Report di Maurizio ‘morrizz’ Borghi
Foto di Simona Luchini
Uno degli ultimi appuntamenti dell’anno vede Fit For An Autopsy e Sylosis protagonisti in un tour da co-headliner in cui due delle forze più sottovalutate nel metal moderno si stringono la mano e flettono i muscoli come Arnold Schwarzenegger e Carl Weathers nell’iconica scena di “Predator”.
A rendere il cartellone davvero interessante i Darkest Hour, paladini del metalcore che tornano sui palchi italiani dopo una lunghissima assenza, insieme a una delle band inglesi più rampanti degli ultimi tempi, quegli Heriot che sembrano essere i prospect più promettenti in circolazione ad ascoltare stampa e colleghi.
C’è tanto parlare intorno agli HERIOT, quartetto di Swindon/Birmingham apprezzatissimo da colleghi ed addetti ai lavori che dall’aggiunta della vocalist e chitarrista Debbie Gough ha reso le cose interessanti: il debutto “Devoured By The Mouth Of Hell” è stato prodotto da Josh Middleton dei Sylosis (tra gli altri) e la formula inusuale e apocalittica sfugge a catalogazioni precise.
I giovani attaccano con “Foul Void” ed il pubblico viene travolto dal suono soffocante ed esasperato, sul quale la Gough si impone con urla stridule e ringhia feroci alternate ai ruggiti più profondi del bassista Jake Packer. In poco più di mezz’ora possiamo renderci conto dell’imprevedibilità e della passionale ferocia che li contraddistingue, tra riff tonanti, breakdown pesantissimi e basso in evidenza, con lampi blackgaze e post-metal a rendere il magma sonoro particolarmente estremo.
Il batterista Julian Gage si alza spesso e volentieri per aizzare il pubblico, che si divide tra chi si lascia travolgere dall’energia e chi rimane spiazzato tentando di decifrare una proposta poco lineare ma ricca di passione e veemenza.
Gli Heriot hanno celebri sostenitori, supporto della critica e una presenza scenica già impressionante, sarà interessante seguirli nei mesi a venire.
Fa strano vedere i DARKEST HOUR esibirsi in orari ‘da gavetta’, in fondo la formazione di Washington ha prodotto tanti ottimi dischi ed è attiva da ormai trent’anni con una discografia qualitativamente inattaccabile.
Durante il cambio palco si erge il backdrop che riproduce l’artwork dell’ultimo “Perpetual | Terminal” e, senza troppe celebrazioni, attaccano col personale blend di metalcore anni 2000, fortemente debitore alla scuola melodeath nord europea. Siamo chiaramente di fronte a una band di veterani, che si mangia letteralmente il palco suonando con estremo piacere i cavalli di battaglia da tutta la propria carriera. Su tutti ci sono i fondatori John Henry (voce) e Mike Schleibaum (chitarra) a tirare avanti la carretta con una prova ricca di carisma ed entusiasmo.
Eppure, non tutto fila liscio, purtroppo: la band deve affrontare un mix particolarmente sbilanciato che nasconde le parti di chitarra e, parzialmente, anche le voci. Non serve cambiare posizione purtroppo, gran parte del concerto rimarrà affetto da problemi di suono. I Darkest Hour non fanno una piega, proseguendo dritti per la loro strada con una prova di cuore che ne testimonia il valore artistico. Speriamo tornino presto visto che le condizioni non hanno reso giustizia a dieci anni di attesa.
Li abbiamo visti un annetto fa insieme ai Malevolence, ed eccoli di nuovo dalle nostre parti: l’Italia ama i SYLOSIS, formazione che sarà partita avvantaggiata dalla fanbase che Josh Middleton si porta dietro dai tempi degli Architects (in cui ha suonato la chitarra dal 2016 al 2023 in sostituzione del defunto Tom Searle), ma è evidente come la traiettoria degli inglesi sia regolare ed ascendente, esibizione dopo esibizione e disco dopo disco.
L’EP “The Path”, uscito questo ottobre, è stata una sorpresa molto gradita che testimonia lo stato di forma del gruppo, il quale con un’identità e una visione molto definite si mostra sul palco in tutta la sua confidenza: così “Deadwood”, “Pariahs” e “Poison for the Lost” mostrano la scrittura più affinata di Middleton, con sguardi al passato di “Teras” e “Empty Prophets” che dimostrano tutto il potenziale più thrash della formazione.
E’ ovvio che tutti i riflettori sono per il chitarrista/cantante/fondatore, perfettamente a proprio agio nel comandare letteralmente l’audience nonostante persista qualche problemino nei volumi. Nelle retrovie, in zona merch, c’è un po’ di trambusto per l’improvvisata comparsa dei Darkest Hour al gran completo che si concedono a lungo ai fan, ma lo show dei co-headliner prosegue senza sbavature evidenziando la coerenza e l’impegno della band nei confronti del proprio sound, combinazione tecnica e ripulita di thrash e death melodico.
Con band tanto diverse ed interessanti in cartellone, il turno dei FIT FOR AN AUTOPSY arriva in fretta.
La band nutrita dal produttore Will Putney (che ha firmato il successo recente di band come Knocked Loose, Body Count, The Acacia Strain, Thy Art is Murder), che notoriamente è maggior compositore ma non suona dal vivo, è una di quelle formazioni che si è guadagnata tutto sul campo, con numerosissimi tour che hanno toccato l’Italia in parecchie occasioni.
Guardando il cartellone di stasera, potremmo dire che il filo conduttore, a parte gli esordienti Heriot, è quello di band validissime che non hanno raccolto quanto meriterebbero, spesso escluse dal treno dell’hype e da esplosioni di fama improvvise.
“The Nothing That Is”, fresco di pubblicazione, resta però un disco che si distanzia da tutto il deathcore contemporaneo per la maturità compositiva, per la ricercatezza sonora e per la narrazione, tutti prodotti dello zelo di Putney nello scrivere mentre la band si consuma dal vivo. Le nuove “Hostage”, “Lower Purpose”, “Red Horizon” e “Savior of None / Ashes of All”, si aggiungono alle mazzate sonore del precedente “Oh What The Future Holds” costituendo grandissima parte di una scaletta senza punti deboli.
Il ruggito di Joe Badolato, frontman che si è ritagliato velocemente il suo ruolo all’interno del gruppo, è potente ed autorevole: il pubblico risponde e dall’inizio alla fine abbondano mosh, circle pit e wall of death. C’è poco da dire, i Fit For An Autopsy sono il pacchetto completo, un punto di contatto ideale tra ignoranza primitiva e intelligenza compositiva che piace a tutti coloro che per inclinazione personale non digeriscono le deviazioni sinfoniche o elettroniche della recente ondata deathcore. Sull’epico finale di “Two Towers” Pat Sheridan decide di farsi un giro nel pit con la sua sei corde arancione, per finire con l’abbraccio del pubblico il solito set convincente dei FFAA. Rivederli sarà una scelta ovvia.
HERIOT
DARKEST HOUR
SYLOSIS
FIT FOR AN AUTOPSY