Certi concerti sono proprio utili per fare il punto della situazione, e quello tenutosi al Factory di Verona l’ultimo giorno di maggio è proprio la situazione ideale per alcune riflessioni in proposito: gli Escape The Fate appartengono, a nostro parere, ad un limbo musicale in cui il vecchio e il nuovo si incontrano e si mescolano in una dimensione tutta particolare. Nell’ambiente dei generi che gravitano attorno al metal, il metalcore e il deathcore degli anni 2000 sono stati, per lungo tempo, considerati una sorta di ‘nuovo’ che avanzava a scapito del ‘vecchio’ metal più o meno estremo.
Il concetto si è rivelato ben presto limitante, visto che già dopo pochissimi anni parte del contenitore si era spostato verso un recupero massiccio di sonorità del death metal (citiamo, quasi a caso, Carnifex o Thy Art Is Murder), ha omaggiato sempre di più il passato melodeath (Black Dahlia Murder), si è ibridato col tech-death e djent e ha portato a casa umori perfino del black metal (qualcuno ha detto Lorna Shore?). Non a tutti è riuscito, certo: una parte cospicua degli esponenti di quell’ondata è semplicemente sparita nel tempo, ma esiste anche un gruppo minoritario di artisti che è riuscito a spostare la propria proposta musicale verso lidi parzialmente differenti e non per forza estremi, tra cui appunto gli Escape The Fate.
Rivedere dal vivo la band di Craig Mabbitt e Robert Ortiz nel 2023 porta con sé tutta una serie di ragionamenti che fanno solo bene alla nostra musica. Primo: il combo di Las Vegas fa proprio parte di coloro che hanno aggiornato il proprio stile includendo influenze di vario genere, al punto che nel 2023 mostrano un’attitudine quasi glam rock decisamente fruibile. Secondo: se il ‘-core’ d’antan, a guardare i numi tutelari, sembra essere passato di moda, è comunque vero che una forma cristallizzata di quello stile è rimasta.
Chi scrive non segue con regolarità tutte le nuove band in uscita, ma sono bastati davvero pochi minuti per riconoscere negli opener della serata, Deaf Autumn e Deep As Ocean, sonorità che li configurano come figli diretti di un genere ormai non più così giovane. Insomma il nostro ‘-core’, in una forma o nell’altra, vive ancora e, magari suo malgrado, ha creato una sua forma di riferimento che anche dopo un ventennio influenza ancora parecchie nuove leve.
All’interno del Factory di Verona nel momento in cui i laziali DEAF AUTUMN iniziano il loro show ci sono poche decine di persone, ma la band di Frosinone non sembra davvero essere intimidita. Non avevamo mai avuto l’occasione di sentire la loro proposta, ma il loro ibrido di post-core, pop/punk e alternative rock colpisce subito nel segno e scalda la platea presente e ci fa gioire. Siamo catapultati indietro di almeno quindici anni, quando Atreyu, Silverstein Funeral For A Friend, P.O.D. e i gruppi più core della Epitaph riempivano le nostre playl… ah no, uscivano ancora dai nostri stereo.
I riferimenti possono essere molti, ma la carta vincente dei nostri è appunto quella di ricordare più uno stile che qualche gruppo in particolare. Le anime dei Deaf Autumn sono tante e per la mezzoretta loro concessa si uniscono perfettamente: il cantato sbarazzino in pieno stile Orange County di Davide Torti si alterna con il comprensibile scream del bassista Davide Ricci, la sezione ritmica e le chitarre sembrano conoscersi a memoria e anche il lavoro svolto delle backing vocals è perfetto. Il diavolo sta nei dettagli, si dice, e due pezzi come “Let It Out” e “A Reason To Stay” sono formalmente perfetti nel loro essere spudoratamente commerciali ma anche aggressivi e ben scritti. Bravissimi ed eroici nel proporre musica come questa in un Paese difficile come il nostro.
Dopo di loro tocca ai milanesi DEEP AS OCEAN, nome non nuovo nel panorama modern metal nostrano. La loro proposta è un misto bilanciato di nu metal alla Linkin Park, di tentazioni rock e di parti più core, riservate più che altro a breakdown mai troppo sostenuti e ad alcune costruzioni sghembe di chitarra. Le basi di tastiera aggiungono un flavour elettronico e appena un po’ post-rock (come è possibile apprezzare su disco, in particolare su “Crossing Parallels”), ma è la componente più sanguigna e metallica a dominare sul palco del Factory che nel frattempo inizia pian piano a riempirsi. La prova strumentale del gruppo è soddisfacente, con dei problemi di ritorno della voce in sala per il cantante Matt Bonfanti, risolti però piuttosto in fretta; ma è proprio l’altissimo singer a trascinare l’esibizione del gruppo meneghino che intrattiene con facilità il pubblico presente per il tempo loro concesso.
Ancora una volta l’organizzazione e il locale si rivelano adeguati, e in perfetto orario salgono sul palco gli ESCAPE THE FATE. Il colorato pubblico che si avvicina allo stage rivela moltissimo di cosa stiamo per ascoltare, e ci colpisce come ragazzi e ragazze poco più che ventenni sfoggino il loro look a metà tra il punk, il glam e il rock’n’roll in un ibrido degno del miglior Michael Monroe. Seppur i numeri all’interno del locale saranno, a fine serata, superiori di poco ad un centinaio di paganti, è sempre piacevole vedere un audience coinvolta, partecipe e in grado di riconoscere i pezzi.
Da parte loro gli Escape The Fate confermano come la loro dimensione sia ormai quella di una band hard rock a trecentosessanta gradi e ancora una volta i dettagli rivelano moltissimo: la stinta t-shirt dei Motley Crue del cantante Craig, il modo in cui Robert affronta la batteria, le backing vocals del chitarrista Kevin Gruft non possono non ricordare intenti molto più vasti di quelli di un gruppo, anche se solo parzialmente, della ‘vecchia’ ondata metalcore. D’altronde, un brano come “Lightning Strikes” vive di una sua dimensione propria, a rappresentare completamente un gruppo che ormai modernizza ciò che è stato per lungo tempo proprietà del Sunset Boulevard, più che voler sparare veloci bordate hardcore.
Lo ammettiamo, ci siamo recati al Factory pensando di godere più che altro dei classici dei primi dischi, grosso modo fino a “This War Is Ours”, ed invece siamo rimasti sorpresi. Naturalmente è l’album appena citato a tenere banco, attraverso inni come “Ashley”, “The Flood”, “Something” e “10 Miles Wide”, ma gli Escape The Fate sono molto di più e lo dimostrano con una performance eccellente capace di coinvolgere un po’ tutti. Bellissime tra l’altro le dinamiche interne di un gruppo che sul palco sembra conoscersi a memoria, soprattutto in occasione delle alternanze fra più voci, situazioni che arricchiscono moltissimo la performance del pur molto bravo Craig. Molto piacevoli sono anche i nuovi singoli “H8 My Self” e “Low” in grado di esibire un suono moderno, sostenuto dai campionamenti, ma che non perde comunque mordente. La band, divertente e divertita, saluta i fan soddisfatti dopo poco più di un’ora di esibizione, prendendosi pure il tempo di festeggiare il compleanno del batterista Robert con un improvvisato intervento sul palco della crew con torta e imbarazzante balletto in mutande. E’ proprio vero: a volte è solo questione di attitudine. Parola degli Escape The Fate.