WEDNESDAY 13
La coda per intervistare il buon Wednesday (intervista prossimamente su Metalitalia.com, stay tuned!) mi impedisce di vedere il primo nome “grosso” del bill. I newcomer Gizmachi, accolti con tiepido entusiasmo, non possono competere con gli esordienti più attesi della giornata, i d(r)ead rocker Wednesday 13: freschi di trucco saltano sull’enorme palco dell’Arena Parco Nord (con un pizzico di imbarazzo per uno stage così ampio) per snocciolare sotto il sole cocente tutte le hit del debutto RoadRunner, con ripescaggi da episodi precedenti (Murderdolls e Frankenstein Drag Queen From Planet 13, con una esilarante song dedicata all’idolo R.A.M.B.O.) che istantaneamente colpisce, oltre ai presenzialisti, un po’ tutti all’interno dell’arena. Le ragazze sembrano apprezzare maggiormente il rock glammettone e casinista di chiaro stampo eighties, che fa riferimento a Motley o Twisted Sister, e la temperatura non fa scomporre il quartetto di non-morti che si esaltano e divertono per i quaranta minuti a loro disposizione. “I Walked With A Zombie” è la hit a colpo sicuro, e se le altre song sono sempre strampalate e bizzarre a livello di tematiche il gruppo si diverte e soprattutto diverte tutti gli accorsi. A mio parere migliori dei “padri” Murderdolls (si sente che il gruppo è un sideproject, come conferma lo stesso frontman), la creatura Wednesday 13 è all’inizio di un percorso con ottime probabilità di successo, viste le abilità dal vivo e la freschezza della proposta il gruppo si pone in testa alla rinascita rock n’ roll. Il gruppo per intero farà felici i suoi fan successivamente allo stand del Transilvania.
SHADOWS FALL
Grande attesa per la data italiana di uno dei maggiori esponenti del movimento USA (New Wave Of American Heavy Metal?) che vede concorde successo di critica e pubblico, assieme a nomi come Killswitch Engage, Lamb of God o Chimaira il gruppo sta mettendo a ferro e fuoco il globo intero, complice una rilettura con riferimenti hardcore (abbastanza celati in questo caso) del caro e vecchio metallo svedese: via, allora, con il ripasso in chiave moderna di classic e thrash metal, il pubblico in realtà quasi se la dorme rintronato dal caldo, così gli yankee non si esaltano più di tanto facendo quasi il minimo indispensabile, eccezion fatta per il frontman Brian Fair, super rastaman (li ha fino alle ginocchia i capelli, fanno impressione!) e l’eccezionale drummer Jason Bittner che pesta che è un piacere. Il resto della ciurma non regala certamente una performance fisica, ma resta sicuramente su livelli di tecnica più che discreti. Decisamente una prova che non resterà negli annali, li aspettiamo da headliner.
SLIPKNOT
Le bestie nere, un gruppo che offre spettacolo come nessun altro, l’iperviolenza fatta band, uno squadrone di buffoni mascherati, gli Slipknot sono tutto questo e molto altro ancora. Non penso siano stati in molti ad aver visto i pazzi dall’Iowa per la sesta volta (settima a breve, se Dio vuole) come chi scrive, quindi non mi soffermerò sulla ripetitività di uno show tanto rodato quanto irresistibile. Prima osservazione: le maschere sono come al solito cambiate, ma sul palco sono certo di contarne solo otto su nove. Penso manchi il dj “inutile”… ma noto che l’individuo col teschio sembra decisamente troppo magro per essere il clown: il sospetto me lo toglierà durante lo show lo stesso Corey, salutando il compagno che si trova a casa per una grave situazione familiare, pare infatti che la moglie sia gravemente malata. Si nota poco la mancanza del membro fondatore, lo spettacolo infatti va avanti in scioltezza: abbandonate trovate sceniche di dubbio gusto come batterie rotanti e percussioni mobili (che ovviamente il sottoscritto adora) gli otto regalano quello che meglio sanno fare, ovvero uno show ultrafisico condito da straordinaria teatralità, senza orpelli scenici ma senza nemmeno paragoni come impatto visivo: difficile trovare una manica di ossessi che dopo oramai 10 anni di attività live continua a dannarsi in tal modo onstage, non risparmiando nemmeno una goccia di sudore. C’è da dire che il mixing e gli anni on the road hanno affinato la performance a livello tecnico, il gruppo suona finalmente bene (anche se il volume non è degno), zittendo i soliti maligni, causando la necessaria risposta dei fan e la leggendaria nube di polvere dell’Arena Parco Nord, che ognuno dei presenti porterà a casa come ricordo nelle proprie narici e nei propri capelli. Stupore quando in “Vermillion” la band si smaschera, ovviamente però un face-painting nero pece non fa che intravedere i lineamenti dei musicisti. Solita gag su “Spit It Out”, dove Corey fa balzare all’unisono migliaia di persone dal terreno (sempre d’effetto) e solito bestemmione dello stesso singer per aizzare la folla al grido “saltate!”. Unico neo, la voce che ancora un po’ se ne va dopo 40 minuti di show, particolare decisamente trascurabile. Li rivedrei una volta al mese.
PRODIGY
Arriva la sera, arriva il freschino, arriva l’elettronica aggressiva del gruppo dance più heavy ed amato dai rocker: i Prodigy non si vedevano in Italia da parecchio, ed eccoli di nuovo dopo la release che ha lasciato tutti un po’ spiazzati. “Always Outnumbered, Never Outgunned” è una mezza ciofeca, almeno per chi amava il lato punk elettronico del gruppo: Flint e Maxim non ci sono praticamente mai, voci di scioglimento condiscono il tutto… ero convinto di trovare solo il guru Howlett sul palco, e invece ecco il gruppo al completo, con entrambi i vocalist sballati e iperenergici come al solito, un bel palco luminescente e un gruppo vero e proprio ad eseguire dal vivo i pezzi: le composizioni sono addirittura stravolte per suonare rock, e a dire il vero suonano davvero bene sotto le stelle, il pubblico infatti reagisce danzando all’unisono, scambiando energie con gli indiavolati freak inglesi. Nemmeno la dance di “No Good” viene riproposta, si salva solo la hit “Poison” dalle composizioni danzerecce depennate per l’occasione. “Breathe” e “Firestarter” sono sempre da urlo, cinquanta minuti scarsi e il gruppo passa il microfono agli headliner.
AUDIOSLAVE
Due volte headliner in tre anni, gli Audioslave sono aficionados del Flippaut Festival. Se la prima volta il gruppo era agli esordi oramai è una gradita conferma (anche se l’album non è secondo il parere di chi scrive memorabile), strano come però il nome abbia difficoltà a crearsi un’identità propria, forse il peso di realtà come Soundgarden e Rage Against The Machine comporta un’eredità troppo grande, fatto sta che il confronto con il passato è inevitabile. La massa attonita saluta un Cornell sempre in forma ed è prontissima ad applaudire il trio Morello-Wilk-Commerford (vedete? Senza pensarci li abbiamo divisi subito anche noi), gli occhi di una folla oramai estesissima sono tutti per loro. Cornell, aspetto giovanissimo, ha la voce un po’ sporca all’inizio, ma la sua prova salirà costantemente di minuto in minuto per giungere dopo qualche pezzo fino all’eccellenza, potenza e carisma unico per un frontman non troppo abile nel coinvolgere le platee, ma perfetto nell’incantarle con le sue melodie. Al suo fianco Morello provoca invece esplosioni di energia, le sue parti anche se sono sempre più tendenti ai seventies negli arpeggi non perdono in potenza e gli assoli deliranti e innovativi lasciano di stucco. Inutile parlare della sezione ritmica perfetta, un po’ in secondo piano visto il mood delle composizioni, ma sicuramente all’altezza della situazione. Il combo sorprende con la proposta di vecchi brani dei Rage, quasi a sottolineare l’inscindibile dipendenza con la storia dei componenti: coincide con il classico “Killing In The Name” lo scivolone del frontman, francamente incapace di fare un rappato decente, “Bulls On Parade” sarà infatti solo musicale. Cornell zittisce e mette i brividi con una “Black Hole Sun” da urlo nel finale, commovente l’interpretazione sotto le stelle tra i cori dei numerosissimi fan. Ancora una prova vincente e toccante, in grado di colpire appassionati e non, e seconda vittoria per gli Audioslave.