A dispetto di un’estate non certo entusiasmante, caldo, clima torrido e Sole spaccapietre hanno accompagnato la giornata del 9 agosto, data prescelta per il Faust Extreme Fest, festival di sempre crescente profilo artistico che ha visto, in questa sua quinta edizione, ben dieci band accompagnare l’unica data italiana in sei anni di una delle realtà più fondamentali del nostro genere prediletto: i Venom! Metalitalia.com non ha perso quindi l’occasione per assistere ad una delle date clou dell’estate metallica in corso, presenziando ad un evento riuscito e popolato da un’ottima affluenza di pubblico.
OLTRETOMBA
Essere opener di un evento caratterizzato dalla presenza di così tanti gruppi in una sola giornata, porta gli Oltretomba ad esibirsi verso le 13 di pomeriggio, orario non certo ottimale sia per il loro intransigente black metal minimale, sia per il pubblico già presente sin dall’apertura dei cancelli, incredibilmente numeroso se si pensa all’ora in cui il Faust ha avuto inizio. Forse spinti anche da questa insperata popolosità del The Jungle, gli Oltretomba rompono gli indugi senza tanti complimenti, come loro solito del resto, aggredendo alla gola con molti dei brani che sono andati a comporre il loro debut album “THE DEATH – Schieràti Con La Morte”. L’impianto di cui è dotata la location si assesta certamente su ottimi livelli qualitativi, ma sulle prime devono ancora essere sistemati i settaggi generali e messe a punto gli ultimi accorgimenti sui suoni, che certo non aiutano la prestazione del duo abruzzese, già di suo dotata di un sound raw e grezzo oltremodo. La qualità dei brani fortunatamente parla da sola, e nella mezz’ora circa a loro disposizione, i due blackster “scaldano” egregiamente la crescente platea, a suon di riff a cavallo tra il proto-black metal dei Celtic Frost, il black’n’roll dei Darkthrone ed una scenicità ritualistica e misteriosa purtroppo un po’ offuscata in questo contesto.
WHISKEY RITUAL
Tocca quindi alla temibile cricca di Dorian Bones occupare il palco del The Jungle, caricando l’atmosfera del clima goliardico e tragicomico che contraddistingue il gruppo sin dai suoi esordi. La materia trattata è una letale commistione del black metal più lezzo e “danzereccio” insieme ad un attitudine ed un riffing di pura natura punk, che nella pratica si traduce in un lotto di brani dall’immediata presa scenica e dal forte coinvolgimento, come una tossica e malsana festa fatta di soldi, puttane e qualsiasi tipo di sostanza illecita sia possibile assumere, vero e proprio credo artistico e spirituale del corpulento frontman emiliano. Il basso sulla sinistra pulsa e rimpie a dovere, così come la prima chitarra di Andrea Ponzoni, sorta di mastermind del progetto, che sciorina riff ed assoli eseguiti con semplicità, ma con grande competenza e presenza scenica. Anche il drumming si dimostra perfetto per la musica scanzonata degli strumenti a corde, eppure preciso e dotato di finezze non comuni in questi ambienti, dimostrando nel complesso l’assoluta professionalità che i Whiskey Ritual portano sul palco, oltre ad ettolitri di birre e tanta simpatia. “Black’n’Roll”, “In Goat We Trust” o “One Million” sono solo alcuni dei pretesti utilizzati da Dorian Bones per latrare senza pietà verso un pubblico entusiasta delle loro malefatte, “scosso”, nel senso letterale del termine, dal cantante che sul finale scende dal palco per un contatto “alla GG Allin” con i malcapitati delle prime file! Grande presenza, ottima risposta e, cosa più importante, canzoni ficcanti e di qualità caratterizzano questa nuova esperienza dei Whiskey Ritual in territorio toscano, rinvigorendo ulteriormente il legame tra la scena metal locale e le scorribande dei cinque blackster emiliani.
VOIDS OF VOMIT
Si cambia decisamente registro con il terzo gruppo, spostandosi verso quei territori pienamente death metal che in vari frangenti hanno reso più inaspettato e variegato il bill del Faust Extreme Fest. I primi esponenti del genere a calcare il palco sono i Voids Of Vomit, realtà italiana attiva da oltre un decennio e molto seguita dai cultori del death metal italico, nonostante non siano presenti uscite di lunga minutaggio a nome del gruppo. Guidati dal profondo growl di C.O. Void, veniamo scaraventati in un putrido mondo fatto di doppia cassa e tempi in levare, riff plettrati allo sfinimento e l’immancabile “suono-motosega”, iconico segnale della reverenza che il gruppo bresciano paga verso i primordi nord-europei del genere. Nonostante siano presenti ben 2 membri della band emiliana Hateful, autrice di un death metal tecnico di scuola americana, la bravura con gli strumenti passa in questa sede in secondo piano, lasciando via libera ad una serie di composizioni certamente basate molto su suono ed impatto, poco invece sulla struttura e la varietà dei singoli brani: in alcuni momenti, sembra quasi che le varie canzoni siano solo degli ottimi pretesti per rifilare al pubblico riff più ignoranti e convinti possibili, tralasciando però poi lo svolgimento generale del pezzo nel suo complesso. Anche la batteria non sembra picchiare come dovrebbe, svolgendo un lavoro preciso e senza grandi errori, ma poco coinvolgente. In ogni caso, una prestazione non eccezionale ma che si inserisce a pieno titolo in un settore, quello old-school death metal, poco incline alla forma e molto concentrato sulla sostanza.
DEADLY CARNAGE
Siamo nelle ore più calde della giornata quando arriva il turno dei Deadly Carnage, e molti dei presenti cercano un po’ di refrigerio nelle poche zone d’ombra del The Jungle, abbandonando momentaneamente la zona davanti al palco: la situazione quindi, si preannuncia subito in salita per i post-blackster di Rimini, autori peraltro di un genere che, secondo noi, poco si adatta ad un festival open air e soprattutto a questi orari. Autori di tre full-length usciti tra il 2008 ed oggi, i Deadly Carnage presentano oggi diversi estratti dall’ultimo, fortunato, “Manthe”, dando vita ad una prestazione intima ed emozionale, non priva però di alcune pecche soprattutto nella resa sonora. I suoni “soffici” e poco invasivi che rendono peculiare il loro operato infatti, si rivoltano oggi contro i loro stessi esecutori, che di fronte ai grandi spazi di cui è dotato il festival, perdono decisamente di impatto rispetto alle altre band. A livello esecutivo, niente da dire sulle sognanti atmosfere delle chitarre ed i coinvolgenti giri di basso ad opera di Adres, mentre abbiamo trovato più ispirato e coinvolgente in altre circostanze l’apporto vocale di Marcello, un po’ strozzato in alcune screaming vocals. A mancare palesemente insomma, è un contesto consono alla musica dei Deadly Carnage, che forse poco incitati dai presenti, finiscono per svolgere il proprio compito con poca convinzione e rendere i brani presentati “solo” interessanti, ma privi di quella magia evocativa di cui sappiamo capaci questi cinque ragazzi e la loro musica, come comunque dimostrato a sprazzi dalla ottima “Dome Of The Warders”, certamente l’highlight assoluto della prestazione odierna e non solo.
DIE HARD
Ci pensano i Die Hard, direttamente dalla Svezia, a ridestarci dal torpore precedente, e lo fanno a suon di verace e sguaiato death-thrash europeo, una formula ancora inaudita in questa grande giornata di metal underground. Il tiro sprigionato dal terzetto è davvero incontenibile, e con il passare dei minuti il feedback iniziale già buono si trasforma in una vera venerazione da parte dei presenti, che tornano felicemente a pogare sulle note dei Dia Hard. Nel corso dei 40 minuti a loro disposizione, non assistiamo certo a mirabolanti peripezie tecniche, variazioni di stile o ritornelli ficcanti e melodici: il “tupa tupa” di E.L., in forze peraltro a realtà di prim’ordine come Ondskapt e Nifelheim, è costante e senza pietà, impedendo di trovare posa e costringendo ad un continuo scapeggiamento durante le canzoni, mentre un ubriachissimo Harry al basso e alla voce, aggiunge colore ai brani di “Conjure The Legions” e “Nihilistic Vision”, i due album usciti fino ad oggi a nome degli svedesi. Talvolta, viene concessa qualche variazione sul tema grazie a stacchi e momenti più distesi che hanno l’esplicito compito di caricare ulteriormente gli astanti prima della successiva scarica di thrash metal, perfetta per il massacro sotto stage: una formula quindi già ben nota e rodata da molte realtà “da palco” europee, ma impeccabilmente interpretata anche dai Die Hard che, da prima band estera presente al Faust, fa notare la grande esperienza sulle sue spalle ed i numerosissimi tour che i tre svedesi hanno sostenuto in questi ultimi anni. Una band da pochi complimenti, poche moine e molta, moltissima sostanza, sempre fondamentalmente uguale a sé stessa ma incorreggibile e, proprio per questo motivo, tremendamente coinvolgente.
CORPSEFUCKING ART
Il metallo della morte torna prepotentemente protagonista non appena i Corpsefucking Art irrompono sul palco per il tempo a loro disposizione: assenti dalle uscite discografiche per diverso tempo, i Nostri sono tornati quest’anno con il nuovo “Quel Cimitero Accanto Alla Villa”, pubblicato pochi mesi fa per Sevared Records, nonché una nuova formazione che vede tra le sue fila alla seconda chitarra, e per la prima volta on stage, Mario Di Gianbattista, già visto all’opera con Devagelic e Vulvectomy. A colpire immediatamente infatti, è la curiosa amalgama che creano i due chitarristi grazie ad uno stile ed un approccio abbastanza differenti: mentre Di Gianbattista è dotato di un tocco moderno, “freddo” e molto preciso, che va ad esaltare le partiture più veloci e brutali presente nei pezzi, l’altra ascia e membro fondatore Andrea Cipolla da sfogo all’anima più “old-school” di cui vivono i Corpsefucking Art, per un risultato finale convincente su tutti i fronti. Tra le nuove composizioni, “Sympathy For The Zombie” è forse quella che meglio esemplifica il concetto di groove inserito in dinamiche death ottimamente dimostrato dal nuovo album di recente uscita, mentre i brani di “Zombiefuck”, “War Of The Toilet Gear” e “Splatter Deluxe” scelti per l’odierna scaletta, danno libero sfogo ai blast-beat ostinati tanto amati dai passionisti di questo genere. Batteria e soprattutto voce, entrambi presi in prestito direttamente dai Southern Drinkstruction, svolgono egregiamente il loro compito, con il secondo davvero sugli scudi nel vomitare con tonalità a dir poco gutturali tutte le sarcastiche splatter lyrics di cui si compongono i testi dei Corspefucking Art. In definitiva, una band che mette in mostra tutta l’esperienza maturata in 20 anni di carriera senza particolari trovate sceniche o dichiarazioni altisonanti, ma “solamente” con tantissima dedizione ed una conoscenza della propria materia davvero encomiabile.
DOOMRAISER
Il sole comincia a calare sul The Jungle di Cascina proprio durante l’esibizione dei Doomraiser, come se le loro tonalità misteriose ed ombrose avessero influenzato conseguentemente anche le condizioni atmosferiche del posto. Ancora una volta, si cambia decisamente registro con la band romana e con il loro classic doom metal macchiato di elementi psichedelici e ritualistici, una sorta di unione tra l’operato seminale dei Black Sabbath e le progressioni più vicine a noi nel tempo che hanno fatto la fortuna, soprattutto in terra d’Albione, di acts come Electric Wizard, Cathedral ecc. Bastano poche battute iniziali per capire che la band fa davvero sul serio, interpretando il genere con assoluta serietà e dedizione, evitando il tenore strafottente, spesso foriero di scarsa qualità, adottato fin troppo spesso da altre band di questo tipo. Il livello dei Doomraiser invece è davvero notevole, a cominciare dalla resa sonora, senza ombra di dubbio la più pesante, avvolgente e massiva dell’intera giornata: gran parte del merito in questo senso va certamente alle quattro corde di Andrea Caminiti, dotato di un sound oppressivo, distorto, ma al contempo perfettamente intellegibile e chiaro. La coppia d’asce dal canto loro, suddivide con merito e gusto la parte ritmica da quella solistica, ad opera principalmente di Marco Montagna, che arricchisce il carico complessivo con solos pentatonici tanto semplici quanto dannatamente efficaci ed evocativi. La batteria suona essenziale ma assolutamente sul pezzo, prendendo a schiaffi la platea ad ogni colpo di rullante, mentre poche parole possono descrivere efficacemente le sensazioni che la voce di Nicola Rossi riesce a veicolare: vero mattatore da palco, il riccioluto cantante sfodera una prestazione vocale sopra le righe, grazie ad una intonazione, una interpretazione ed un’abilità nel cambio di registri davvero stupefacente: i lunghi brani dei Doomraiser vengono infatti perfettamente gestiti dai suoi creatori, e grazie all’abilità del cantante, non viene mai meno una certa vena narrativa che impedisce di perdere il filo del discorso e cadere vittima della noia che spesso rischia di ammantare proposte di questo genere. A questo punto, speriamo solo che la band romana riesca finalmente a fare il grande salto in termini di popolarità e riscontri, siamo sicuri si tratterebbe di un risultato più che meritato.
SOFISTICATOR
Non lasciatevi ingannare dalla giovane età o dal tono dimesso e “caciarone” dei cinque thrasher toscani: i Sofisticator hanno intenzioni ed ambizioni da primi della classe, ed il costante girovagare live degli ultimi anni, con un sempre crescente numero di estimatori e veri e propri fan raccolti in giro per l’Italia, lo ribadiscono ampiamente. Da veri local heroes, i Sofisticator vengono accolti con grande entusiasmo al loro arrivo sul palco, giustificando in parte l’inspiegabile posizione privilegiata nel bill, successiva a band molto blasonate e più longeve come appunto Doomraiser e Corpsefucking Art, col grande affetto ed interesse che il pubblico nutre nei loro confronti, trasformatosi in entusiasmo da pogo già dalle battute iniziali della loro prestazione, corrispondente a “Sofisticator”, vera e propria dichiarazione di intenti e manifesto artistico della band. Analizzando lo stile proposto dai Nostri, potremmo azzardare un incestuoso menage tra la scuola europea, soprattutto tedesca, nel rifferama, unita ad un immancabile tributo ai grandi thrasher americani facilmente riscontrabile nelle strutture complesse e negli arrangiamenti non banali riscontrabili nel debut “Camping The Vein” e ancor più, nelle nuove tracce presentate oggi live. Del vecchio repertorio colpiscono nel segno la vivace titletrack, “Ivo The Woodman” (sorta di tributo nel riff iniziale alla leggendaria “In League With Satan” che sentiremo qualche ora dopo!!) e “Burger Hell”, dotata di una parte finale che non avrebbe sfigurato su “Agent Orange” dei Sodom. Come detto, le nuove “M.C.S.” e “Great Strike” sono quelle che offrono maggiori variazioni alla portata principale, con la seconda contenente addirittura uno stacco in pulito che, a livello vocale ma non solo, mostra ancora margini di miglioramento per i cinque toscani. In ogni caso, i beat forsennati di Crudelio Von F?st, le ritmiche e gli assoli al fulmicotone della coppia Popi/Don Hammier (l’uno più veloce, l’altro più tecnico), le vocals acide e grattate di Dissossator ed il basso urticante di Atomik Bahnhof rinverdiscono con successo il periodo d’oro del miglior thrash d’annata, riproponendo stilemi ormai classici con un attitudine ed alcuni accorgimenti ben piantati nel presente.
HOBBS ANGEL OF DEATH
Continua la scorpacciata thrash metal anche con il gruppo successivo, capitanato dal veterano Peter Hobbs alla chitarra ritmica ed alla voce, sorta di istituzione pluridecennale del settore. Autore di un album omonimo nel lontano 1988, e di un seguito meno ispirato a nome “Inheritance” targato 1995, il Nostro è a tutti gli effetti un “die hard” della vecchia scena anni ’80, pur avendo certamente raccolto meno gloria e successo dei suoi illustri colleghi europei ed americani. Lo stile proposto dal combo si avvicina vistosamente all’attitudine battagliera e nervosa perfettamente incarnata dagli Slayer, pur contenendo all’interno di diverse canzoni arpeggi e stacchi atmosferici che caricano l’atmosfera generale di tesa oscurità, andando in questo a differenziarsi dalla band di Kerry King e somigliando piuttosto a quanto sentito sugli album di Dark Angel o, per la furia iconoclasta messa in campo, agli stessi Venom di Cronos. In ogni caso, Peter ed i suoi “gladiators” mettono in scena uno spettacolo di tutto rispetto, intenso e memore delle grandi performance degli anni d’oro di questo genere, sparando una dopo l’altra le cartucce migliori del suo repertorio: “Brotherhood”, “House Of Death”, “Marie Antoniette” e l’immancabile “Satan’s Crusade” vengono accolte con crescente entusiasmo dal pubblico, per metà ormai avvezzo alle calate italiane dell’australiano nell’ultimo periodo, per metà stupito nel ritrovarsi di fronte ad una realtà così agguerrita ed incazzata e non averne prima d’ora sentito parlare a dovere. Simon, già visto alla chitarra in precedenza con i Die Hard, aggiunge alla ricetta una buona dose di assoli veloci e convulsi, Alessio Medici non va tanto per il sottile al basso arando le orecchie dei presenti, mentre Iago Bruchi dietro le pelli pesta come un dannato per tutta la durata dell’esibizione, ricordando per foga e tiro un certo Dave Lombardo dei primi tempi. Peter, dal canto suo, si sgola come un demone al microfono ed alla prima chitarra, interagisce col pubblico, suda e si sbatte come un giovane ragazzo in preda ai primi entusiasmi da palco, senza lesinare nemmeno una goccia di sudore per il suo show. La tecnica messa in mostra non sarà eccelsa, e gli Hobbs Angel Of Death non raggiungeranno forse il successo dei loro illustri colleghi, ma poter vedere sul palco la dedizione, la passione, la vera e propria fede che spinge Peter ed i suoi a girare il mondo con il loro bellicoso thrash metal non può far altro che convincerci e far promuovere la band a pieni voti.
ARCHGOAT
Le tenebre sono ormai calate da tempo quando il trio più temibile della giornata occupa il palco per il suo macabro ed oscuro rituale metal: gli Archgoat rappresentano certamente il momento più blasfemo, estremo ed ingiurioso di tutta la manifestazione ed i giudizi in merito alla loro esibizione saranno molteplici e discordanti. Per alcuni, si tratterà solamente di un concerto cacofonico e privo di senso, dove la musica viene sacrificata inutilmente ad un estremismo paradossale e forzato, mentre per altri sarà uno dei momenti più intensi e riusciti del Faust Extreme Fest: obbiettivamente, crediamo che la realtà si ponga nel mezzo a queste due opposte visioni, nel senso che davvero i tre mettono in atto una blasfemia sonora poco chiara e molto “rumoristica”, ma che stia proprio in questa ferocia senza pietà il valore e la bellezza del trio finlandese. Del resto, chi segue da tempo il filone war/black metal di cui gli Archgoat, insieme a Black Witchery, Revenge e Blasphemy rappresentano la punta di diamante, non potrà che apprezzare l’operato dei fratelli Lord Angelslayer/Ritual Butcherer, che riescono a richiamare per l’occasione un buon numero di fanatici legato a questo particolare segmento del metal estremo. Non ci sono parole introduttive, ne dialoghi e scambi di battute con il pubblico, gli Archgoat non sono affatto interessati a questo: il loro unico fine, il loro unico obbiettivo, stasera come tutti i 25 anni della loro carriera, è la totale adorazione messa in “musica” del maligno, poco importa se questo è ben accetto o meno ai presenti della serata. Questo naturalmente rende indigesti i loro brani ai meno avvezzi a questa filosofia artistica, nonostante il risultato venga raggiunto egregiamente durante la loro performance. Gli estratti dai due full-length “Whore Of Bethlehem” e “The Light-Devouring Darkness”, si susseguono agli altri tratti dalla loro sterminata discografia minore fatta di EP, demo e tantissime collaborazioni in Split Album, raggiungendo il totale annichilimento dei presenti. Vista la posizione da co-headliner in scaletta, ci saremmo aspettati uno show più partecipe e soprattutto più lungo dagli Archgoat, che abbandonando il palco troppo presto rispetto alle aspettative dei loro estimatori; come detto però, non ci sono velleità di empatia da parte dei tre musicisti e non appena ritenuto sufficiente il massacro messo in atto, lasciano il palco senza saluti e senza proclami, esattamente così come erano arrivati.
VENOM
Giusto il tempo di riprendersi dalla botta malefica degli Archgoat, che cominciano i preparativi per lo stage degli headliner della serata, gli storici Venom from the U.K.! La presenza di pubblico durante tutta la giornata è stata sicuramente incoraggiante, ma poco prima dello show degli inglesi il parco del The Jungle viene letteralmente invaso da un’orda di persone accorse esplicitamente e solo per la performance di Cronos, Rage e Dantè, finendo per riempire in ogni suo spazio la location dell’evento! Anche il colpo d’occhio è davvero impressionante, vedere un festival di questo genere registrare il sold-out è un risultato ottimo per la scena italiana, nonché un ottimo incentivo per la band a dare il 100% per la loro esibizione. Ed infatti non potremo certo ritenerci insoddisfatti al termine del concerto, grazie ad una prestazione maiuscola da parte dei tre. Le emozioni non tardano ad arrivare comunque, già dall’intro della prima canzone il cuore di circa mille persone inizia a battere allo stesso tempo: si tratta infatti di “Black Metal”, più che una canzone un vero e proprio inno del metal, scelta a sorpresa come apripista della setlist. Il pubblico saluta i suoi beniamini con un unanime boato che riempie il cielo di Cascina, prima di ripartire a testa bassa con “Hammerhead”, un rapido medley di “Bloodlust” e “Black Flame”, “Buried Alive” e “Antechrist”, accolte con entusiasmo e suonate dal trio con una maestria da veri signori del metal. Del resto, la formazione attuale dei Venom è ormai rodata da diversi anni di tour ed un paio di pubblicazioni ufficiali, baciata da un affiatamento ed una comunione di intenti definita dallo stesso Cronos come “la migliore mai vista nei Venom da molti anni a questa parte”. Dantè alla batteria, oltre a non perdere un colpo sul drumkit, dà scena con giochi di bacchette e movenze da rockstar, mentre il timido Rage sfodera sul palco un audacia che gasa ed incita gli spettatori. C’è spazio persino per una canzone nuova di zecca, dal titolo “Rise”, presentata in semi-anteprima per il pubblico italiano, che rimane invero un po’ interdetto dallo stile più moderno della composizione, rispondendo timidamente alle incitazioni di Cronos sul ritornello, così come fomentano meno le più recenti “Pedal To The Metal” e “Resurrection”: indubbiamente, il cuore dei presenti è stato rapito dalle prime pubblicazioni dei Venom, ed è proprio sulle canzoni di questi album che la reazione è più sentita e calorosa. Fortunatamente, c’è ancora il tempo per “Welcome To Hell”, “Leave Me In Hell” ed un encore al cardiopalma rappresentato da “In League With Satan” e “Witching Hour”; canzoni immortali, entrate di diritto nell’immaginario collettivo di ogni metallaro vecchia scuola e non solo, vista la nutrita presenza di persone under 40 in tutta la giornata e specialmente nello show degli headliner. Nel complesso quindi, i Venom non hanno assolutamente tradito le aspettative, dimostrandosi ancora assolutamente competitivi rispetto alle nuove realtà del settore: qualche clamorosa assenza in setlist ed un numero abbastanza corposo di nuovi brani sono le uniche ombre su di una prestazione veramente memorabile, mentre nel complesso non possiamo che giudicare con un pollice in alto l’intero svolgimento del Faust Extreme Fest, ancora migliorabile sotto alcuni aspetti organizzativi ma mai come quest’anno riuscito e affollato da una fitta popolazione metal proveniente da tutta Italia.