia, così da tenere alta l’attenzione anche nelle sezioni, e non sono poche, in cui la narrazione della band si fa accidentata e ostica da seguire. Ci pare che la risposta generale superi quella altre volte ottenuta dai ragazzi, omaggiati da scrosci d’applausi conclusivi non così inferiori da quelli che otterranno formazioni ben più blasonate nelle ore seguenti.
VALKYRJA
Le fucine dell’Inferno proseguono a sfornare manufatti bollenti e pericolosi: è allora il turno dei Valkyrja, compagine che prova a uscire dalla scia di chi li ha instradati verso il death-black di appartenenza, per mettersi in (tetra) luce grazie a uno stile subito riconoscibile. L’ultimo “Throne Ablaze” ricontestualizza leggermente l’operato dei dischi precedenti, consentendo un respiro melodico prima impensabile. Per i quattro, però, l’impatto sanguinario e senza compromessi, seppure velato di un alone di pazzo misticismo, rimane fondamentale, come lo è per i loro padrini Watain, cui l’operato dei Valkyrja si riallaccia senza timori di smentite. L’urgenza di sfoderare l’intero arsenale di malignità conduce a un modus operandi che ricaccia indietro, in parte, la maggiore ariosità dell’ultimo album, a favore di un’irruenza primordiale che ha più assonanze con il primo black-thrash che non con i moderni addolcimenti del black metal. La spinta ritmica molto pronunciata e focalizzata su tempi assimilabili a quelli di un classic metal velocizzato ed estremizzato, contribuisce a questa sensazione di assistere a un concerto piacevolmente ‘vecchia scuola’. Hanno il loro peso anche i volumi spinti al massimo, che soffocano alcune interessanti invenzioni melodiche, comunque importanti e interpretate discretamente, nonostante la foga tolga precisione. Nel complesso i Valkyrja funzionano e si fa apprezzare anche la prova al microfono di Simon Wizén, da poco subentrato nel ruolo al defezionario RSDX. Promossi.
ARCHGOAT
Si va al raccolto per gli Archgoat. Gli anni di militanza nella scena estrema e una serie di dischi sempre più ispirati ha sospinto il trio finnico a un rango impensabile fino a pochi anni fa. L’impasto di ferale death metal e black metal spregevole, ossessivamente satanico, che propongono costituisce un simbolo di estremismo concettuale, ancora prima che sonoro, assai gradito per il metaller vecchia maniera. Ecco allora che il nuovo pienone al District 19 non ci stupisce affatto, né ci coglie in castagna il respirare un’attesa sacrale, come se dovesse manifestarsi qualcosa di ultraterreno sul palco. Gli Archgoat danno molto meno spettacolo di altri colleghi più giovani ammirati nella due giorni, musicisti che magari si settano su coordinate sonore simili, ma affrontano il palco con addosso un’adrenalina che gli autori del recente “The Luciferian Crown” sostituiscono con un cipiglio severo, un’aria di disprezzo per ciò che li circonda che appare genuina e non frutto di una posa studiata. Il gruppo ha una sua idea dell’extreme metal basilare, incentrata su sonorità cavernose e piuttosto semplici, che stritolano per mezzo di riff semplici e cruenti, da una parte protesi verso il primo death metal statunitense, dall’altro lato affogati nel nero marciume del black metal nordico. Un vago alone spirituale dà qualche speziatura diversa qua e là, all’interno di un set che non spicca esattamente per varietà, sia per una certa ciclicità nel riproporre alcuni topos chitarristici, sia per la struttura ritmica abbastanza rigida. Nulla che non funzioni, tutt’altro, pesa forse il contrasto con altre esibizioni più trascinanti nel nostro giudizio, mentre gli Archgoat si impegnano in uno show che indulge sovente su tempi medi minimali e non per forza immediati. Per cultori di un approccio misantropo e respingente al metal estremo, una manna dal cielo.
TRIPTYKON
A quattro anni dalla precedente apparizione su questi palchi, Tom Gabriel Fisher torna a farvi visita, per un concerto che, per la sua natura, rappresenta l’evento più succulento di questa edizione. Come avvenuto del resto in qualche altra data dei Triptykon tenuta nel 2018, la scaletta è interamente dedicata al materiale dei Celtic Frost. L’enorme fondale dedicato alla copertina di “To Mega Therion” e gli altri due stendardi più piccoli posti ai lati mettono un filo di soggezione, alla pari del concreto carisma del frontman, artista che non ha finora denotato alcun segnale di reale invecchiamento. Parlare di ‘culto’ per una rappresentazione di questo tipo, che riabbraccia materiale di inestimabile valore, suonato da una formazione in forma spaventosa, è riduttivo; il solo martellare di “Procreation (Of The Wicked)”, la densità fluttuante delle chitarre e la spinta secca e definitiva di basso e batteria farebbero pensare che nell’extreme metal ci si potrebbe fermare qua, che tutta questa magnificenza sarebbe sufficiente, e non servisse altro per capire cosa sia il Male puro e quanto grandiosa possa essere la sua forza. La voce del leader sta benissimo, anche il suo umore generale sembra perfetto, viste le interazioni simpatiche e leggere che si concede tra un brano e l’altro. Il clima in sala è quello che si avrebbe a una funzione religiosa di qualche santone da chiesa americana; ogni passaggio, ogni strofa, sono accolte come se fossero scandite in quegli istanti le Tavole della Legge. Le accelerate thrash di “Circle Of The Tyrants”, il delirio mistico di “Necromantical Screams”, il clima perverso, da dannazione eterna, di “Synagoga Satanae”, sono tutt’oggi fra le cose più inquietanti, immaginifiche e geniali che il metal tutto possa regalare. Non una singola sbavatura, non un pezzo solo ‘normale’, solo classe immensa: ci si può solo prostrare di fronte a cotanto nero splendore.
MARDUK
A dispetto di un inflazionamento concertistico senza eguali nel panorama black metal – solo per l’Europa, segnaliamo un primo giro di concerti primaverile, carrellata di festival estivi, nuova corposa tournee invernale – scantonare bellamente i Marduk è un’ipotesi che non sfiora minimamente un appassionato del genere. Per quanto le fondamenta dello spettacolo siano immutate negli anni e il lotto di canzoni suonate, tolti gli inserimenti dovuti a una nuova pubblicazione, non presentino stravolgimenti da un tour all’altro, è tale l’esuberanza satanica dei quattro che nessuno potrebbe dire di essersi ‘annoiato’ quando i blackster svedesi sono on-stage. Oppure che quello appena ammirato sia stato il ‘solito’ concerto dei Marduk. A meno che non si voglia esprimere, con tale termine, l’ammirazione per il livello qualitativo costantemente abnorme della prestazione. D’altronde basterebbe il vomitar di liriche di Mortuus e il modo in cui si pone, piegato sulle spie, grondante disprezzo, pieno di risentimento per il genere umano, per sentirsi vagamente sotto minaccia. La competizione velocistica cui si impegnano Morgan e Fredik Widisgs produce conseguenze irreparabili, sagre di olocausto bellico l’una più massacrante dell’altra: non si notano nemmeno i salti temporali fra una “Of Hell’s Fire” e la nuova “Equestrian Bloodlust”, ad esempio, un filamento rosso sangue unisce tutti i puntini di questa lunga epopea di orrori, perpetrata ormai da quasi tre decenni dai nostri moderni Gengis Khan della musica. Degli sterminatori, insomma, mai domi, né ammansiti. Incapaci di stare sotto l’eccellenza, come ribadito in terra olandese.
MORTUARY DRAPE
L’ultimo slot del festival ha un sapore speciale, esaltando quella vena da cultori che l’Eindhoven Metal Meeting si pregia di conservare gelosamente; i veri headliner hanno finito, il grosso degli spettatori sciama verso casa o gli alberghi, chi rimane, fiaccato dalla stanchezza e da qualche sentore di sazietà, lo fa per la bramosia di averne ancora un po’, di fare il pieno di musica prima dell’ineluttabile decompressione. I Mortuary Drape godono di una sala meno piena di quella che si sarebbe avuta in orari meno tardi, ma non si può dire che si trovino davanti una platea inerte; il brillante riffing thrash aizza un piccolo drappello di facinorosi, che vanno a seminare disordine in mezzo al pit, costringendo gli altri spettatori a starsene sui lati per non essere travolti. Musicalmente, tolto un piccolo intoppo a una delle due chitarre a inizio set, la band viaggia precisa e a mille all’ora come ci ha da tempo abituato. Una formazione consolidata, affiatata, che sfodera una delle coppie di chitarre meglio assortite del panorama extreme metal attuale. Ci piace sottolineare come sul piano solistico i paragoni con gli eroi del metal ottantiano non siano affatto sprecati e che le suggestioni evocate in questi frangenti siano perle rare, momenti di alta scuola strumentale svettanti nelle barbarie. Gli umori sepolcrali e i sentori occulti ci sono scaraventati addosso con forza e destrezza, la voce di Wildness Perversion ci affoga negli incubi e ci tormenta, mentre streghe ci danzano attorno beffarde e i negromanti portano avanti i loro immondi rituali. Non c’è una virgola fuori posto per la compagine piemontese, cui all’estero vengono giustamente tributati onori che in patria, purtroppo, non sempre gli arridono. La festa è finita, il suo ricordo ci accompagnerà piacevolmente a lungo…