Dopo un disco di tale qualità (valore artistico e potenziale commerciale), erano in molti ad attendere la calata italica dei Flying Colors, super band composta dal batterista Mike Portnoy (ex-Dream Theater e mille altri), dal tastierista/cantante Neal Morse (ex-Spock’s Beard), dal chitarrista Steve Morse (Deep Purple, Dixie Dregs), dal cantante Casey McPherson (Alpha Rev, Endochine) e dal bassista Dave LaRue (Dixie Dregs, Joe Satriani, John Petrcci). Attesa che, come vedremo, non è stata assolutamente disillusa, complice una band di musicisti stratosferici. I Nostri sono stati preceduti dagli astri nascenti Beardfish (sono in giro da molti anni ma ancora manca quel nonsochè), che guadagnano fan album dopo album con il loro progressive rock misto a suggestioni jazz ed alternative.
BEARDFISH
Accolti da un Alcatraz non pienissimo, i Beardfish fanno il loro ingresso e da subito sprigionano una trascinante energia, grazie alla carica del leader Rikard Sjöblom, che come sempre si dividerà tra tastiere e chitarre per tutta la durata del breve show. La scaletta si concentra sul repertorio degli ultimi quattro anni della band, su cui spicca la settantiana “Awaken The Sleeping”, graziata da un lavoro di synth/hammond da fare invidia ai migliori Yes, e la più moderna “Voluntary Slavery”, che tradisce la volontà della band di spostarsi verso il sound dei Mastodon, vero gruppo di riferimento per il nuovo corso dei nostri. Sjöblom, ancora migliorabile in veste di front-man, mostra di possedere una elevata perizia esecutiva sia come tastierista che come chitarrista, trascinando la band ed il pubblico al massimo delle sue possibilità. Nel complesso l’esibizione è risultata sicuramente vincente, come dimostrano i cori tributati alla band dal pubblico accorso sotto il palco.
FLYING COLORS
E’ ora giunta l’ora dei Flying Colors, introdotti da “Flying” dei Beatles. E’ un’emozione per chi ha apprezzato l’album e per chi segue i musicisti coinvolti vedere sullo stesso palco nomi così grandi del rock e del prog, tutti coinvolti in un progetto che si spera possa continuare in futuro. Accolto come prevedibile da un boato, il batterista Mike Portnoy fa il suo ingresso, seguito da Neal Morse, Steve Morse ed il resto della band. In perfetto stile Deep Purple, il concerto prende il via con un crescendo di batteria, basso, chitarra (“Blue Ocean”), tradendo qualche problema iniziale di suono e di coesione. Il tutto si sistema prima della seconda strofa, e finalmente possiamo godere dell’energia sprigionata da questi navigati musicisti. Bravissimo il cantante Casey McPherson, che per il sottoscritto può tranquillamente considerarsi il nuovo Jeff Buckley, e che fa letteralmente brillare la successiva “Shoulda Coulda Woulda”, dove un Mike Portnoy in forma smagliante può far sfoggio della propria abilità. Segue l’ariosa “Love Is What I’m Waiting For”, ed il fantasma dei Beatles aleggia nell’aria. Ora, come prevedibile, Portnoy ci annuncia che i pezzi dell’album saranno inframezzati da pezzi estratti dal repertorio di ognuno di loro. Cominciamo con la commovente “Can’t Find A Way” degli Endochine di McPherson, autori secondo lo stesso Portnoy di uno dei migliori album degli ultimi dieci anni. Siamo certi che in molti si saranno segnati il nome della band, vista la qualità del pezzo in questione. A seguire “The Storm”, che vede un Neal Morse assorto nella parte iniziale e bravissimo nel ritagliarsi spazi solistici efficaci ed assolutamente riconoscibili; anche Steve Morse e Dave LaRue hanno la possibilità di esibirsi al massimo delle proprie capacità. A seguire, l’energica “Forever In A Daze”, la ballad “Better Than Walking Away”, impreziosita da un solo di Steve Morse da lacrime agli occhi (lo testimoniano proprio le lacrime che sgorgano dagli occhi di un commosso Neal Morse) e la melodiosa “Kayla”, uno dei pezzi forti del repertorio. Ora Portnoy chiede aiuto al pubblico, in quanto sarà lui a ricoprire il ruolo di cantante per i due pezzi successivi, “Fool In My Heart” e “Repentance” dei Dream Theater, introdotta da un assolo dinamitardo di basso. La prova alla voce del batterista lascia abbastanza a desiderare, come suo solito, ma la passione è innegabile, ed il pubblico sembra apprezzare, specialmente alle prime note del classico della sua ex-band. Ora tocca a Neal Morse, che ci propone “June”, singolo degli Spock’s Beard estratto dall’album-capolavoro “V”. Il pezzo, prevalentemente acustico, conserva il suo fascino e ci fa venire una certa nostalgia di una band che, dopo la sua dipartita, sta facendo non poca fatica a rimanere a galla. In chiusura, troviamo la sinistra “When It All Falls Down”, il pezzo più heavy dell’album, eseguita con determinazione da una band che riceve il giusto tributo da parte del pubblico. Un minuto di pausa, ed è già il momento dell’encore. Manca all’appello solo “Infinite Fire”, ovvero il pezzo più prog e più Neal Morse-oriented del lotto. Non poteva esserci chiusura più adatta di un concerto vincente ed emozionante sotto tutti i punti di vista. E speriamo che chi è venuto “solo” per Mike Portnoy si sia potuto rendere conto che il gioiello Flying Colors è composto da cinque gemme una più colorata e preziosa dell’altra.