12/12/2019 - EINDHOVEN METAL MEETING 2019 @ Effenaar - Eindhoven (Olanda)

Pubblicato il 07/01/2020 da

Report a cura di Giovanni Mascherpa

Dicembre, il Natale si avvicina e urge mitigare il carico di svenevolezze ormai alle porte con qualcosa che porti in dote malanimo, abbruttimento e afrori di morte. Incarico demandato alla line-up dell’Eindhoven Metal Meeting, giunto all’undicesima edizione di una storia sempre più di successo. È un altro sold-out, quello raggiunto dagli organizzatori, a dispetto di un bill che non prevede nomi enormi e da soli in grado di catalizzare vaste platee. Obiettivo che non è del resto nei radar di chi mette in piedi una simile manifestazione, votata a una celebrazione del metal estremo nella sua accezione tradizionale e poco mansueta. Piedi ben fissi nei generi germogliati negli anni ’90, sguardo avanti per adescare i migliori talenti emersi nei 2000, attenzione a creare un cartellone sanguinario ma il più vario possibile, qualche ventata di atmosfera per darsi un tono, e voilà, il gioco è fatto!
L’accogliente città olandese, gradevolissima e prodiga di intrattenimenti extramusicali (ogni anno che passa si scopre qualcosa di nuovo), ci saluta con un clima più che accettabile, considerato periodo e latitudine, e si mostra popolata di metallari provenienti da tutta Europa già il giovedì, per un warm-up da far tremare i polsi. Quanto all’organizzazione e all’atmosfera del festival, non possiamo che ribadire quanto già scritto in passato: eccellenti le condizioni sonore, servizi igienici più che accettabili, capienza adeguata al numero dei presenti, assenza di code nei punti di ristoro, un pubblico devoto e appassionato e la generale impressione che, almeno in questo contesto, il tempo si sia fermato. All’Eindhoven Metal Meeting derive ammiccanti e addolcimenti moderni paiono non essere mai giunti a contaminare il mondo metal, lo scenario è caro a un’interpretazione dura, assassina, eccessiva del genere. Rispetto alla quale sembra cosa logica dover camminare fra pozzanghere di birra appiccicaticcia, crocchiare di bicchieri gettati in ogni dove e farsi strada fra corpi enormi, evidentemente plasmati da colossali bevute. Ma bando alle ciance e veniamo a quel che più conta, la musica…

 


WARM-UP PARTY (12/12/2019)

Organizzato dalla medesima agenzia – la District 19 – che cura l’Eindhoven Metal Meeting, il tour che vede protagonisti DHG (meglio conosciuti come Dodheimsgard), Bolzer, Blaze Of Perdition e Matterhorn fa tappa nei Paesi Bassi per far compiere un balzo qualitativo alla serata di prologo della manifestazione. L’aria è stata annusata dagli extreme metaller europei con lo stesso fiuto dei migliori cani da tartufo e l’affluenza nella sala piccola dell’Effenaar è notevole già a inizio serata. Alle 19.30, l’avvio delle operazioni è delegato ai giovani svizzeri MATTERHORN, una di quelle compagini a cui non si può far altro che voler bene.  Ruvidezza, sintesi, foga caotica sono le doti principi di questi quasi ancor fanciulli musicisti, che a dispetto di una discografia ridotta all’osso (l’esordio su lunga distanza, “Crass Cleansing”, è del 2018) sanno farsi valere sul palco come act più affermati. I riferimenti sono lampanti, primi Celtic Frost e primissimi Sodom e Destruction, nomi verso i quali l’amore e l’aderenza di suoni e strutture è palpabile. Il black/thrash dei tre ha dalla sua uno spiccato dinamismo, un falcidiare note che non si ferma ad assalti uniformi e intercambiabili ma prevede anche galoppate scriteriate e cambi di tempo convulsi ben congegnati. Apprezziamo, perché se il materiale è derivativo e ancora lontano dall’essere memorabile – seppure abbia i suoi bravi attributi – la resa è convincente e non ci si annoia mai. All’apparire dei BLAZE OF PERDITION l’aria si inspessisce, un cipiglio severo avvolge i musicisti, portacolori di un black metal definibile per sommi capi come, semplicemente, ‘polacco’. Perché se gli Mgla sono la realtà più nota in questo filone di black metal tradizionale, stratificato e drammatico, disseminato di quegli strascichi struggenti che strappano l’anima, gli autori di “Conscious Darkness” non sono da meno. Musica che mette i brividi, perché si estende in ventate gelide che accumulano tensioni e le fanno scivolare addosso in folate irregolari, pervase da un sottile misticismo e un algido, sommesso spirito avantgarde. Si spingono lontano e fuori dal tempo, le canzoni dei Blaze Of Perdition, le tre chitarre disegnano traiettorie fra il famigliare e il sinistramente inconsueto, straziate da voci che alternano un cantato black metal tremendamente espressivo a isolate incursioni in un pulito monastico. Un’esibizione dove si resta in concentrato ascolto e non si staccano un attimo gli occhi da chi suona, per carpirne appieno la minimale gestualità. Prestazione da band di rango.
Da poco fuori con una nuova succosa pubblicazione, l’EP “Lese Majesty”, i BOLZER compiacciono l’ormai folto uditorio con la loro carica immaginifica e la sensibilità imperscrutabile dei visionari. Nonostante suonino spessissimo in giro e chi mastichi il death-black più esotico sappia bene a cosa si vada incontro, non vi è mai una sensazione di abitudinarietà a palesarsi. Le cadenze tra il marziale e l’astrale di HzR mettono le fondamenta per le elusive e massacranti ventate di concettuale estremismo della chitarra del frontman, giganteggiante sia nel suonare il suo particolare strumento, che nel padroneggiare i vocalizzi. Dal vivo una “Spiritual Athleticism” prende una piega colossale che su disco raggiunge solo in parte, il suono è enorme e abbagliante, come i fulmini ricorrenti nell’estetica del gruppo. Il materiale di “Lese Majesty” guadagna in brutalità ed eccentricità in sede live, due caratteristiche che vanno in coppia coi Bolzer e garantiscono il successo anche del concerto di Eindhoven.
Cosa aspettarsi esattamente dai DHG, band che ha frequentato di tutto nella sua carriera e da un disco all’altro, oltre alla line-up, ha stravolto le sue coordinate stilistiche? Molto prosaicamente, quello stesso ‘di tutto’ e anche di più! Vicotnik è tornato prepotentemente sul ponte di comando, nella doppia veste di chitarrista e frontman, e non può che essere la sua pittoresca figura a catalizzare le attenzioni. Il polistrumentista nordico, di recente in pista con l’acclamato ritorno live dei Ved Buens Ende, si presenta acconciato come un santone indù, volto dipinto di bianco e un fazzoletto sgargiante avvolto al microfono. I DHG partono dal loro materiale più ostico e progressivo, quello di “A Umbra Omega”, deviato verso una folle eppur calma astrazione. Materiale nient’affatto trascinante, ma che in molti desiderano, perchè è lampante che il grosso dei convenuti sia qua proprio per Vicotnik e compari. La band suona poco live, cosa di cui nessuno si accorge all’Effenaar: la prestazione strumentale è all’altezza dei migliori act prog allenati da lunghi tour e non teme debolezze quando dai contorsionismi colti si passa alle vampate puramente black metal. Nel ritorno al materiale di “Kronet til konge” e “Monumental Possession”, alti sono i peana che si levano, ricambiati da un’esecuzione schizofrenica e implacabile, comandata dal sogghignare esperto di un Vicotnik al massimo della forma. Concerto possente nei contenuti e pure nella durata, che sfiora l’ora e mezza. Che primizia!

PRIMO GIORNO (13/12/2019)

Il primo vero giorno di festival nella sala principale si apre coi THE COMMITTEE. Visti live per la prima volta proprio all’edizione 2014 dell’Eindhoven Metal Meeting, ne apprezziamo crescita e consolidamento avvenuti in seguito, attraverso l’ottimo “Memorandum Occultus”. È un cannoneggiamento amarissimo e privo di consolazioni quello cui i quattro ci sottopongono. Canzoni che fanno tremare le certezze e sgretolano le difese dell’anima, fomentate da un chitarrismo di lunghe armonie, spinto con decisione sui registri di epiche cavalcate verso la tragedia. Incarnata da disastri sociali ed economici, come suggerirebbero i concitati filmati sullo sfondo, che mettono insieme teorie complottiste e un’analisi sferzante delle attuali derive del mondo occidentale, soprattutto in materia economica. Aspetto, questo, che se magari può essere eliso nell’ascolto su disco, dal vivo non si può tralasciare, perché bastano rapidi sguardi a tali immagini, associate al mulinare avvolgente della musica, per percepire su di sé una palpabile preoccupazione. I ritmi abbastanza atipici del basso, molto in prima linea, e l’effetto ‘a tenaglia’ del cantato a più voci aggravano il bilancio delle vittime: non ci si sente a proprio agio coi The Committee, e mai loro vorrebbero che lo foste…

Da un’interpretazione del black metal come veicolo per messaggi gravi e importanti ad una sua visione come arma di distruzione di massa e razzia, il passo è più breve di quel che si creda e gli TSJUDER ci tengono a dimostrarlo. Blasfemia di grana grossa, lerciume e irrefrenabile desiderio di scatenare l’osceno in musica sono quanto lo storico trio di Oslo sa mettere in campo. Black metal di novantiana memoria e thrash zozzone inondano la venue, impersonati da musicisti che godono a dismisura nell’interpretare visivamente quanto ci sia di disgustoso nella loro musica. Nag e Draugluin si scambiano spesso di posto sul palco, correndo da una parte all’altra inviperiti e pieni di rancore verso il prossimo. Gli Tsjuder si prendono tutta l’ora dello slot per andare avanti e indietro nella discografia, per la somma gioia di una platea caldissima, focosa amante di tutto ciò che fa metal ignorante e gratuitamente brutale. Superbo per gli amanti del genere, dura arrivare in fondo per chi abbia qualche remora verso un black metal così grezzo: ma crediamo che pure costoro abbiano apprezzato tale lezione di storia.

Di ben altro tenore, lo yang dell’efferato yin udito poco prima, è l’apparizione degli ALCEST. A dispetto della lontananza dal canovaccio di riferimento della manifestazione e dal forte ammorbidimento subito dalla formazione da esordi già di per sé non particolarmente assassini, l’attesa è palpabile e il numero di unità in sala ragguardevole. I transalpini ci onorano di una serata di grazia, dove gli riesce ogni cosa alla perfezione e mandano su orbite di candore difficili da raggiungere durante un concerto metal. Il suono è pieno e potente, le melodie aggraziate e flebili, ma approcciate con piglio veemente e la sicurezza di chi vive in prima persona gli emozionanti saliscendi dei brani. Anche se non fanno nulla per irretire chi hanno davanti, i musicisti rapiscono con la sola forza della dolcezza e dell’incanto, quello tramandato dalle escursioni fra lo shoegaze e il post-rock di un metal pur roboante e magnetico, nonostante non porti addosso alcun segno di estremismo e pericolosità. Gli impeccabili intrecci vocali disarmano anche il più arcigno dei cuori, trasformando per diversi minuti l’area di guerra dell’Effenaar in un tappeto di rose. Favolistici. Cruenti, invece, ed è il minimo per definirli, sono i BLOODBATH. Un fiero omaggio all’epopea dello swedish death, riecheggiante in un effetto-motosega delle chitarre che ai fan più accaniti del genere deve aver provocato inenarrabile commozione. Lo sferzante humour inglese di Nick Holmes è ideale compendio di un’ora vissuta nella più fetida ignoranza, sgravata di virtuosismi e resa una macelleria insana a prescindere da quanto suonato. Il singer dei Paradise Lost se la cava egregiamente al microfono: per quanto il suo cantato estremo non sia dei più profondi e brutali in circolazione, sa essere sufficientemente mortifero e spregevole da accontentare sia i suoi sostenitori incondizionati che i palati più diffidenti. “Breeding Death”, “Cancer Of The Soul”, “Wretched Human Mirror” sono alcune delle pillole insaguinate porte al comprensivo uditorio, graditamente mutilato da una formazione che in questa sede non sbaglia una mossa. Altrettanto prevedibili e, proprio per questo, accolti da tripudi, sono i SODOM di Sua Maestà proletaria Tom Angelripper. Anche se il ‘ragazzo’ non si fa pregare per sfornare nuovi album, il navigato musicista tedesco sa bene che il suo pubblico è assai tradizionale e allora non sorprende che tutto l’allestimento del palco omaggi “Agent Orange”, l’album più celebrato della leggenda thrash teutonica. I raggi laser emanati dai due ‘agenti arancio’ troneggianti a centro palco ci puntano come fossimo dei bersagli di guerra, eventualità prontamente verificatasi sotto i colpi delle solite note, “Sodomy And Lust”, “Agent Orange”, “Nuclear Winter”. Onestamente non sappiamo rintracciare grandi differenze nell’ascoltare il gruppo con questa formazione o con quella, iconica, di power trio. Angelripper e compagni appaiono compatti e cattivi al punto giusto, la voce del frontman corrosiva come si conviene, la scenografia da headliner dona una nient’affatto sobria atmosfera bellica: ogni cosa al suo posto, una confortante ricorrenza, non sbiadita nemmeno dal piccolo taglio in scaletta per un leggero ritardo accumulato in avvio.

Abbandoniamo le facezie thrash per essere messi all’angolo e catechizzati dai neri monumenti sonori dei THE RUINS OF BEVERAST. Band che non fa della facilità di ascolto la sua principale virtù e necessita di una certa pazienza per essere apprezzata. Su album come dal vivo, dove il progetto di Alexander von Meilewand non perde in fascino e profondità, grazie a una line-up di lignaggio, composta di musicisti appartenenti ad altrettanto nobili casate dell’extreme metal teutonico (G.ST degli Essenz al basso e Arioch dei Secrets Of The Moon alla chitarra, per dire). Lo speciale agglomerato di death, black, doom e limacciose formule cerimoniali risuona fragoroso, camaleontico, pur se attentamente delimitato all’interno dei generi classici. I ritmi sghembi, le mortifere melodie orientaleggianti, la presenza di alcuni groove sotterranei danno al set due conformazioni, ambivalenti e altrettanto importanti: la prima, quella di una sommersione da parte di una sostanza densissima e velenosa; la seconda, dell’esecuzione di trame strumentali ingegnose e rare, che all’interno di un suono così fosco e dannato si fanno particolarmente impressionanti. Zero intrattenimento, nessun dialogo, solo plumbea e rabbiosa maestosità. Efficaci ed elitari.

SECONDO GIORNO (14/12/2019)

Quanto buio. Quanto si sprofonda in un’assenza di contorni e forme che non conosce luce da millenni. Questi e altri pensieri vengono in mente durante lo show degli SPECTRAL VOICE, gruppo gemello degli attualmente superacclamati Blood Incantation. Il gemello lento, riflessivo e musone, ci verrebbe da dire. Quello altrettanto talentuoso, del resto. Il death-doom del gruppo, partendo dalle indicazioni di massima di Incantation e Disembowelment, sa esprimere fragranze tutte sue, fluttuando spesso in luttuose ambientazioni funeral di splendida eleganza e, per il genere, armoniosa orecchiabilità. Nonostante il passo immoto predominante, cui le brucianti aperture death fanno da contraltare in un gioco di calibrazioni di impeccabile potenza e ardore, vi è una linea guida tangibile a sostenere il filo della narrazione. Alla quale assomma straniamento il cantato in arrivo da dietro la batteria, mentre i due chitarristi e il bassista si limitano ad officiare il rito massacrandosi di headbanging.
Di ben altri contenuti, assai più movimentati e rivolti all’attacco, sono gli HOUR OF PENANCE, che al District 19 mettono in scena con classe ed esperienza una lectio magistralis di US death metal. La band romana sa districarsi fra grovigli di riff e assoli per offrire a chi ascolta canzoni subito comprensibili, che scatenino entusiasmi anche per chi sappia poco dell’operato del gruppo. La parte del leone se la spartiscono le due chitarre, è una gara di profilo vertiginoso quella che vede concorrere ritmiche indomabili e luciferine contro assoli fiammanti, di solida personalità e coerenti rispetto alle mitragliate sparate dal resto della band. Le varie sfumature del death metal toccate dagli Hour Of Penance nella loro lunga storia (il recente “Misotheism” è l’ottavo album in bacheca) sono ricondotte al comune denominatore di tecnica, ferocia e animosità, un trittico di qualità che fa emergere il quartetto su formazioni altrettanto dotate strumentalmente, ma avare sotto il profilo emozionale.
Il concerto che non ti aspetti lo tirano fuori gli OFFICIUM TRISTE. A vederli durante il soundcheck paiono una combriccola di attempati ragazzi che si ritrovano al pub per far divertire gli amici di una vita. In sala poca gente, nessun vuoto spaventoso ma, insomma, quasi non sembra di essere all’Eindhoven Metal Meeting. Invece il combo death-doom di Rotterdam, da poco fuori con il sesto disco “The Death Of Gaia” dopo sei anni di silenzio, ci regala un set da ricordare. Tra i primi discepoli della triade gotica inglese My Dying Bride-Anathema-Paradise Lost, gli Officium Triste hanno mantenuto l’aderenza ai canoni storici del genere, tipica degli uomini di Aaron Stainthorpe. Pezzi che alla morbosità preferiscono un tocco melodico lieve, un’attenta selezione di soliste avvolgenti e poetiche, malinconia suadente ma colma di energia vitale. Non frequentano i palchi spesso, però coesione e affiatamento sono quelli di chi suona assieme da una vita e si gode ogni concerto come un’esperienza rara e gratificante. Con quell’aria da gioviale zio un po’ matto che ha addosso, il singer vincerebbe il premio simpatia della manifestazione a mani basse e ovviamente guadagna altri consensi con la sua prova vocale, per nulla scalfita dalle primavere non più verdissime. “Like A Flower In The Desert” la nostra prediletta di un concerto che porteremo nel cuore.
Siamo decisamente più abituati ai PARADISE LOST, dei quali conosciamo a menadito vizi e virtù in concerto. I vizi stanno in un impeto ben inferiore a quello delle prove in studio e in una ricchezza di suono, anche in questo caso, inferiore agli album, circostanza che rende soprattutto il materiale più estremo e complesso un’edizione in tono minore delle sue versioni originali. Ci sarebbe poi la voce di Holmes, limitata negli ultimi anni come range espressivo, anche se il buon Nick sa difendersi con onore e, quando non deve sforzarsi a raggiungere note ora per lui inarrivabili, ancora dotato di un notevole potere emozionale. Le virtù, be’, quelle stanno nel repertorio di assoluta eccellenza e stilisticamente vasto che il gruppo ha messo in carniere dagli esordi ad oggi. Ed è ciò che chiaramente mette tutti d’accordo: se il trittico di apertura “Enchantment” / “From The Gallows” / “Hallowed Land” arranca lievemente, a partire da “Isolate” e il suo groove danzabile il ghiaccio è rotto e la band ingrana le marce alte. Si va in crescendo, complice anche un aumento dei volumi e una migliore regolazione di suoni abbastanza piatti in partenza. “Embers Fire”, “The Enemy” e “Blood And Chaos” sono allora affrontate con il giusto piglio e le reazioni in sala vanno di conseguenza. “Say Just Words” rompe il climax forse troppo presto, quando la band è in palla e sarebbe capace di andare avanti ancora a lungo, ma d’altronde il tempo è tiranno ed è tempo dei saluti. Buon concerto, non un highlight del festival.
Mentre è altisonante quello dei TAAKE, che si presentano sulle ali di una lunga cavalcata strumentale, una specie di infernale jam-session black metal con Hoest a imbracciare il basso e a caricarsi di blasfemia per le urla indemoniate di lì a poco a venire. Se il black metal dev’essere veicolo di istinti arcani, rabbia primigenia e blasfemia incontrollabile, possiamo affermare che i Taake siano la perfetta espressione di quanto appena scritto. Hoest è performer incontenibile e agitatore di folle di enorme potere attrattivo, capace di mettere assieme pose da scenografico assassino seriale e vocalizzi laceranti in una straziante danza di morte. Non di solo one-man-show stiamo parlando, perché i musicisti assoldati per i live interpretano bene canzoni che nell’intrinseca ruvidezza fanno respirare armonie scarne, dal sapore antico, si dilungano volentieri in frementi arpeggiati, svoltano indomabili da sfuriate inebrianti a midtempo impregnati di sangue e malattia. Tra l’altro lo show è dedicato quasi interamente al seminale “Nattestid Ser Porten Vid”, suonato per intero ma in disordine rispetto alla tracklist originaria, fattore che ovviamente ridesta impeti tumultuosi nei numerosi blackster in sala. Ma crediamo che, qualsiasi fosse la setlist prescelta, con questa spiritata voglia i Taake avrebbero ottenuto i medesimi risultati. Una strage di massa, ecco, una degna conclusione di un’altra memorabile edizione dell’Eindhoven Metal Meeting.

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