Introduzione di Marco Gallarati
Report a cura di:
venerdì 14 luglio – Luca Pessina
sabato 15 luglio – Marco Gallarati e Andrea Raffaldini
domenica 16 luglio – Luca Filisetti e Luca Pessina
Evolution Festival, seconda chiamata! Ad esattamente 365 giorni di distanza dalla prima, storica edizione del neonato festival italico, la Loud Session cerca, nel pieno rispetto del nome della manifestazione, di evolvere l’evento, ingrandendolo e facendolo diventare un Wacken Open Air in miniatura. Missione compiuta? Operazione riuscita? Ancora presto per dirlo, ma, nonostante l’affluenza di pubblico (1400 persone il venerdì, 5500 il sabato, 4000 la domenica, dati pescati direttamente dall’Evolution Forum) non sia stata tremendamente entusiasmante in nessuna delle tre giornate di concerti, si può certo affermare che, in quanto ad organizzazione, siano stati raggiunti livelli decisamente ottimali. L’idea di ampliare l’evento, passando da un giorno di musica ad un weekend allungato, è stata piuttosto rischiosa, in quanto le band da scritturare, in primis, si sono praticamente triplicate, così come gli sforzi organizzativi, i beveraggi e le cibarie consumate, l’utilizzo degli uomini della security, il consumo di energia elettrica e via dicendo… Speriamo solo che questo ‘voler fare le cose in grande’ non porti al veloce spegnimento (chi si ricorda il Tradate?) di una manifestazione superlativa, gestita da veri appassionati e realizzata per veri appassionati di metallo, a differenza di qualche altro grosso festival italiano, da sempre penalizzato da un’organizzazione a dir poco latente. La location di Toscolano Maderno, conferma doverosa dopo la scoperta dell’anno scorso, è probabilmente l’aspetto del festival che più rende speciale il parteciparvi: stadio, il piccolo Comunale del paese, confortevole ed accogliente, in erba curata e con tribune coperte accessibili (a differenza dello scorso anno); decine di svariati stand, con in vendita le più disparate “merci metalliche”; buon numero di bagni chimici; possibilità di entrare ed uscire dall’impianto di gioco quante volte e quando si vuole; parcheggi a pochi metri dalla venue; possibilità di campeggiare in uno spazio gratuito ad una cinquantina di metri dallo stadio; spiaggia libera a venti metri dai cancelli d’entrata; Sole che spacca le pietre; lago da una parte, rigogliosi rilievi oltre il palco dall’altra; insomma, un vero piccolo Paradiso. E, nonostante spesso i metallari ambiscano a popolare l’Inferno, sfidiamo qualsiasi presente a dire che non amerebbe trapassare in un posto così pacifico e bello. Passiamo brevemente alla musica: il bill dell’Evolution, come l’anno scorso, punta su nomi importanti ma non enormi, gruppi che suscitano curiosità e altri di consolidata robustezza; il colpo grosso, però, i ragazzi dell’organizzazione l’hanno fatto riuscendo a portare in Italia gli Atheist, riformatisi ad inizio anno per suonare dal vivo (e speriamo altro!), attesissimi da tutti gli amanti del metal estremo, e gli Armored Saint, per la prima volta calcanti un palco italico. Interessante l’antipasto del venerdì, dedicato in esclusiva ad importanti nomi del metal italiano, Death SS e Labyrinth su tutti, ma anche Dark Lunacy, The Famili e Macbeth, mentre il sabato e la domenica si sono più o meno equipartiti gli interessi primari dei fan, tra nomi storici (Destruction, Death Angel, Armored Saint, Saxon), band in costante bagno di popolarità (The Gathering, Cradle Of Filth, Dark Tranquillity), gruppi che sanno assolutamente il fatto loro (Moonspell, Amon Amarth, Within Temptation, Nile) e piacevolissimi ritrovi (Sadist e, appunto, Atheist). Prima di cominciare, scuse doverose vanno fatte a Cadaveric Crematorium e Urto, le primissime due band ad esibirsi: l’espletamento delle operazioni logistiche per il weekend ha ritardato il nostro arrivo al campo, impedendoci di visionare le formazioni succitate. Peccato, ma altro non resta che augurarvi buona lettura, sperando vivamente che almeno un quarto dell’atmosfera che si è respirata sul Garda, venga rievocata dalle nostre parole e dai nostri racconti. Nel frattempo, uno speranzoso arrivederci al 2007, lanciando alla Loud Session un poderoso invito a non cedere il passo! Da parte nostra, supporto totale!!!
METHEDRAS
La giovane thrash metal band lombarda può vantare una nutrita schiera di fedelissimi pronti ad incitarla quando arriva sul palco per dar via al suo concerto. Purtroppo i suoni sono a dir poco scadenti, ma i Methedras sembrano quasi non farci caso e propongono con grande convinzione diversi brani tratti dal debut album “Recursive”, un inedito e apprezzatissime cover di “Over The Wall”, “D.N.R.” e “Down For Life” dei Testament e di “Davidian” dei Machine Head, quest’ultima non riconosciuta da molti (cose da pazzi…) ma comunque responsabile del primo vero headbanging della giornata. Non male!
THE FAMILI
Quando giunge il turno del side-project dei Sadist, non molti dei pochi presenti sembrano conoscerlo, ma di certo Trevor – truccato da clown – non fatica ad attirare l’attenzione di tutti, muovendosi per tutta la lunghezza del palco con fare inquietante. Dal canto suo, la band comincia a macinare riff e a proporre i brani più pesanti e aggressivi dei due full-length pubblicati sino ad oggi, con un particolare occhio di riguardo per il nuovissimo “Neonoir”. Per fortuna di tutti, quello che esce dagli amplificatori è sufficientemente nitido e potente, perciò anche coloro che non sono familiari con il moderno thrash metal del quartetto non faticano a lasciarsi coinvolgere. In chiusura c’è infine spazio per un nuovo siparietto di Trevor, che si ripresenta con camice da macellaio e motosega per il divertimento di tutti. Performance molto godibile.
MACBETH
Buona anche la performance dei Macbeth, ultimamente piuttosto presenti sui palchi italiani ed europei e quindi divenuti finalmente esperti e abili anche in sede live (chi scrive ricorda una noiosissima prestazione di spalla agli Amorphis diversi anni fa). Sin dalle prime battute, Andreas e Morena si danno un gran da fare per coinvolgere il pubblico, e quest’ultimo pare gradire molto i loro sforzi, non perdendo occasione per incitarli ulteriormente. Si crea una bella atmosfera e la band comincia a suonare in maniera distesa, proponendo molti estratti dall’ultimo album, “Malae Artes”, e una bella cover della hit di Sandra “In The Heat Of The Night”!
DARK LUNACY
I Dark Lunacy si presentano on stage orfani del bassista Imer e del batterista Baijkal, entrambi fuori dalla band per motivi personali. Al loro posto, due sconosciuti ma abili sostituti, che sin dalle prime note dell’iniziale “Aurora” si dimostrano all’altezza della situazione. Dal canto loro, Mike ed Enomys non sbagliano un colpo… o, almeno per quanto riguarda il chitarrista, così pare, visto che durante le prime canzoni proposte i suoni di tutti gli strumenti, tranne il basso, risultano impastatissimi e totalmente sballati! Il pubblico però reagisce bene e incita a gran voce la band, che ricambia proponendo una favolosa “Dolls” in chiusura di show.
LABYRINTH
Non si sente parlare molto dei Labyrinth ultimamente, ma quando la power metal band nostrana calca il palco dell’Evolution sono abbastanza numerosi i fan accalcati di fronte ad esso. Fa un certo effetto vedere il frontman Roberto Tiranti occuparsi anche del basso (Cristiano Bertocchi ha infatti lasciato il gruppo di recente per unirsi ai Vision Divine), ma il simpatico cantante sembra tutto fuorché impensierito da questo suo nuovo ruolo. Per fortuna, il concerto gode sin dalle prime battute di suoni discreti e ciò permette agli astanti di assaporare tutte le sfumature di piccoli classici come “State Of Grace” e “Kathryn”, canzoni rese al meglio da una band che, nonostante tutto, sembra essere piuttosto in forma. Come al solito, Tiranti gioca con il pubblico e si dimostra ottimo intrattenitore, raccogliendo parecchi applausi ad ogni intervento. Un po’ più defilati invece gli altri ragazzi del gruppo, che però non sbagliano letteralmente una nota, confermandosi per l’ennesima volta musicisti preparatissimi ed esperti. Con “Piece Of Time” e “Moonlight”, il concerto giunge al termine e tra il pubblico si odono soltanto commenti positivi. Bravi, Labyrinth, anche questa volta non avete deluso.
DEATH SS
Il ruolo di headliner del venerdì non poteva non spettare ai mitici Death SS, forse la band più longeva del panorama metal italiano e certamente una delle più importanti horror metalband di sempre. Come al solito, la performance offerta è stata di prim’ordine, baciata da suoni molto buoni e da una risposta del pubblico tra le più calorose dell’intero festival. Steve Sylvester ha confermato di essere un grande frontman, non interagendo mai con gli astanti ma cantando ogni brano della scaletta (incentrata – a differenza del recente passato – per lo più su brani nuovi) al meglio delle sue possibilità e tenendo il palco con il suo abituale carisma. Ovviamente non sono mancate le solite trovate sceniche fra le quali gli apprezzatissimi interventi della “Scarlet Woman”, che proprio durante l’esecuzione dell’omonimo brano ha dato il meglio, facendo impazzire buona parte del pubblico maschile! In definitiva, si è trattato di un concerto veramente riuscito e coinvolgente, che, con tutta probabilità, avrà fatto guadagnare ai nostri parecchi nuovi fan.
ARTHEMIS
Ad aprire le ostilità della giornata del sabato, all’Evolution Festival, si presentano mattinieri sul palco i veneti Arthemis, speed-power metal band con all’attivo già quattro full-length album ed oltre un decennio di (travagliata) carriera. Il gruppo, come a volte succede in Italia, è decisamente più famoso all’estero che in patria, ed il successo che i ragazzi riscontrano in Giappone ci fa pensare che, pur vedendoli per la prima volta dal vivo, gli Arthemis ci sappiano fare. Un buon riscaldamento è quello che il quintetto nostrano propone al pubblico accorso, ancora misero – vuoi per l’orario, vuoi per la lentezza delle operazioni di perquisizione, vuoi per i dieci minuti d’anticipo d’inizio concerto sommati ai venti di ritardo dell’apertura porte – ma ben supportante. “Rise Up From The Ashes” è probabilmente il brano meglio accolto fra quelli proposti, apice di uno show introduttivo certamente più che sufficiente.
NIGHTMARE
Praticamente sconosciuti al pubblico italiano (e non, ci permettiamo di supporre), i francesi Nightmare capitano nel posto giusto al momento sbagliato, ovvero ad una sola settimana di distanza dalla trionfale (ma sì, esageriamo!!) vittoria della nostra eroica nazionale di calcio su quella boriosa e bolsa dei transalpini. Nulla contro la band, ma la nostra superiorità ormai accertata ci permette di seguire con curiosa ed onesta simpatia la performance dello storico gruppo d’Oltralpe. Esibizione accettabile anche per i Nightmare, sebbene la loro proposta – un power-prog oscuro e cangiante – non esalti più di tanto le masse. Spicca fra il pubblico un piccolo tricolore francese – preso di mira per tutta la giornata, a dire il vero, da ogni gruppo interessato un minimo alle epopee pallonare – mentre la canicola di questo sabato metallico comincia ad attanagliare gli astanti. Accolta molto bene (strano, eh?) la cover di “Enter Sandman” dei Metallica, giunta in chiusura di un set un po’ anonimo e con poco mordente.
ELDRITCH
Al suono dell’inno nazionale, gli Eldritch si presentano sul palco ricordando a tutti i presenti che l’Italia è campione del mondo di calcio. Chiusa questa breve parentesi, la band di Terence Holler parte in quarta, sfoderando tutta la sua rabbia ed energia. La scaletta si incentra sugli ultimi dischi, in particolare i brani dell’appena uscito “Neighbour Hell” sono fra i più convincenti dell’intero spettacolo, “Save Me” su tutti. Il Sole cocente penalizza purtroppo l’entusiasmo dei fan, i molti irriducibili, incuranti del caldo torrido, non sono supportati dalla maggior parte dei presenti, che preferisce gustarsi il concerto nelle zone d’ombra. Nonostante tutto, gli Eldritch danno il massimo e si rendono autori di una buona performance che rafforza ulteriormente il loro status di grande live band.
KORPIKLAANI
Dopo i vigorosi Eldritch, tocca ai finnici Korpiklaani, primi – in ordine cronologico – sbandieratori del folk-metal da balera lappone. Venuti alla ribalta seguendo la scia dei ben più noti connazionali Finntroll, guarda caso in programma l’indomani, i nordici gettano una ventata d’aria fresca (ehm…ma dove??) sul pubblico in crescendo, riuscendo pure a generare qualche abbozzo di tarantella-polka-quadriglia. L’atmosfera da pane, salame & vino contagia pure gli addetti alla security, i quali hanno la geniale trovata di far partire uno degli spruzzini annaffiatoi del campo di calcio, portando al lavaggio automatico una cospicua dose di puzzolenti e nauseabondi metallari. In termine di suoni, i Korpiklaani sono sembrati una band ultra-amatoriale, con le chitarre inesistenti e con violino e batteria al di sopra di tutto. Divertente quanto si vuole la loro musica, piacevoli da ascoltare nelle notti innevate della Sila calabrese, magari con un’emigrata finlandese a cullarci i sogni… peccato che il risveglio avvenga con il Sole allo zenith, a trentacinque gradi di calura e senza neanche una simpatica ostessa hobbit a servirci la birra! Da rivedere al fresco.
HAGGARD
L’ambiente ideale per ascoltare la musica degli Haggard, formazione di diciotto elementi che propone un mix tra musica classica, folk e metal, sarebbe la sera tarda, lontani dal Sole e rilassati dopo una lunga giornata di concerti. Proprio il Sole e la calura, invece, rovinano l’atmosfera di un concerto altresì notevole: gli Haggard dimostrano una buona tecnica ed un repertorio molto interessante, soprattutto per gli amanti delle sonorità più classiche della musica. Asis Nasseri, frontman della band, intrattiene il pubblico con il suo parlato in italiano, conquistandone la simpatia. A fine concerto la band si congeda soddisfatta, benché per i motivi di cui sopra non si può certo considerare lo show del tutto riuscito.
TRISTANIA
I norvegesi Tristania, dopo un lungo periodo di pausa, sono pronti a rientrare sul mercato il prossimo autunno, grazie al nuovo album “Illumination”. La band si presenta sul palco dell’Evolution in pieno pomeriggio e, un po’ come da copione, non fa certo della dinamicità il fulcro dello spettacolo. Il trittico Korpiklaani-Haggard-Tristania, sentiti uno dopo l’altro, è forse un po’ troppo e, sinceramente, si sente la mancanza di qualcosa di più corposamente violento. Gli scandinavi, con la bella Vibeke Stene a far da catalizzatrice d’attenzione, si esprimono con bravura e precisione, latitando in frenesia, ma sopperendo con la proposizione di alcuni estratti che andranno a finire sul prossimo album, a quanto si dice un bel pot-pourri di sonorità estreme e accattivanti. Chi scrive non stravede per i Tristania, ma suppone che i cinquanta minuti a disposizione del gruppo abbiano soddisfatto i fedelissimi.
DESTRUCTION
L’avvento di Schmier e compagni all’Evolution è uno degli eventi più attesi dai fan, che numerosi si sono radunati sotto il palco ad incitare i leggendari thrashers tedeschi. Come da copione, lo show del trio è un surrogato di energia, potenza e devastazione: tutti i grandi classici vengono suonati, a partire da “Soul Collector”, “Nailed To The Cross” e “Mad Butcher”/”The Butcher Strikes Back”. L’unico appunto che ci sentiamo di fare alla band riguarda la scaletta, che dall’uscita dell’ultimo studio album non ha mai subito variazioni eclatanti: sarebbe ora di proporre qualcosa di più ricercato o non ascoltato da tempo. Fatta questa osservazione, lo show dei Destrucion è semplicemente impeccabile, uno dei migliori dell’intera giornata, che ha ravvivato di classicismo un bill dedito ad altre sonorità. Immensi.
NILE
Entrata nel vivo con l’assalto frontale dei Destruction, la seconda giornata dell’Evolution prosegue all’ombra del massacro con gli statunitensi Nile, transitati in inverno nel Belpaese per supportare l’ultimo, megalitico “Annihilation Of The Wicked”. Particolarmente indigesto da mandar giù dal vivo, il combo di Karl Sanders e Dallas Toler-Wade fornisce una prova a tratti esaltante, a tratti noiosa, come forse è normale che sia, nel mentre in cui si propone una musica ipertecnica e spesso confondibile con la pura cacofonia. Il trasporto fisico e la precisione con cui i quattro Nile eseguono le varie “Cast Down The Heretic”, “Sarcophagus”, “Sacrifice Unto Sebek” e “The Blessed Dead” sono palpabili ed ammirevoli, mentre la chiusura di “Black Seeds Of Vengeance” accontenta davvero tutti. Il gruppo perde un po’ di sostanza vedendolo suonare all’aperto, così come la claustrofobia propria dei loro brani cozza prepotentemente con il cielo terso e le ridenti montagne verdi alle loro spalle. Fossero state le piramidi di Cheope e Chefren, probabilmente l’effetto mistico sarebbe stato notevole! Bravi, ma senza entusiasmare.
DARK TRANQUILLITY
Dei Dark Tranquillity, ormai, non si sa davvero più cosa dire. Tornati all’Evolution – come promesso – dopo che l’anno scorso avevano dovuto suonare al mattino presto per la concomitanza con un festival finlandese, i ragazzi di Goteborg conoscono a menadito l’audience italiana e sono consapevoli di essere fra le metalband più amate in assoluto qui da noi. Da ciò è scaturito l’ennesimo show quasi esemplare, condito da veri e propri classici immortali della band (“Punish My Heaven”, “Hedon”, “Therein”), così come da brani più recenti ma che già sono immancabili dal vivo (“Final Resistance”, “My Negation”, “The Treason Wall”). Il gruppo riesce sempre ad alternare con sapienza i propri numerosi cavalli di battaglia, anche se questa tornata ha visto ben poche sorprese, registrando, oltre alle già citate, la proposizione di “Lethe”, “Damage Done”, “The Wonders At Your Feet”, “The New Build” e “Lost To Apathy”. Rimangono fuori altre grandi canzoni, ma davvero, quando si tratta di scegliere la setlist, i Dark Tranquillity devono avere ogni volta l’imbarazzo della scelta. Segnalando dei suoni abbastanza confusi e qualche incertezza vocale di Stanne nell’attacco di un paio di strofe, non possiamo non rallegrarci per il ghiotto regalo che il sestetto svedese ci ha fatto: l’esecuzione di un brano nuovo di zecca! “Blind At Heart” non è molto distante da quanto sentito su “Character”, con una partenza thrashy assassina e stacchi melodici d’impatto. Il buon giorno si vede dal mattino e, anche se sul Garda è ormai buio, la Tranquillità Oscura brilla ardentemente di luce propria. Controsenso, d’accordo, ma le stelle non possono non splendere. Al prossimo concerto ne sapremo di più…la saga continua!
WITHIN TEMPTATION
Ecco una band che, certamente, non ha raccolto quanto meritava, almeno per quanto riguarda la popolarità in terra italica! Dopo il magistrale esordio “Enter”, gli olandesi Within Temptation si sono vagamente persi per l’Europa, non sfruttando al meglio l’ottimo inizio e finendo impantanati tra lungaggini nella composizione di nuova musica, scelte discutibili di qualche etichetta discografica e promozioni praticamente inesistenti. E’ così, con estrema curiosità, che andiamo a goderci la loro performance, annebbiata da qualche perplessità per la posizione in scaletta (i Dark Tranquillity in Italia son perfino più amati dei Cradle Of Filth…) ma, quasi contemporaneamente, illuminata a giorno per la sua sfolgorante bellezza ed intensità. Per cominciare, la band suona avvalendosi di una bella scenografia, composta da due grosse statue-angelo ai lati del palco e da pseudo-blocchi di marmo su cui i componenti mobili del combo possono andare a posizionarsi. Poi – e ci fermeremmo qui – c’è Sharon Den Adel, una frontgirl che non ha niente da invidiare proprio a nessuno, in primis per quanto riguarda la voce, cristallina, potente ed espressiva come poche; abilissima nell’interagire sia con il pubblico (timidina senza essere sottomessa e trascinante quando serve) che con i suoi compari, Sharon interpreta benissimo i brani proposti, inscenando movenze sinuose, mai ridicole (ed è un pregio notevole!), oppure incitando la folla a tempo. L’impianto luci si comporta alla grande, donando alle varie “The Promise”, “Mother Earth”, “Stand My Ground” ed “Angels” un’epicità ed una maestosità enormi. Certo, per chi si era innamorato del debutto dei Within Temptation, riascoltare “Enter” o “Restless” sarebbe stata l’apoteosi, ma è chiaro come la band punti tutto – a ragione – su Sharon, non prevedendo neanche un possibile reinserimento di un vocalist growl in formazione. Comunque sia, uno spettacolo davvero bellissimo! Miglior concerto della giornata, con pochi dubbi…
CRADLE OF FILTH
I Cradle Of Filth dividono da sempre il pubblico: chi li considera dei geniali innovatori troverà in essi il non plus ultra delle fantasie orrorifiche, vampiresche e grandguignolesche; chi li odia alla morte li troverà semplicemente insopportabili. Fatto è che il combo britannico è tuttora uno degli ensemble symphonic-black metal più stimati e seguiti al mondo, quindi assolutamente meritata è la sua posizione da headliner. Ovviamente, quando la band fa o ha fatto discutere è perché alla sua guida c’è un personaggio che, da solo, potrebbe rappresentarla appieno: Dani Filth è i Cradle Of Filth e i Cradle Of Filth difficilmente potrebbero esistere senza Dani Filth. Il piccolo frontman si presenta lanciato sul palco, agghindato in versione horror-futurista e con degli improbabili capelli punk-goth a più colori; la band è in forma e i suoni sono i migliori della giornata. La solita immonda buzzicona senza ritegno fa la sua comparsa rasente il backstage, giusto per farcire di qualche vocalizzo femminil-orgiastico le roboanti composizioni della Culla Maleodorante, le quali si susseguono con poche soste, complesse e totalmente dominate dagli strilli ultrasonici di mister Dani, saltellante come un cavalletta invasata. “Nymphetamine”, “Cthulhu Dawn”, “Thank God For The Suffering” e le più decrepite (nel senso di vecchie…) “Heaven Torn Asunder” e “Cruelty Brought Thee Orchids” riescono pian piano a smuovere un pubblico visibilmente provato dalla lunga giornata trascorsa sotto il Sole, regalando così gli ultimi squarci di metallo estremo. Dopo i doverosi bis, la band si congeda dalla folla, facendo scendere un tetro sipario sulla seconda giornata dell’Evolution, mentre fulminei lampi in lontananza non promettono niente di allegro. Buona performance, quindi, per i Cradle Of Filth, soprattutto per gli estimatori del combo. Per tutti gli altri, compreso il sottoscritto, rimarranno in testa solo gli echi fastidiosissimi dei continui ‘make some fucking noise’ che il piccolo singer ha ripetutamente pronunciato durante l’esibizione. Ma cos’è, lo pagavano a cottimo?
KAYSER
I Kayser, nella loro ancora breve carriera, non devono aver tenuto molti concerti, eppure, quando vengono chiamati ad aprire l’ultima giornata dell’Evolution 2006, sembrano essere un gruppo ben più longevo ed esperto. Merito certamente della lunga militanza di Spice negli Spiritual Beggars e di Swaney nei The Defaced, che in tutti questi anni hanno accumulato esperienza sui palchi di mezza Europa. Proprio grazie alla loro buona presenza scenica lo show parte nel migliore dei modi e, beneficiando anche di suoni più che discreti, regala al pubblico numerosi pezzi su cui fare il primo headbanging della giornata. La thrash metal band svedese presenta il nuovo singolo “Good Citizen” e i brani più rappresentativi del debut “Kayserhof” senza sbavature e con grande decisione… il pubblico reagisce bene e tributa loro i più che meritati applausi. Un bel modo per dare il via alla giornata.
SECRET SPHERE
Secondo gruppo ad esibirsi nella giornata odierna, gli alessandrini Secret Sphere non riescono a rendere sul palco come su disco. La situazione probabilmente non era particolarmente adatta, visto che hanno dovuto tenere alto l’onore del power tricolore in un bill giornaliero che vedeva solo loro come portabandiera del genere. La musica dei ragazzi ha bisogno di location differenti, in quanto andrebbe seguita con attenzione per cogliere i piaceri di arrangiamenti intelligenti e di partiture progressive nient’affatto semplici. E’ soprattutto il singer Roberto Messina a pagare lo scotto di una scaletta troppo corta, in quanto il tempo per scaldare la voce non c’è e a volte fatica non poco quando le ottave salgono. Peccato, in quanto in altre occasioni (e su album naturalmente), si era dimostrato interprete di razza. Comunque i brani più veloci e d’impatto come “Loud & Raw” dal vivo funzionano piuttosto bene e questo è perlomeno incoraggiante. Da risentire, in questa occasione troppo fuori contesto.
SADIST
Il miglior concerto del festival – almeno per chi scrive – ha luogo attorno a mezzogiorno, quando i Sadist si presentano inaspettatamente sul palco dell’Evolution un’ora prima del previsto. Gli Ensiferum sono rimasti bloccati nel traffico, dunque tocca alla band di Tommy Talamanca tappare il buco e offrire agli astanti una quarantina di minuti del miglior techno-death metal che sia uscito dall’Italia. I quattro appaiono un po’ emozionati – sono infatti ben sei anni che non tengono uno show come Sadist – ma il numeroso pubblico tributa subito loro grandi applausi e urla a gran voce il loro nome. Quando parte “Nadir” è il delirio… da quanto tempo non si udiva tale intro? La folla è entusiasta, Trevor – che si esibirà per metà concerto in mutande! – la arringa ad ogni pausa e canta senza sbagliare nulla. Idem il resto della band, che in “Escogido”, “Tribe” e “Sometimes They Come Back” raggiunge livelli di fedeltà allucinanti, con un Tommy Talamanca che nel suonare contemporaneamente chitarra e tastiere si conferma ancora una volta un musicista straordinario. Alla fine per loro ci sono soltanto ovazioni e incitamenti: mancavano da sei anni ma quest’oggi è sembrato che non avessero mai smesso di suonare. Grandi Sadist, non vediamo l’ora di rivedervi!
ENSIFERUM
Unica band che non viene annunciata dallo speaker, i finlandesi Ensiferum salgono sul palco pochissimi minuti dopo i Sadist per recuperare il tempo perduto. Show di sostanza per i vichinghi, fatto più di sudore che di folklore. I ragazzi infatti spingono sull’acceleratore e danno vita ad uno spettacolo un po’ povero ma abbastanza intenso. Il problema è che la loro esibizione, seppure formalmente impeccabile, è risultata un po’ anonima ed anche sul palco i singoli componenti non si sono sbattuti più di tanto, nonostante un pubblico piuttosto numeroso che li attendeva. Da segnalare la buona prova della sezione ritmica composta da Sami Hinkka al basso e Janne Parviainen alla batteria, che cerca di dare un po’ di sostanza ad un ensemble troppo statico. La battaglia a distanza con i Finntroll e gli Amon Amarth è decisamente persa, tanto che alla fine la cosa che resta più impressa del loro concerto sono le grazie della bellissima tastierista. Mezza delusione.
FINNTROLL
C’era molta curiosità intorno ai Finntroll: non erano pochi i ragazzi (e le ragazze) agghindati con paramenti tipicamente medievali, giunti in riva al lago per assistere allo show dei finlandesi. Il risultato finale della mezz’ora a loro disposizione è stato buono ma lontano dall’eccellenza. Innanzitutto bisogna dire che, per la ricchezza del loro sound, i Finntroll debbono per forza di cose ricorrere a delle parti registrate che, purtroppo, smorzano non poco la foga della loro proposta. In secondo luogo, il nuovo singer Vreth è un discreto esecutore ma risulta un po’ anonimo, soprattutto se paragonato ai suoi folcloristici predecessori. Il pubblico comunque sembra apprezzare l’esibizione, soprattutto quando i nostri si lanciano nello Humppa, mentre risultano assai più prevedibili nelle partiture prettamente black. Grande successo hanno avuto soprattutto i brani legati a “Jaktens Tid”, a parere di chi scrive l’episodio migliore della loro carriera. Menzione di merito per “Slaget Vid Blodsalv”, ballata da tutte le prime file. Altro show dal quale ci si sarebbe aspettato di più (anche dal punto di vista dei costumi), ma comunque sia piacevole e divertente. Da risentire in altro contesto.
THE GATHERING
Non c’è molta gente di fronte al palco prima che prenda il via il concerto dei The Gathering, apparentemente fuori contesto in una giornata come quella in questione. Il gruppo olandese, per giunta, sale on stage quasi all’improvviso, senza alcun intro preparatorio e senza un telone raffigurante il suo logo. Ma ci vuole ben poco ad Anneke e ai suoi amici per coinvolgere diverse centinaia di persone: basta l’iniziale “The Shortest Day”, cantata in maniera eccezionale, bastano un paio di sue mosse o uno dei suoi sorrisi… e la gente è in visibilio! Consapevoli di trovarsi al cospetto di una folla composta in gran parte da metalhead, i nostri optano intelligentemente per una setlist incentrata sui loro brani più ritmati, andando anche a ripescare “Liberty Bell” e addirittura “Strange Machines” e “On Most Surfaces”. Tutto viene eseguito in maniera perfetta, sia da Anneke che dal resto della band, con una simpaticissima Marjolein a raccogliere numerosi applausi e le simpatie di tutti… a fine show, quando la si è vista girare con una zainetto in spalla, sembrava quasi una liceale in vacanza! Comunque, bravissimi i The Gathering, protagonisti di uno dei migliori concerti di questa edizione.
ARMORED SAINT
L’attesa per vedere gli Armored Saint era davvero tanta, per almeno due motivi: principalmente perché dopo più di vent’anni di onorata carriera era la prima volta che la band calcava il suolo italico; secondariamente per rivedere in azione un frontman eccezionale come John Bush, accantonato in maniera indecorosa dai nuovi/vecchi Anthrax. La line up è di quelle stellari: oltre al buon Bush troviamo il compagno di mille battaglie Joey Vera al basso, Gonzo Sandoval dietro le pelli, Jeff Duncan e Phil Sandoval alle chitarre. Nonostante tutto ciò, la band non riesce a fare il botto. I suoni sono piuttosto spompati, soprattutto le chitarre, e, anche se Bush e Vera si sbattono come due forsennati sul palco, lo show non decolla. Certo, il pubblico osanna i ragazzi a gran voce, si odono dei cori doverosi (anche se sparuti) per Dave Prichard, storico chitarrista scomparso qualche anno fa, ma si vede a occhio che qualcosa non funziona a dovere. Ciò nonostante la band porta avanti lo spettacolo con estrema professionalità e sono soprattutto gli estratti da “Symbol Of Salvation” a mietere vittime: in particolare “Tribal Dance”, non esattamente la traccia più bella degli Armored Saint, provoca un movimento sotto il palco francamente inaspettato. Grande Bush, grande Vera, ma lo show è riuscito solo in parte, peccato.
ATHEIST
Saxon a parte, gli Atheist (insieme agli Amon Amarth), potevano vantare il maggior numero di fan venuti appositamente per vederli. La band non si fa pregare e sciorina una performance che rimarrà a lungo negli occhi e nelle orecchie dei presenti al festival. Cuore pulsante della band, nonché idolo della folla, è il bassista Tony Choy, probabilmente uno dei musicisti più preparati dell’intero universo metal. Il buon Tony prende per mano la band e la guida in maniera sicura con dei pattern che poco hanno di umano, dimostrazioni di tecnica quasi mai fini a se stesse con le quali sbalordisce un pubblico esterrefatto davanti a tanta classe cristallina. Non è assolutamente facile seguire un concerto della band, si ha sempre il timore di perdersi in qualche passaggio al limite delle umane possibilità (ed è quello che in definitiva succede). A completare la sezione ritmica c’è il piovresco Steve Flynn, batterista e membro fondatore della band, assente dai tempi di “Unquestionable Presence”. Alla chitarra troviamo l’altrettanto valido Randy Burkey, capace di sciorinare più riff in tre quarti d’ora che il resto delle band messe insieme in tutta la giornata. Dietro il microfono il sempreverde, anzi, semprebiondo Kelly Shaefer, che si cela dietro un paio di occhiali tamarrissimi. L’unico che sembra aver sentito scorrere il passare del tempo è proprio il singer che fatica non poco tra un brano e l’altro, ma quando canta sembra ancora un leone. A parte una pausa tecnica per sostituire un’asse del palco che ha ceduto e inghiottito Choy, i nostri vanno via spediti fino al gran finale di “Piece Of Time”, che chiude un concerto dove i tre album capolavoro dei nostri sono stati saccheggiati a dovere. Evento.
AMON AMARTH
La triade vichinga, composta da Ensiferum, Finntroll e i qui presenti Amon Amarth, era molto attesa all’Evolution: ebbene, in una ipotetica classifica non ci sarebbe storia, tanto è stata disarmante la superiorità degli Amon Amarth! Grazie a dei suoni particolarmente buoni e ad una performance esaltante a dir poco, gli svedesi conquistano il festival grazie ad una delle esibizioni migliori della giornata. Vedere dal vivo il gigantesco vocalist Johan Hegg fa impressione, ha una forza d’urto palpabile e trasmette l’energia alla band in primis (performance eccellente di tutto il gruppo) e al pubblico secondariamente. Proprio i ragazzi sotto al palco hanno fatto la differenza, cantando tutti i brani dei cinque figli di Odino, a cominciare dalla splendida “The Pursuit Of Vikings”, passando per “An Ancient Sign Of Coming Storm”, “Releasing Surtur’s Fire” e “For The Stabwounds In Our Backs”, sino a giungere a “Death In Fire” e “Victorious March”. La coesione on stage è la vera arma in più degli Amon Amarth, quella che permette loro di padroneggiare con la stessa efficacia partiture death metal e arrangiamenti epicheggianti senza scadere mai nella banalità. Inoltre la sezione ritmica composta da Fredrick Andersson alla batteria e Ted Lundström al basso si è rivelata una delle migliori della giornata, estremamente precisa in ogni passaggio. Ma il vero punto di forza è il singer, vero e proprio vichingo che incita a gran voce il pubblico e sul palco non si ferma un attimo, se non per raccogliere le doverose ovazioni tra un brano e l’altro. Niente da dire, la band è cresciuta esponenzialmente negli anni e ora sta iniziando a cogliere i frutti di un lavoro onesto e sincero dal primo all’ultimo album. “Show Us Your Viking Horns”!
MOONSPELL
L’esibizione dei Moonspell si apre in maniera molto violenta, con una “Finisterra” letteralmente sbattuta in faccia ai numerosi astanti, che paiono già conoscere a memoria molte delle sue parole. Fernando Ribeiro e compagni non lesinano headbanging e pose tipicamente metal, forse desiderosi di far capire al pubblico di essere tornati quelli di un tempo non solo sotto il profilo musicale. E, in effetti, i fan reagiscono assai bene, unendosi allo scapocciamento e aiutando più volte il bravissimo frontman a cantare le sue parti. Con “Wolfshade”, “Opium” e “Alma Mater” – quest’ultima insolitamente proposta all’inizio – il concerto entra nel vivo, regalando momenti di grande coinvolgimento. Coinvolgimento che invece – almeno per il sottoscritto – stenta ad arrivare all’altezza delle esecuzioni dei nuovi brani… qualitativamente inferiori (e non di poco) alla vecchia produzione. Ma, come dicevamo, buona parte dei presenti non pare badarci troppo e alla fine la performance della band portoghese si rivela comunque un successo, concludendosi, come ormai consuetudine, sulle note della mitica “Full Moon Madness”.
DEATH ANGEL
I Death Angel hanno avuto la fortuna di poter essere la prima band a suonare con il buio, così da poter sfruttare anche il gioco di luci al meglio. Luci che, a dire il vero, non sempre hanno funzionato a dovere, tenendo spesso la band in penombra. A parte queste facezie, bisogna dire che il concerto è stato un vero e proprio balzo all’indietro nel tempo. I ragazzi tengono il palco in maniera egregia, soprattutto il carismatico e lungocrinito frontman Mark Osegueda, vero mattatore dello show. Oltre a possedere un timbro vocale particolare, Mark conserva intatta la sua potenza e la sua estensione, nonostante tutti gli anni di onorata carriera. Il pubblico ovviamente inneggia ai vecchi brani e i ragazzi li accontentano a metà, nel senso che accanto ai vecchi classici come “Kill As One” (un delitto però non eseguire “Thrashers”), danno ampio risalto agli estratti dell’ultimo, non bellissimo, “The Art Of Dying”. Inaspettatamente però, le tracce che colpiscono di più sono proprio due estratti da quest’ultimo lavoro, ovverosia “Thrown To The Wolves” e “Thicker Than Blood”, già buone su album ma dal vivo assolutamente fantastiche. Il concerto non è stato perfetto però, i due chitarristi ogni tanto attaccavano i riff in anticipo o in ritardo e il buon Andy Galeon dietro le pelli ha avuto il suo bel daffare a coprire queste pecche. Nonostante tutto, però, i Death Angel escono trionfatori dall’Evolution, confermandosi una delle realtà thrash che meglio si è conservata durante gli anni.
SAXON
Incredibile… Siamo al cospetto di una band che tra pochissimo festeggerà il trentennale della propria carriera e che sul palco dà tantissimi punti a dei ben più giovani virgulti che bramano per possedere lo scettro del metal, anche se con i Saxon ancora in giro sarà un’impresa difficile. Capelli bianchi, pancette ormai visibili, ma ancora tanta voglia di rockare e di divertire. Biff è una leggenda vivente, tutta l’attenzione si concentra su di lui, il resto della band deve “solamente” fare il proprio dovere. Per dovere di cronaca, una menzione speciale la merita il rientrante drummer Nigel Glockler, che si riprende il posto che gli spetta e che fino a pochi mesi fa era occupato dall’anonimo Jorg Michael. Le canzoni della band dal vivo hanno tutte una marcia in più, sia che si tratti di veri e propri capolavori della NWOBHM, come “Denim And Leather” o “Wheels Of Steel”, sia che suonino più epiche, come “Crusader” e “Lionheart”. La band è in gran forma, comunica, incita il pubblico, scherza, ma intanto picchia duro e l’audience non rimane insensibile davanti ai vecchietti terribili del rock. Naturalmente il pubblico si riversa sotto il palco abbandonando le gradinate per inneggiare ai propri eroi che, come sempre, non si risparmiano e se ne fottono delle scalette precostituite. Purtroppo non hanno fatto registrare il tutto esaurito in quanto molti dark fan se ne erano andati dopo lo show dei Moonspell ed altra gente è fuggita al termine dei Death Angel, ma chi è rimasto come sempre ha assistito ad uno spettacolo che difficilmente dimenticherà. Senza dubbio uno dei migliori show dell’intero festival: questi eterni ragazzi non la smetteranno mai di stupire. Immortali.