A cura di Marco Gallarati
Foto di Barbara Francone – Roadrunner Records (www.roadrunnerrecords.it)
A soli sei giorni dall’appuntamento targato Soulfly, un’altra band della scuderia Roadrunner fa capolino in quel di Milano, al solito Rolling Stone. Rispetto alle (ottimistiche) previsioni, il richiamo dei cyber-metaller multietnici Fear Factory sul pubblico milanese, anche alla luce del responso non troppo entusiasta dell’ultimo “Transgression”, è minore di quanto ci si sarebbe aspettati. Non crediamo, però, che la vicinanza cronologica dello show di Max Cavalera e compagni abbia influito più di tanto sulla presenza (o meno) dei fan delle due band, in quanto le tipologie di audience che Fear Factory e Soulfly attirano sono piuttosto distanti fra loro: i primi restano più fedeli al classico metallaro duro e puro, mentre i secondi possono contare anche su una buona base di estimatori cosiddetti “alternativi”. Probabilmente, la causa del mancato “pienone” è proprio da attribuire alla fredda accoglienza tributata all’ultimo lavoro della Fabbrica della Paura, certo diverso e più complicato da assimilare di ogni loro precedente pubblicazione. Comunque sia, dopo aver girovagato un buon quarto d’ora alla ricerca del parcheggio, praticamente introvabile in una frizzante domenica alle porte della primavera, si arriva nel locale quando i Misery Index sono da poco saliti sul palco…
MISERY INDEX
Notevole e di sicuro impatto la prestazione del gruppo di supporto, i grind-deathsters Misery Index, prossimamente allo scoperto – uscirà a maggio – con il nuovo full-length album, intitolato “Discordia”. La band dell’ex-Dying Fetus Jason Netherton si è dimostrata sicurissima di sé e molto preparata tecnicamente, investendo gli astanti con una valanga di note brutali e, spesso, cadenzate. Il drumming di Adam Jarvis ha letteralmente spazzato via ogni dubbio sulla validità live della formazione di Baltimora, ben supportato dall’assalto sempre vivo e vario della coppia di chitarre (e poco importa se queste ultime non hanno usufruito di un perfetto sonoro). Ovviamente è stato proposto qualche nuovo, futuro brano, ma i Misery Index hanno spaziato lungo tutta la loro discografia, offrendo, fra l’altro, “Retaliate”, “The Imperial Ambition” e “Manufacturing Greed”, nonché la cover di “Dead Shall Rise” dei Terrorizer. Prova più che buona, per una formazione interessante, perfetta nel ruolo di opening-act dei Fear Factory. Pochi si sono mossi nel pit, rapiti dalle scariche di blast-beat di Jarvis, ma certo, a fine performance, la carica accumulata dentro e la voglia di sfogarsi sono alla temperatura di ebollizione!
FEAR FACTORY
Un laborioso cambio palco ci porta lentamente all’inizio dell’esibizione degli headliner. Burton C. Bell, Raymond Herrera, Christian Olde Wolbers e Byron Stroud devono dimostrare di essersi tolti di dosso l’ingombrante (in tutti i sensi) fantasma di Dino Cazares, impresa finora poco riuscita, se si considera che il fenomenale “Archetype” altro non é che un disco dei Fear Factory vecchia maniera (e meno male!), scritto appositamente per riportare la band ai fasti del passato, e che “Transgression” sembra non colpire ancora nel segno. Ma tant’è…nessuno spazio per rimpianti e inutili critiche, la band è ora compatta e coesa e sul palco l’aggressione non viene certo meno: i ragazzi attaccano con “540,000° Fahrenheit” e, subito dopo, proprio “Transgression”, due pezzi che generano una buona reazione fisica nel pit, ondeggiante in un pogo non indiavolato ma ben deciso. Accontentando tempestivamente un’audience che aspettava solo questo, il seguente sestetto di canzoni è semplicemente devastante! Nell’ordine, vengono eseguite: “Slave Labor”, “Demanufacture”, “Self Bias Resistor”, “Zero Signal”, “Shock” ed “Edgecrusher”, praticamente il sale della discografia del gruppo. Le atmosfere dei pezzi tratti dal masterpiece “Demanufacture”, grazie ai sample registrati, sono identiche a quelle delle versioni in studio, e solo la voce di Burton non sembra propriamente all’altezza, altalenante e un po’ indecisa (pecca che il singer non riuscirà a correggere neanche nel proseguo del concerto). La situazione fra le prime file è particolarmente calda, soprattutto “Shock” sembra esser stata accolta con feroce entusiasmo. Ci si “rilassa” con la semi-ballad “Descent” e la robotica “Drones”, fino all’arrivo del più vecchio classico della band, l’ottima “Martyr”. Al grido di “suffer, bastard!”, la canzone riscuote buon successo, pur essendo datata alquanto, segno che i Fear Factory devono la loro fama – aspetto che li accomuna a molte altre band storiche – più al loro passato che al loro presente. E l’annuncio di “Contagion” ne è ulteriore dimostrazione…dato proprio mentre il pubblico, con una monotonia sconfortante, chiedeva già “Replica”, il nuovo brano è stato accolto da un imbarazzante silenzio di tomba. Ci si è ripresi con “Pisschrist” e con l’hit “Linchpin”, seguiti dall’esecuzione più apprezzata dal sottoscritto, ovvero quella della pesantissima “Acres Of Skin”. La stanchezza dei “pogatori” ha purtroppo iniziato a farsi sentire nel momento forse più indicato alla pratica da loro preferita, ovvero quello dell’attacco frontale di “Cyberwaste”, ben eseguita dai quattro sul palco. Lo show volge così verso il termine…Burton e gli altri fanno brevi pause dopo ogni brano, lasciando al solo frontman il compito di interagire verbalmente con gli spettatori; Stroud e Olde Wolbers elargiscono sorrisi e headbanging vario, mentre Herrera (chi l’ha visto?) è stato rintanato dietro al drumkit per tutto lo spettacolo. A chiudere la performance, ecco arrivare “Archetype” e l’osannata “Replica”, cantata praticamente da tutto il pubblico. A questo punto, la maggioranza dei presenti si sarebbe aspettata “Resurrection” o almeno un bis violento e massacrante…e invece no! L’angolo del bis si compie nella semi-oscurità, con il solo Burton e i campionamenti ad interpretare “Timelessness”, l’apocalittica chiusura di “Obsolete”. Delusione nell’80% degli astanti, sorpresa nel restante 20%. Comunque, una chiusura atmosferica, giusta e originale. Bel concerto, quindi, a parte qualche calo vocale nel pulito del singer americano. Setlist completa, equilibrata e di notevole intensità. Risposta del pubblico buona. Il fantasma di Dino non se ne va ancora, ma i Fear Factory sono vivi e vegeti. Loro sì!