Report a cura di Edoardo De Nardi
Fotografie di Enrico Dal Boni
Si giunge inesorabilmente all’ultimo capitolo di questo viaggio in quattro atti attendendo la calata di Ozzy Osbourne sul palco italiano, un evento imperdibile ed esclusivo, se si considera l’abbandono delle scene da parte dei Black Sabbath. Il Madman inglese capeggia una line-up particolarmente variegata e discussa, visto che i leggendari Judas Priest si sono trovati ad aprire, nelle calde ore del pomeriggio, per una band molto più recente come gli Avenged Sevenfold, con numerose rimostranze da parte dei fan del gruppo prima dell’evento. Ad ogni modo, ogni formazione ha saputo far valere la propria personalità con dignità, lasciando ad Ozzy il compito di calare il sipario su questa avvincente edizione del Firenze Rocks.
AMPHITRIUM
TREMONTI
Abbandonati per un attimo gli Alter Bridge, Mark Tremonti si cimenta come cantante e chitarrista in questa sua veste solista con grande convinzione, a giudicare da come presenta sul palco il suo modern metal americano ed iper-muscoloso. La somiglianza con la sua band principale è sicuramente vistosa, anche e soprattutto nelle scelte melodiche e vocali, ma l’insieme delle canzoni proposte per questa giornata, molte delle quali estratte dall’ultimo “A Dying Machine”, tirano su uno spettacolo certamente energico che piace per intenzione ed esecuzione. Il suono granitico delle chitarre, di chiara scuola Pantera per intendersi, riaccende nella mente il ricordo di Dimebag Darrell anche a chi non conosce le tracce, finendo per venire trascinato nel groove post-thrash delle ritmiche di Tremonti. Anche a livello solistico, l’ex chitarrista dei Creed regala alcuni lampi notevoli, aprendo una giornata caratterizzata dalla presenza di grandissime prime chitarre, finendo per non sfigurare affatto e realizzando un concerto senza sbavature o scivoloni. Già con gli Amphitrium, prima band in scaletta che abbiamo perso per motivi logistici, era chiaro che la giornata sarebbe stata all’insegna di sonorità più pesanti ed oscure, ed anche in questo Tremonti, con il suo carico di violenta ignoranza, contribuisce non poco, senza mai tradire però il suo animo più ‘radiofonico’ con un cantato mai troppo spinto ed anzi propenso all’orecchiabilità e alla melodia.
JUDAS PRIEST
Il sole è ancora alto nel cielo quando la musica della radio si abbassa per lasciar risuonare i sinistri rumori introduttivi dei Judas Priest. Le voci si placano, la tensione sale e l’aria si fa elettrica, attirando l’attenzione di tutto l’ippodromo verso il palco, pronto ad esplodere nel tripudio heavy metal dei beniamini inglesi. Si dà fuoco alle micce con “Firepower”, prima di indietreggiare con “Grinder” e fino a tornare ai primi lavori con “Sinner”, canzoni magnifiche che risplendono sotto il caldo di Firenze con una regalità orgogliosa, reverenziale. Obbiettivamente non si può ignorare la poca relazione che Rob Halford dispensa al pubblico italiano, così come il resto della band, e lo dimostra definitivamente una scaletta semplicemente mutilata, che dà spazio ad un solo singolo brano per tutti i più grandi album dei Priest, senza concedere alcun bis di sorta e mancando quindi di successi clamorosi, non eseguiti sul palco a Firenze. Non per questo però, la qualità di ogni singolo passaggio tende anche solo a diminuire, ma esplode ‘solamente’ fino al cielo sugli acuti di “Bloodstone”, sulle ritmiche della preistorica “Tyrant”, sullo stacco di doppia cassa più famoso del metal a nome “Painkiller”: per quanto poco coinvolto, il gruppo non riesce a non eccellere nella presentazione del suo materiale, con menzione speciale per l’ormai fondamentale Richie Faulkner, vero e proprio motore ritmico, solistico ed attitudinale dello show. Andy Sneap, purtroppo, si limita ad eseguire il suo compito senza grande carisma ed, anzi, privando la platea dei famigerati scambi di assoli tra i due chitarristi, lasciati il più delle volte nelle mani del solo Faulkner ed accompagnati fortunatamente da una sezione ritmica micidiale qual è l’accoppiata Travis/Hill. Per quanto “You’ve Got Another Thing Comin’” costringa a farsi seguire da ogni presente fino in fondo al prato, rimane la certezza di aver assistito ad un concerto a potenza controllata, senza lasciare l’adeguato spazio ad una band di tale risma di poter eseguire il suo spettacolo con la giusta calma e l’adeguata atmosfera, sprigionando quindi solo una parte della mitica energia che la contraddistingue da sempre.
AVENGED SEVENFOLD
Amati o criticati, gli Avenged Sevenfold sono riusciti negli anni non solo a sopravvivere all’inevitabile declino del nu metal e del metalcore, ma anzi a mettersi a capo di quel che rimane di questo tipo di sonorità per visibilità e fama, introducendo uno spesso strato heavy metal nel loro sound e permettendo così loro di introdursi in pompa magna in ambienti più metal-oriented come quello di quest’oggi, guarda caso. Il loro successo oltreoceano è cosa ormai saputa e cementificata, così come in altri paesi europei, e la loro presenza in veste di headliner a qualcosa di enorme come il britannico Download Fest testimonia un’attenzione verso il gruppo assolutamente non trascurabile. Consci della polemica della giornata, M. Shadows e gli altri si sprecano in complimenti e attestati di fedeltà verso Ozzy ed i Metal Gods per eccellenza, dimostrando un sincero ed apprezzato rispetto verso la Storia su cui si basa la loro stessa musica. Con sette album sulle spalle e un’infinità di singoli e videoclip, gli Avenged Sevenfold possono oggi finalmente dare vita ad una setlist basata quasi esclusivamente sui loro più grandi successi, regalando al loro nutrito pubblico continue scariche di adrenalina metallica. “The Stage” e “Afterlife” introducono al primo colpo da novanta a nome “Hail To The King”, cantata all’unisono con gli spettatori che continuano a scatenarsi su “Welcome To The Family”. Un concerto del genere necessita di una figura di spicco sulle assi del palco e sembra proprio che sia Synyster Gates a ricoprire questo ruolo nella band: prima un fugace e tecnico arpeggio alla chitarra acustica, poi una scanzonata suonata blues dedicata ai fan nel pit, numerosi sono i momenti in cui il chitarrista americano mostra il suo talento ed intrattiene un rapporto extra-canzoni con i presenti. Toccante il ricordo dello scomparso The Rev in video e la dedica per lui di “So Far Away”, mentre più tedioso inizia ad essere lo svolgimento finale del concerto, quando gli Avenged Sevenfold sembrano aver esaurito il loro miglior materiale e le loro energie, anche se spettacolari effetti col fuoco aiutano la gente a non annoiarsi. Per i fanatici degli A7X, si è trattato certamente di un concerto impeccabile ed indimenticabile in tutto e per tutto; più obbiettivamente, possiamo dire di aver assistito allo spettacolo di una band che sta cercando di farsi grande e bella come le stelle del passato, che può giocare su diversi punti di forza ormai, ma che deve ancora lavorare per rendersi intoccabile e degna della nomea stellare a cui sembra puntare.
OZZY OSBOURNE
Quattro lunghe giornate di concerti sono tante, ma è impossibile non raccogliere l’ultimo barlume di forze per cantare, ballare ed urlare con Mr. Ozzy Osbourne, che ammanta il palco della sua inconfondibile presenza verso le ore nove della domenica. Si tratterà a tutti gli effetti di una festa, una dimostrazione collettiva di amore verso la musica celebrata attraverso alcune delle più belle canzoni del cantante inglese da solista, ma non solo. A sorreggere sulle sue spalle l’oneroso carico di questo No More Tours 2 troviamo il fedelissimo Zakk Wylde alla chitarra (sfoggiante per l’occasione un kilt in pieno stile scozzese), colonna portante ormai nell’economia di una band che basa molto della scaletta di oggi sull’album “No More Tears”, registrato proprio dal biondo axeman ventisette anni fa e da un insieme di musicisti ormai affiatati da anni di sessioni live insieme. Fa estremamente piacere assistere ad un Ozzy pimpante e su di giri, mai avaro di sorrisi, smorfie e saluti al suo pubblico, che non sembra aspettare altro che un suo piccolo gesto per esplodere di piacere. Si va dritto al sodo, con un tridente da infarto che comprende prima le spigolosità heavy di “Bark At The Moon”, interpretata da subito con grande tiro, passando per i synth immortali di “Mr.Crowley”, fino a “I Don’t Know”, prima canzone davvero perfetta anche a livello di suoni e volumi fuori dal palco. Impossibile non citare un passato troppo grande per essere estromesso, ed ecco che “Fairies Wear Boots” ci riporta ai tempi degli inossidabili Black Sabbath, per una versione ribassata dal grande tasso psichedelico, anche se poco riconoscibile sulle prime: per evitare possibili svarioni vocali, molte delle canzoni suonate stasera vengono interpretate infatti in tonalità più basse, permettendo così ad Ozzy di raggiungere ogni altezza delle sue linee vocali, a volte davvero ardite. Il tributo a Randy Rhoads si conclude con “Suicide Solution”, prima di passare al materiale composto con Wylde (“No More Tears” e “Road To Nowhere”), capace in questo caso di interpretare davvero al meglio lo spirito originario di queste esecuzioni. Si torna a saltare e sognare con “War Pigs”, inno del rock che va a sfumare in un monologo infinito di Zakk, o meglio della sua chitarra, con una folla delirante per questo straripante orgasmo collettivo: il chitarrista scende dal palco, suona attaccato al pubblico, mette la chitarra dietro la schiena, la stupra con i denti, senza smettere mai di suonare, inondando di note la Visarno Arena e permettendo al tempo stesso all’ormai attempato frontman di riposare qualche minuto prima di tornare in scena. Dopo un altrettanto coinvolgente assolo di batteria ad opera di Tommy Clufetos, altro elemento di fiducia nel regno di Ozzy, si riparte con “I Don’t Want To Change The World”, forse la meno ispirata, e la chicca “Shot In The Dark”, prima che “Crazy Train” mandi in delirio un pubblico stremato, posseduto dalle note della famosissima canzone. Il materiale da solista si conclude egregiamente con “Mama I’m Coming Home”, prima che “Paranoid”, cantata da molti con le lacrime agli occhi, cali definitivamente il sipario sul Firenze Rocks del 2018: una grande qualità nella proposta musicale ha avuto quest’anno un bel riscontro anche a livello gestionale e strutturale, lasciando solamente il dubbio su quale nome stellare potrebbe suonare al Parco delle Cascine il prossimo anno.
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