23/05/2022 - FIT FOR AN AUTOPSY + INGESTED + ENTERPRISE EARTH + GREAT AMERICAN GHOST + SENTINELS @ Slaughter Club - Paderno Dugnano (MI)

Pubblicato il 27/05/2022 da

Report di Giacomo Slongo

Il death-core è vivo e vegeto. Dopo essere passato dagli schermi di Myspace al centro dei riflettori grazie alla prima ondata composta da Whitechapel, Suicide Silence, Carnifex e dai Job for a Cowboy di “Doom”, e dopo essere imploso come tanti altri filoni spremuti fino all’ultimo dal pubblico e dalle case discografiche, il genere negli ultimi anni ha saputo rialzare prepotentemente la testa, affermando la propria dignità e il proprio ruolo all’interno dello scenario estremo con gruppi dallo stile non necessariamente trendy o dozzinale, i cui sforzi e la cui audacia sembra stiano venendo accolti un po’ ovunque da un numero sempre maggiore di fedelissimi. Non tutto ovviamente è una crema (basti pensare a certi pseudofenomeni del catalogo Unique Leader), ma stasera a noi non interessa: allo Slaughter Club di Paderno Dugnano sbarca infatti il carrozzone guidato dagli americani Fit for an Autopsy, freschi reduci dalla pubblicazione dell’ottimo “Oh What the Future Holds…”, e le premesse per una data all’insegna del trasporto e della qualità (salvo una breve parentesi fra gli opener, di cui parleremo a breve) ci sono praticamente tutte. Persa per causa di forza maggiore l’esibizione dei Sentinels, entriamo nell’ormai famigerato locale dell’hinterland milanese in tempo per i Great American Ghost, constatando come la risposta del pubblico italiano – una volta tanto – sia più che decorosa, con tanti giovani ascoltatori carichi a molle per lo sfoggio di violenza e bicipiti in programma nelle ore successive…

Boston, a livello musicale, ha sempre avuto una marcia in più rispetto a tante altre città americane, e i GREAT AMERICAN GHOST ce lo ricordano in un set breve, compatto e da cui emergono tutti i buoni numeri mostrati nei lavori pubblicati finora, non ultimo l’EP “Torture World” dello scorso gennaio. I ragazzi della West Coast aggrediscono il palco con la foga di chi, abituato a tour infiniti, non ha perso nulla del proprio smalto durante lo stop dell’ultimo biennio, e il metal/death-core caustico e dinamico attorno cui ruotano i loro brani impiega davvero poco per scaldare i presenti e mettere sui giusti binari la serata. Gli occhi sono tutti per il frontman Ethan Harrison, un animale da palcoscenico convincente sia nell’urlato, sia negli scampoli di pulito che qua e là emergono dalle composizioni, ma è l’intera line-up – a dire il vero – a comportarsi bene e a trasmettere con precisione e fisicità le varie “Kingmaker”, “Death Forgives No One” e “Altar of Snakes”, in uno show equamente diviso fra ignoranza e ingegno che i più aitanti fra gli spettatori pensano bene di sottolineare con una gara di flessioni nel pit.
Un avvio gustoso, quindi, che purtroppo gli ENTERPRISE EARTH spazzano via a suon di confusione, ridondanza ed evidenti limiti strutturali. Il gruppo di Washington sarà anche riuscito a farsi un nome negli ambienti death-core e techno-death più moderni e scintillanti (gli stessi di Fallujah e Rings of Saturn), ma ciò non toglie che la sua proposta, in un contesto stilistico ‘adulto’ come quello di questa tournée, sfiguri terribilmente, risultando farraginosa e – a tratti – anacronistica. Un mix di breakdown puerili e tecnicismi senza mordente, cui si aggiungono delle clean vocals fuori tempo massimo, che viene prestissimo a noia, ad opera di una formazione tanto veemente quanto priva del talento e della lucidità necessari a confezionare qualcosa di fluido e memorabile. La platea, ad ogni modo, composta per tre quarti da giovanissimi, non si risparmia neanche qui, e i cinque statunitensi lasciano lo stage evidentemente soddisfatti.
Lo splendido dipinto di Dan Seagrave sul backdrop adoperato dagli INGESTED, copertina dell’ultimo “Where Only Gods May Tread”, eleva fin da subito la band di Manchester diverse spanne sopra chi li ha preceduti. I Nostri sono reduci da qualche riassestamento della line-up, oggi priva di basso e con il turnista Ross McLennan (ex Abhorrent Decimation) a completare la coppia d’asce, ma non nutriamo grossi dubbi sull’efficacia della loro performance. Del resto, l’esperienza accumulata in materia di live set da parte di Jay Evans (voce), Sean Hynes (chitarra) e Lyn Jeffs (batteria), non può essere messa in discussione, e si manifesta non appena la doppietta “The List”/“No Half Measures” investe i presenti con il suo death metal moderno e piacevolmente sfaccettato, le cui dinamiche – a dire il vero – un po’ si perdono sotto l’alto soffitto del locale. I tempi in cui il gruppo era un esponente a tutto tondo del filone slam/brutal-core sono finiti da un pezzo, e per quanto ci riguarda va benissimo così: fra Aborted, Despised Icon, primi Whitechapel e persino qualcosa degli Hour of Penance, specie quando i ritmi accelerano e Evans sfoggia il suo growling ‘a mitraglia’, lo show non brillerà forse di una netta e consolidata personalità, ma ci ricorda tutte le ragioni per cui avevamo così apprezzato la svolta attuatasi con “The Level Above Human”. Certo, a voler essere cattivi potremmo dire che il suddetto frontman si sarebbe potuto risparmiare il look con eyeliner, ma a fronte della compattezza messa in campo e dello scambio positivo che grazie a lui si instaura con l’audience, sorvoliamo sul goffo tentativo di apparire gggiovani e accattivanti a tutti i costi. La musica è ciò che conta, e quella degli Ingested, come dimostrato anche dal recente deal con Metal Blade, merita più di un’attenzione.
È però con i FIT FOR AN AUTOPSY che, prevedibilmente, la serata compie il definitivo salto di qualità. Il gruppo del New Jersey – come spesso accade in sede live – si presenta agli occhi del pubblico con una formazione a cinque elementi, senza quindi l’apporto del super produttore Will Putney alla terza chitarra, ma ciò non inficia minimamente sull’impatto debordante della sua proposta, ormai affinata a tal punto da essere riconoscibile fra mille nel tumultuoso calderone death-core, passato e presente. Uno strapotere tecnico, fisico e compositivo che la titletrack dell’ultima fatica in studio evidenzia in un crescendo di tensione quasi palpabile, con il cantante Joe Badolato da subito al centro della scena grazie al suo carisma e alla sua ugola d’acciaio, e con il resto della line-up ad innalzare un muro di suono a dir poco imponente e inscalfibile, in cui però non si faticano a distinguere le varie finezze e stratificazioni che i Nostri sono soliti dispensare nei loro brani. La coppia d’asce formata da Tim Howley e – soprattutto – Patrick Sheridan fa paura, e non solo per il look tatuato e minaccioso del secondo; il contributo allo show di Peter Spinazola non si limita alle partiture di basso, ma anche ai movimenti sul palco e all’interazione col pubblico (prova ne è il battimani indiavolato all’altezza di “Warfare”), mentre Josean Orta si conferma uno dei batteristi più ingegnosi e dinamici sulla piazza del metal moderno americano, offrendo una prova impressionante per fantasia e precisione. Una coesione acquisita in anni di gavetta, sudore e tour incessanti in giro per il mondo (sia di supporto a realtà più affermate, sia da headliner in contesti più di basso profilo) che la scaletta restituisce in una carrellata di pezzi estrapolati (quasi) esclusivamente da “The Great Collapse”, “The Sea of Tragic Beasts” e “Oh What the Future Holds”, con la sola “Absolute Hope Absolute Hell” a rappresentare il repertorio pre-2017. “Far from Heaven”, la sopracitata “Warfare”, “Black Mammoth” e “Your Pain Is Mine” (con contributo vocale di Harrison dei Great American Ghost) fra gli episodi più riusciti, per uno show che lo struggente bis di “Two Towers” suggella dopo un’ora di grandi emozioni e mani in faccia. Enormi e, giustamente, sempre più amati.

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