È una serata primaverile quella che accoglie persone accorse da tutta Italia per l’unica data di un tour giustamente imperdibile; ma, a dispetto dei diciannove gradi segnati dal termometro, quella che si profila al Legend Club di Milano è un’atmosfera glaciale, portata dal nord dagli Enslaved, i quali finalmente arrivano in Italia a supporto dell’ultimo “Heimdal”.
Il disco, uscito a inizio 2023, ha riconfermato ampiamente il loro status di band non solo in grado di reinterpretare la tradizione, ma anche di trasformarla in qualcosa di completamente nuovo. Non è un caso che il concerto viaggi verso il sold-out, anche perché ad accompagnare i norvegesi in questo viaggio europeo ci sono due realtà ormai consolidate rispettivamente della scena post- e black internazionale: gli Svalbard, anche loro alle prese con la promozione dell’ultimo “The Weight Of The Mask”, e i Wayfarer, che finalmente portano nel vecchio continente le note da pianoforte scordato dei saloon di “American Gothic”.
Una serata davvero interessante, nel segno della sperimentazione musicale e di quei confini senza limiti che la rielaborazione degli stilemi del black metal inevitabilmente porta con sè: impossibile, per noi di Metalitalia.com, non presenziare a un evento di tale spessore.
Puntuali come un orologio svizzero, alle sette e mezza salgono sul palco i WAYFARER, la formazione statunitense che ha fatto molto parlare di sé a partire dal cambio stilistico di “World’s Blood” e affermatosi appieno con l’ultimo “American Gothic”.
Essendo i primi a suonare la scaletta è purtroppo abbastanza breve, ma non per questo meno sentita dal pubblico del Legend che inizia già a traboccare di persone: le danze si aprono con la decadente “The Thousand Tombs of Western Promise”, dove gli echi cascadiani dei primi album della band si fondono abilmente con la narrazione in bilico fra gotico e country dell’ultima prova in studio.
Il quartetto di Denver si muove con grande facilità sul palco, mentre Shane McCarthy e Jamie Hensen ci raccontano della crudeltà del vecchio West con “Reaper On The Oilfields”, dimostrandoci che tutti questi anni a calcare palchi hanno giovato molto a una formazione che si muove principalmente in studio per quanto riguarda la composizione, mentre preferisce coinvolgere diversi sessionist in sede live (almeno per la batteria).
La fortuna, per chi è riuscito ad arrivare in tempo questa sera, è che rispetto ad altre serate del tour i nostri riescono a suonare anche “Animal Crown” da “World’s Blood”, prima di chiudere con “False Constellation”, critica spietata verso la mitizzazione del West portata avanti dalla narrazione statunitense.
Un concerto davvero sentito e condotto abilmente dalla band che, seppure in soli trenta minuti, è riuscita a tenerci sospesi in un incubo fatto di polvere, petrolio e ambizione smisurata.
Mezz’oretta per allestire il palco e viene il turno dei britannici SVALBARD, formazione che ha ricevuto molti elogi per la loro capacità di rielaborare il post-hardcore in chiave quasi pop-core: l’apertura è affidata a “Disparity”, direttamente dal bellissimo debut “One Day All This Will End”, risalente ormai a nove anni fa, che mette subito in chiaro come la musica dei nostri si basi su un contrasto tiratissimo tra hardcore, metal e sintetizzatori, purtroppo non troppo pervenuti questa sera per un sound un po’ impastato.
Nonostante questa mancanza, Serena Cherry e soci riescono a portare uno spettacolo di tutto rispetto sul palco del Legend, anche quando si tratta di momenti particolarmente impegnativi come con la successiva “Open Wound”. Ovviamente, gran parte della setlist è in questo caso dedicata a “The Weight Of The Mask”, disco che ha consolidato le sonorità del quartetto britannico: “Faking It”, opener dell’album in questione, ci travolge con la sua drammatica urgenza di sparare rabbiosi riff e scream sul pubblico del Legend, ora davvero strapieno e vicino alla capienza massima.
Liam Phelan fa quello che qualunque bravo chitarrista del genere dovrebbe fare sul palco: agitarsi come un ossesso e supportare la Cherry nello scream, mentre Matt Francis sfoggia con orgoglio una maglietta con il simbolo di Judy, l’inquietante entità antagonista di “Twin Peaks”, a modo proprio particolarmente azzeccata per il contesto proposto.
Ed è ancora da “When I Die, Will I Get Better?” che viene recuperata “Click Bait”, con un ringraziamento in particolare da Serena Cherry che ci rivela non essere esattamente in forma: nonostante questo, gli Svalbard sono saliti lo stesso sul palco e hanno portato a casa uno show davvero sentito, affidando la chiusura a “Eternal Spirits”, dove la parte più metal emerge e prende per mano la furia dell’hardcore, costruendo un intricato arabesco di melodie.
Il Legend è chiaramente sold-out, quando sul palco salgono gli ENSLAVED: l’emozione del pubblico è palpabile ancora prima che le prime note di “Kingdom”, direttamente dall’ultimo “Heimdal”, ci investano con la loro gelida furia in bilico fra suggestioni progressive, elettronica e black metal.
La scaletta della serata verterà principalmente sulle ultime due prove in studio dei norvegesi: il secondo pezzo è “Homebound”, che rimarca ulteriormente la vena raggiunta dai nuovi Enslaved, con la nuova linfa vitale portata in studio da Håkon Vinje e Iver Sandøy, rispettivamente al sintetizzatore e alla batteria, ormai membri effettivi del progetto.
Fra un pezzo e l’altro c’è anche modo di scherzare nel puro stile della band, che riesce comunque a fare spirito e qualche siparietto nonostante l’elaborata complessità della loro musica – come quando Grutle racconta di aver sbagliato ad aver detto ‘Salute’ a Parigi prima di bere un sorso di birra, attirandosi le ire dei metallari francesi accorsi alla data del tour.
Qualunque sorriso viene però spazzato via dalla resa live, davvero riuscita, della bellissima “Congelia”: uno dei pezzi più sperimentali di “Heimdal” che dal vivo assume una connotazione quasi di improvvisazione, mentre il fiato del pubblico resta sospeso abbandonandosi alle ritmiche ossessive e ai bellissimi stacchi di chitarra di Arve Isdal.
Durante il tour, i nostri stanno suonando un pezzo da “Frost” per data e quindi, dopo aver chiesto chi ci fosse al loro concerto del 1994 e ottenendo poche mani alzate (segno di progressivo ‘svecchiamento’ della platea?), ci viene regalata “Loke”, dove la furia primordiale del black metal rielaborato dai giovani Enslaved – e la risata malvagia del dio degli inganni nordico alla fine del pezzo – non stonano affatto anche con il percorso intrapreso dagli ultimi dischi dopo quel famoso “Below The Lights”.
Un altro siparietto per raccontarci come il prog rock italiano abbia influenzato Ivar e Grutle, quando la band ha intrapreso la svolta stilistica che tutti ben conosciamo, introduce infatti la micidiale doppietta “The Dead Stare” e “Havenless” proprio da quel capolavoro assoluto che fece capire come vent’anni fa il black stesse cambiando forma evolvendosi in qualcosa di diverso.
Prima degli encore c’è tempo per suonare “Heimdal”, traccia che dà il titolo all’ultimo lavoro in studio del quintetto, anche qui davvero monolitica in sede live, specialmente per lo stacco di rumore ed improvvisazione che ci riporta in una dimensione pagana e sovrannaturale della musica dei norvegesi, dove i cori di Grutle sembrano arrivare da un’altra dimensione fatta di freddo e gelo. La stanchezza dei presenti si fa sentire e andiamo verso la conclusione: dopo un brevissimo assolo di batteria non possono che arrivare l’immancabile “Isa”, vero e proprio cavallo di battaglia e pezzo fisso nella scaletta degli Enslaved, e il tuffo nel passato con “Allfǫðr Oðinn”, che ci riporta nell’epoca primordiale del black metal e congeda il numerosissimo pubblico accorso al locale meneghino.
A parte qualche intoppo sonoro di poco conto possiamo tranquillamente dire che il pubblico (più o meno) estremo c’è e risponde: non vedevamo un sold-out per una line-up simile da un bel pezzo, segnale che non solo gli effetti negativi del covid si sono completamente esauriti, ma che c’è anche un minimo ricambio che ha portato a incontrarsi in un terreno comune fan dell’hardcore e del black metal sperimentale, evidenza del fatto che allargare gli orizzonti fa bene ai concerti e al pubblico stesso.
Setlist Enslaved:
Kingdom
Homebound
Forest Dweller
Sequence
Congelia
Loke
The Dead Stare
Havenless
Heimdal
Isa
Allfǫðr Oðinn