Report a cura di Edoardo De Nardi
Fotografie di Enrico Dal Boni
Dopo il grande successo dei Foo Fighters, sono alte le aspettative in merito alle performance della seconda giornata di concerti, coronata dalla presenza sempre suggestiva di Axl Rose e della sua leggendaria band. I numerosi presenti ad entrambe le giornate hanno avuto modo di assaggiare per pochi minuti la presenza movimentata dei loro beniamini sul palco anche con Dave Grohl la sera precedente, per una fulminea cover di “It’s So Easy”, ma per la maggior parte di questo pubblico l’attesa e ancora tutta da soddisfarsi. La line-up della giornata prevede inoltre la presenza di Baroness e Volbeat, nomi noti nella scena metallica che rendono ancora più succulento il piatto proposto per tutta la giornata del venerdì.
THE PINK SLIPS
Stilisticamente, i The Pink Slips non avrebbero sfigurato nella giornata precedente, visto che anche la loro proposta gira attorno ad una concezione rock piuttosto latente, impantanata in beat elettronici ed attitudine indie dalla dubbia realizzazione. Tutti gli occhi sono puntati sulle movenze sgraziate ed eccessive di Grace McKagan, figlia del famosissimo biondo bassista dei Guns ed unica intrattenitrice di una platea ancora intenta a fare i conti con il caldo estenuante che assale oggi il prato delle Cascine. L’accoglienza verso la band quindi rimane sulle prime abbastanza impacciata, nonostante che, con il progredire dei minuti, la scelta di qualche buona hit in scaletta cominci ad attirare i primi temerari sotto il palco, permettendo alla band di lasciarsi andare un po’ di più. Con un pelo di malizia, ci si potrebbe chiedere quanto abbia influito l’aiuto del padre nell’inserire questa band come apertura ai Guns’n’Roses, ma, tralasciando questi condizionamenti, si assiste in effetti ad un concentrato ancora un po’ acerbo di momenti melliflui ed altri di maggiore tensione per una fusione che, con le giuste misure, si lascia seguire con piacere. Apprezzabile in questo senso il tormentone “Trigger”, momento clou della breve scaletta a disposizione; mentre ancora tanto deve essere fatto nel cercare un contatto emotivo, per quanto volutamente schivo, con gli ascoltatori del concerto.
BARONESS
Reduci da una data da headliner a Bologna il giorno prima, i Baroness arrivano sul palco di Firenze in versione accorciata, limando la scaletta verso il nuovo materiale ed esaltando quindi di conseguenza la componentistica più ragionata ed evoluta del loro sound, per un risultato onesto e soddisfacente. E’ la prima volta che si assiste all’avvicendamento alla chitarra solista e alle seconde voci di Gina Gleason, sostituta del carismatico Peter Adams: dobbiamo ammettere che la ragazza si fa carico di una doppia prestazione di sostanza, accompagnando i suoi fraseggi alla chitarra ora con voci delicate, ora tirando fuori uno scream graffiante che ricorda ancora il passato stoner con cui la band di Savannah è salita alla ribalta ormai qualche anno fa. “The Sweetest Curse” tra le prime ed “Isak” come brano finale presentano certamente alcune delle ritmiche più martellanti sentite fino ad adesso durante l’intero festival, e sembra crearsi un clima di positiva tensione durante l’esecuzione di questi brani sul palco. Ad ogni modo, i molti estratti dal “periodo giallo” e il “periodo viola”(riferendosi ai titoli delle loro ultime fatiche in studio) testimoniano la svolta progressive intrapresa con entusiasmo da John Baizley negli ultimi anni, che porta la Baronessa a proporre una setlist poco incentrata su rabbia e distorsioni, quanto piuttosto sullo studio certosino di progressioni e cambi armonici poco convenzionali. Da questo punto di vista, gran parte del lavoro ricade sulle spalle di Nick Jost, poliedrico bassista, pianista e compositore della band, che si incarica anche del lavoro ai sintetizzatori durante l’esibizione, spostando la memoria verso i gloriosi anni ’70. Del frontman Baizley, alla fine, rimane una voce sbiadita e precisi accompagnamenti alla chitarra, ma la sua energia e lo sguardo felice, grato verso la platea della Visarno Arena bastano a testimoniare il sentimento con cui viene portato avanti questo progetto, non del tutto adatto forse a contesti come questo, ma assolutamente valido per qualità e sentimento dimostrati.
VOLBEAT
A giudicare dalla presenza di magliette, ciuffi all’indietro e tatuaggi american old school marchiati sulla pelle di tanti dei presenti, il nome dei Volbeat deve aver rappresentato per molti più che un semplice riempitivo in attesa delle star della serata, quanto piuttosto un motivo già di per sé valido per presenziare con entusiasmo a questa seconda giornata di Firenze Rocks. Inutile sottolineare quanto, soprattutto con la spinta mediatica delle ultime due pubblicazionI, il gruppo danese abbia rapidamente raggiunto le vette in cartellone di festival e tour di grande calibro, come testimonia ad esempio lo sponsor spudorato che James Hetfield fa ai Volbeat in qualsiasi occasione possibile. Dopo l’effetto sorpresa dei primi tempi, il metal-boogie dei quattro pare aver fatto presa su un pubblico vario e numeroso, presente oggi per far sentire il proprio calore e la propria energia. “The Devil’s Bleed Crown” è perfetta per scuotere dal torpore pomeridiano le folle sempre più numerose dell’arena e poche battute bastano per concedere ai Volbeat tutti gli occhi su di loro. Segue “Lola Montez”, canzone emblematica circa il sound dei Volbeat, prima di passare ad una breve versione acustica di “Ring Of Fire”, una cover dell’eroe Johnny Cash che sfocia nel blues metallico di “Sad Man’s Tongue”, capace di scatenare un delirio inatteso tra le prime file. Lo spettacolo dei danesi scorre liscio e controllato, gestito vocalmente in maniera egregia da Michael Poulsen sempre intonatissimo e mai stanco, nonostante picchi vocali di una pulizia ed una altezza davvero notevoli. In una situazione di eccitazione generale quindi, c’è spazio e tempo per tutti i successi della band, come “For Evigt” e “Black Rose”, baciate musicalmente da un Rob Caggiano lanciato più del solito in grandi parti solistiche che trascinano da sole l’intero svolgimento dei pezzi. C’è ancora tempo per il riffing metallico della recente “Seal The Deal” ed il finale, affidato a “Still Counting”, prima che i Volbeat lascino il palco seguiti dalle grida di incitamento della zona pit e un po’ da tutta la Visarno Arena: per quanto melodico e ruffiano sia, il suono dei Nostri è sicuramente coinvolgente e sembra adattarsi perfettamente alla situazione in cui si sono trovati a suonare oggi, lasciando i motori caldi prima dell’ormai imminente gran finale.
GUNS ’N’ ROSES
La giornata entra nel suo pieno interesse con l’attesa, spasmodica, dei Re dell’eccesso per eccellenza, i Guns ’N’ Roses, che fedeli alla nomea che da sempre li accompagna si preparano ad uno spettacolo destinato a durare per sempre nella mente di tutti i presenti. Eccessivo, effettivamente, è qualsiasi aspetto legato all’esperienza fiorentina dei leggendari rocker americani: eccessiva è l’attesa prima dell’inizio, eccessive sono le coreografie e i preparativi scenografici, eccessivo sarà un concerto di quasi tre ore e mezzo che non lascia prigionieri al suo passaggio, ma solo una marea sterminata di persone sfinite ed innamorate del loro rock. Chi si aspettava una rapida comparsata da un’oretta e via ha dovuto fare i conti con una dimostrazione di forza, superbia e spacconeria senza eguali, eseguita con una classe ed una maestria che, almeno per adesso, non sono state ancora toccate su questo palco, almeno non quest’anno. “It’s So Easy” esplode come un razzo su una folla impazzita, eseguita se possibile con ancor maggior foga rispetto alla sera precedente ed attaccata ad una “Mr. Brownstone” non così gagliarda da molto tempo a questa parte: gli occhi sono tutti su Axl, rimessosi in buona forma per questo tour europeo, e sull’iconico Slash alla chitarra, dio delle sei corde pronto a dispensare decine e decine di minuti di assoli nel corso della setlist. Un rapido accenno all’ultimo “Chinese Democracy” avviene nella riproposizione della titletrack (e più avanti con “Better”), ma si torna come fulmini a dimenarsi oltremodo sulle note di “Welcome To The Jungle”, “Live And Let Die” e “Rocket Queen”, inni immortali della storia del rock riproposti con una fedeltà ed una scioltezza disarmante, ad oltre trent’anni dalla loro prima pubblicazione. Oltre le critiche, gli scandali e le difficoltà, Axl Rose, Slash, Duff Mckagan e Dizzy Reed sono tornati dagli anni ’90 rigenerati, messi in sesto ed anzi carichi ed agguerriti nel dimostrare che uno dei più grandi fenomeni musicali dello scorso secolo è ancora vivo e più scalciante che mai. Scenicamente si corre e si canta sul palco come se il tempo non fosse passato, e “You Could Be Mine”, “Civil War” e “Sweet Child O’Mine” risplendono oggi di una luce nuova, la luce dell’esperienza e della saggezza che guida il sapiente operato dei musicisti on stage. Tra una “Johnny Be Good” ed un richiamo immancabile al Padrino, Slash si dilunga oltre ogni umana sopportazione in solo slabbrati, emozionanti, cangianti ed esosi, fino a sfociare in una cover di “Wish You Were Here” che diventa la base per un duello di assoli con l’ottimo Richard Fortus, raggiungente picchi di emotività difficili da descrivere. Si inizia a guardare l’orologio, senza sapere che il meglio deve ancora venire: “November Rain”, “Black Hole Sun” (riuscitissimo omaggio all’amico scomparso Chris Cornell), “Knockin’ On Heaven’s Door” e poi “Nightrain”, “Patience”, fino al tripudio con fuochi d’artificio e paillettes di “Paradise City”, troppe sono le emozioni che si susseguono come un sogno sul palco di Firenze. Si esce dall’arena stremati, strafatti, in piena overdose di brividi e suggestioni preziose, riempiti fino all’eccesso, come solo i veri Re dell’eccesso possono riuscire a fare con la loro musica e la loro presenza inimitabile.