Nonostante una certa pigrizia compositiva, gli Extreme sono rimasti nel cuore di molti appassionati di musica, in misura tale che ogni loro tour finisce per tramutarsi in un netto successo.
Il sold-out per il concerto dell’Alcatraz, in pratica l’ultimo grande appuntamento hard rock/heavy metal del 2023 su suolo italiano, crediamo non sia da ascrivere al comunque buono “Six”, sesto album del quartetto americano. Certamente l’aver portato nuova musica in pasto ai propri fan, a quindici anni da “Saudades De Rock”, avrà riacceso in alcuni una passione andata in precedenza leggermente sopita, ma è l’attingere ad emozioni della gioventù, ai dorati primi anni ’90, quando lo zoccolo duro della fanbase era adolescente o giù di lì, che dà slancio al nome Extreme e gli permette ancora oggi di essere sulla cresta dell’onda.
Nelle precedenti apparizioni in area milanese, quella per i venticinque anni di “Extreme II: Pornograffitti” sempre all’Alcatraz e quella a fine luglio del 2017 al Live Club di Trezzo sull’Adda, si era potuta apprezzare una band in grande spolvero, fino a quel momento immune da cali di prestazione, stanchezza, semplice appannamento. Due esibizioni di successo, che avevano condensato la loro storia ora ultratrentennale in concerti adrenalinici, scatenati, capaci di riportare indietro le lancette del tempo per musicisti e spettatori.
Ed è con questa speranza addosso che una vera fiumana di gente si riversa davanti all’Alcatraz prima dell’apertura porte, con una lunga coda a girare attorno al locale quando è ormai prossima l’apertura porte. Per l’occasione, ad aprire ci sono i The Last Internationale, già passati in veste di headliner nel nostro paese nel 2023 (a maggio al Legend di Milano) e tra i nomi più caldi del panorama hard rock per quanto riguarda i gruppi sbocciati nel corso degli anni ’10.
Con “Running For A Dream” i newyorkesi hanno puntellato il loro status, che li vede tra i migliori interpreti del revival di hard rock settantiano molto forte, per qualità e numero degli interpreti, sia negli Stati Uniti che in Europa. Quando entriamo nella sala, predisposta nella versione a massima capienza con il palco A ad essere operativo, il locale è già pieno per oltre metà e Delila Paz e i suoi scatenati compari stanno per entrare in scena…
Per quanto il loro ruolo di opener si rivelerà essere abbastanza marginale nell’economia della serata (mezz’ora scarsa per loro a star larghi) i THE LAST INTERNATIONALE vendono cara la pelle, come si suol dire, e fanno di tutto per convincere della bontà della loro proposta, anche in un tempo troppo ristretto per poterli apprezzare al meglio. Nelle prime file si nota un certo fermento in loro favore, d’altronde il nome della band ha una sua notorietà e una tournee con gli Extreme non può fare altro che aprire loro altre porte, dopo che ne hanno già sfondate diverse grazie alla qualità della loro musica.
L’alchimia creativa e di interazione sul palco tra la carismatica cantante e il suo contraltare alla chitarra Edgey Pires esplode in pochi istanti, ci vuole poco a farsi coinvolgere dall’impasto di hard rock e blues dei quattro, che per certi versi ricordano i Rival Sons in una versione meno virtuosa e più garage/punk.
Delila Paz è una frontgirl che rimane facilmente impressa, sia per la prorompente fisicità, che per le movenze da pantera e, ovviamente e soprattutto, per la voce potente e camaleontica. La tutina attillata rossa che la trasforma in una wonder woman dell’hard rock le calza a pennello e ne sottolinea le accattivanti movenze, mentre dirige le scorribande degli altri musicisti, tutti quanti con una prestanza e un piglio tipici di chi sul palco è a completo agio.
Energia e sentimento sgomitano per prendere il sopravvento nelle canzoni della band, che condensa in pochi minuti quello che sarebbe un suo concerto in formato esteso: tanta voglia di coinvolgere il pubblico, empatia, un rincorrersi frenetico sullo stage che non va a discapito della precisione e dell’impatto. Solo i cinque i brani in scaletta, con “Hard Times” in chiusura a rimanerci impressa e concludere degnamente un set breve ma molto gradito.
Quando sul palco arrivano gli EXTREME, in una venue ora completamente stipata, il dubbio ci assale: è quasi il 2024 o il 1990? In fondo, a ricordarci l’epoca attuale sono l’età media dei presenti – dai trentacinque anni a salire, con poche eccezioni – e i tanti, troppi smartphone innalzati per immortalare l’entrata in scena di Gary Cherone e compagni.
Ai quali piace vincere facile e incanalare la serata su binari magici, piazzando in apertura un uno-due formidabile con “It (’s A Monster)” e “Decadence Dance”. I suoni paiono seguire la piega dell’ultimo “Six”, ovvero pieni, compressi, metallici e assordanti come sull’ultimo disco, a ribadire la durezza degli Extreme e la loro capacità di colpire forte ed essere ancora una formazione dalla carica dirompente.
Ma fossero tutto volume e muscoli, faticheremmo ad amarli, mentre già le due canzoni iniziali ci rinfrancano sulla tonicità dei quattro: nuno pennella evoluzioni vorticose con le sue dita smaltate di nero, Gary sfodera una voce tonica e spavalda, non risparmiando nulla quanto a dinamismo e interazione. La scenografia è ridotta al minimo, con il solo fondale rappresentante la copertina del disco di quest’anno a incorniciare i musicisti. Pat Badger tende a starsene più per conto suo, partecipando in modo più sornione allo spettacolo messo assieme da Cherone e Bettencourt.
Le prime canzoni scorrono via a velocità fulminanti, “#REBEL” è il primo estratto del nuovo disco ad avere onore e onere di mettersi in mezzo ai classici più noti. L’effetto è oltremodo positivo, la marmorea conformazione di quanto ottenuto in studio di registrazione si apre lievemente a qualcosa di più emotivo e meno rigido, senza che si perda nulla quanto a pesantezza e animosità. Le reazioni sono comprensibilmente più composte in questo caso, mentre la tensione non va calando, facendoci restare su un clima di beata esaltazione che si dissolverà solo quando giungeremo ai saluti.
“Rest In Peace” e “Hip Today” proseguono nel climax emozionale, quindi Cherone va a fare un po’ di amarcord, annunciando un medley di canzoni che molti neanche ricorderanno, a suo dire. Ci immergiamo allora nel clima tardo-ottantiano, spensierato e ingenuo nell’eponimo esordio, per un mix di brani che qualche spazio in più in scaletta, almeno a intermittenza, lo meriterebbero: “Teacher’s Pet”, “Flesh ‘n’ Blood”, “Wind Me Up” e “Kid Ego” vengono legate assieme per un breve spaccato del tempo che fu, estemporaneo quanto estremamente piacevole a udirsi.
Anche in questo caso, si nota un relativo affievolimento della spinta del pubblico, comprensibilmente diviso tra chi conosce proprio tutto quanto a menadito della band, e chi ha nel cuore soprattutto le fasi più celebri della carriera. Con “Play With Me” (questa invece eseguita integralmente) abbiamo uno dei momenti più inebrianti della serata, con voce e strumenti a rincorrersi in una cavalcata tipicamente ottantiana, per luminosità delle melodie, spensieratezza e un alternarsi divertito delle voci che dopo quegli anni sarà sempre più raro risentire.
È una scaletta che fa dell’eterogeneità la sua forza e che ci fa passare da un flusso emotivo all’altro, senza troppe pause e lasciando che tutte le peculiarità sonore vengano a galla e abbiano il loro spazio. Peccato soltanto – e sarà questa l’unica costante negativa dell’esibizion – che in molti preferiscano prestare maggiore attenzione a quanto stanno riprendendo con i loro cellulari, invece di godersi il concerto. All’altezza delle toccanti parentesi acustiche, vale a dire “OTHER SIDE OF THE RAINBOW”, “Hole Hearted” e più avanti “More Than Words”, saremo immersi in questa specie di distopia contemporanea, per la quale conta più il poter raccontare di esserci stati, a un evento, piuttosto che abbracciarne tutta la sua bellezza: in poche parole, si faticherà a intravedere ciò che avviene sul palco, se non miniaturizzato da quello che stanno filmando con mano malferma dinnanzi a noi.
Ci sono diverse istantanee che rimarranno in memoria, dal medley iper-vintage di “Take Us Alive” assieme a “That’s All Right”, a una “BANSHEE” dedicata con una certa ironia a tutte le donne (e introdotta da un accenno a “Fat Bottomed Girls” dei Queen), e ovviamente “More Than Words”, cantata all’unisono dall’intero Alcatraz, qualcosa che dà un brivido anche se si sa perfettamente che andrà così e anche se, come chi scrive, questo non è esattamente il pezzo più amato degli Extreme.
Quando Nuno si mette a suonare in solitaria “Flight Of The Wounded Bumblebee” è sommerso da un tifo da stadio, ripagato da un campionario di virtuosismi spettacolari e pirotecnici. “Get The Funk Out” in altri tempi avrebbe fatto esplodere in un bagno di salti e sudore, oggi si filma, ma l’effetto complessivo rimane eccellente. Nei bis c’è ancora spazio per il bel medley “SMALL TOWN BEAUTIFUL/Song For Love” – introdotto da un breve omaggio di Bettencourt a Eddie Van Halen, con un accenno di “Women In Love” – e una massiccia “RISE”, che si conclude al rintocco delle due ore di show. I battimani al termine sembrano non finire mai e i musicisti lasciano il palco con dispiacere, salutando e ringraziando a profusione, per una serata davvero stupenda, sia per chi stava sul palco, sia per chi era dall’altra parte.
THE LAST INTERNATIONALE
EXTREME