31/05/2025 - FORTRESS FESTIVAL 2025 @ Scarborough Spa - Scarborough (Gran Bretagna)

Pubblicato il 10/06/2025 da

Report di Luca Pessina
Foto di Acidolka / https://www.facebook.com/acidolkaart

L’edizione 2025 del Fortress Festival ha segnato un nuovo, importante passo in avanti per questo evento (principalmente) black metal britannico, che ormai si sta ritagliando un posto di rilievo nel circuito dei festival metal europei. Situato nella pittoresca cittadina costiera di Scarborough, il Fortress Festival ha saputo ancora una volta coniugare la forza evocativa della sua location – la storica Scarborough Spa, affacciata direttamente sul mare – con un cartellone di artisti di livello internazionale e una logistica sempre più curata. A testimonianza della crescita di questo appuntamento, quest’anno si è registrato un netto aumento di presenze straniere: segno che il festival sta definitivamente oltrepassando i confini britannici e conquistando il cuore dei fan più esigenti provenienti da tutta Europa e non solo.
Se nel 2024 il meteo si era rivelato un fattore abbastanza ostico, con basse temperature e il tipico vento tagliente dello Yorkshire a mettere a dura prova anche i più temerari, quest’anno la situazione è stata decisamente più clemente: il clima mite e soleggiato ha reso l’esperienza ancora più gradevole, permettendo al pubblico di godere appieno della splendida cornice naturale e degli scorci che la location sa offrire. Una condizione ideale per passeggiare tra la Spa e la vicina spiaggia, oppure per ammirare il panorama dal promontorio su cui svettano i resti della fortezza medievale che dà il nome al festival.
Proprio la location si conferma ancora una volta uno degli aspetti più affascinanti del Fortress Festival. La sala principale, l’antico teatro della Spa, si è rivelata perfetta per i concerti principali: l’acustica notevole e la possibilità di assistere ai live comodamente seduti nei piani superiori o nella galleria hanno reso ogni esibizione un’esperienza intensa e immersiva. Al contrario, la Ocean Room – la sala secondaria – ha mostrato ancora una volta alcuni limiti: atmosfera un po’ spoglia e visibilità ridotta, che la fanno sembrare più una soluzione di ripiego che una vera alternativa. Un contrasto netto, dunque, tra la bellezza storica del teatro e l’aspetto quasi improvvisato della sala secondaria.
Novità di quest’anno è stata l’introduzione di un terzo palco, dedicato a concerti acustici e a interviste con gli artisti. Tuttavia, se le performance acustiche hanno offerto un’interessante variazione sul tema, le interviste non hanno riscosso particolare successo: segno che, per la maggior parte del pubblico, la priorità resta la musica dal vivo. Un tentativo comunque apprezzabile, che lascia intendere la voglia di sperimentare e ampliare il format del festival.
Sul fronte dell’offerta gastronomica, il 2025 ha mostrato timidi ma significativi miglioramenti rispetto allo scorso anno. Oltre all’immancabile stand degli hot dog, sono comparsi alcuni chioschi in più, con prezzi tutto sommato accettabili per un evento di questo tipo. Tuttavia, la varietà resta ancora limitata, e molti partecipanti – stanchi delle solite opzioni – hanno preferito avventurarsi nel vicino centro cittadino in cerca di alternative più soddisfacenti. Una scelta comprensibile, ma che comporta il rischio di perdersi i concerti: un paio di stand aggiuntivi e una maggiore varietà culinaria sarebbero senz’altro graditi nelle prossime edizioni.
Venendo alla musica, il cartellone di quest’anno è stato ancora una volta notevole. L’esibizione esclusiva in Europa degli Agalloch ha rappresentato uno dei momenti più attesi e celebrati di tutta la manifestazione: un vero evento nell’evento, che ha attirato appassionati da ogni dove. A brillare sono stati anche i Forteresse, alfieri di quel black metal canadese che sta vivendo un momento di particolare fermento, e band come Akhlys e Ulcerate, che hanno confermato dal vivo tutto il loro valore. Un mix ben calibrato di grandi nomi e proposte più di nicchia, che ha contribuito a mantenere alta la qualità e l’interesse generale.
Alla fine, il bilancio non può dunque che essere positivo: il secondo sold-out consecutivo testimonia la solidità e la popolarità sempre crescente del Fortress Festival. Il pubblico ha risposto con entusiasmo, sia in sala che sui social, dove non si contano i post e i commenti entusiastici. Con qualche piccola miglioria – un’offerta gastronomica più ampia e qualche intervento sulla seconda sala – questo festival ha tutte le carte in regola per diventare un appuntamento fisso e imperdibile nella stagione dei grandi eventi europei. E se il 2024 aveva già fatto ben sperare, il 2025 ha dissipato ogni dubbio: il Fortress Festival è ormai un gioiello che risplende sempre più.

SABATO 31 MAGGIO

La prima giornata del Fortress Festival 2025 si apre con i NEMOROUS sul palco principale. È un debutto carico di aspettative: la band, composta da ex e attuali membri di Wodensthrone e Vacivus, si presenta con un sound che sembra ricollegarsi a quell’atmospheric black metal nebbioso e maestoso tipico dei primi, ma con un piglio più deciso, più muscolare in certi frangenti. Dal vivo, questi musicisti dimostrano tutta la loro esperienza e la loro padronanza del palco: nessuna esitazione, solo un flusso sonoro ben calibrato che sembra coinvolgere il già numeroso pubblico presente. Le lunghe tessiture melodiche, i climax epici e i passaggi più brutali convivono in un set che mostra una band in pieno controllo della propria arte.
Più tardi, torniamo nel cuore della Spa per assistere al tanto atteso concerto degli AQUILUS. Questo enigmatico progetto australiano ha sempre limitato le proprie apparizioni live, e la curiosità è palpabile. All’inizio, purtroppo, i suoni sono un po’ impastati: con i vari strumenti che sembrano cozzare tra loro e con le parti orchestrali – fondamentali per la visione musicale di Aquilus – che restano un po’ sepolte. Ma con il passare dei minuti, la resa sonora si fa più definita e finalmente possiamo immergerci nelle trame complesse e sontuose del loro avantgarde black metal.
La band si presenta con una line-up ampliata, evidente frutto di un’attenta selezione di musicisti navigati che riescono a rendere giustizia alle partiture barocche e stratificate dei dischi. In alcuni passaggi, le chitarre si spingono verso territori death metal robusti e possenti, mentre violino e tastiere colorano le atmosfere con tinte cupe e romantiche. L’impressione generale? Una sorta di primi Opeth con un tocco di eleganza quasi neoclassica, che rende la proposta di Aquilus piuttosto peculiare.

Restando sul palco principale, il cambio di registro è netto con gli SPIRIT POSSESSION. Qui si abbandonano i fronzoli e si punta tutto sulla forza bruta: il sempre più chiacchierato duo americano, forte di un black-thrash abrasivo, sembra evocare uno scontro tra Katharsis e Aura Noir, un caos controllato in cui la dissonanza convive con un groove assassino. Il chitarrista e cantante S. non perde occasione per caricare la folla con continui “uh!” e un’attitudine da vero predicatore dell’apocalisse, quasi un richiamo ai primi Celtic Frost. Il pubblico apprezza, e il set risulta essere uno dei più energici della giornata, una vampata di violenza che, soprattutto tra le prime file, strappa applausi e urla di approvazione.
Mentre il sole comincia lentamente a calare su Scarborough, ci rifugiamo nel piccolo teatro adiacente alla sala principale per un momento di contemplazione con OSI AND THE JUPITER. Il progetto neo-folk americano, composto da Sean Kratz e da Kakaphonix, trasporta i presenti in un viaggio intimo e sospeso nel tempo. Le radici nordamericane e le suggestioni nordiche si mescolano in un tessuto sonoro che parla di spiritualità e connessione con la natura.
Kratz, con la sua voce calda e profonda, evoca gli spiriti delle foreste e delle montagne, mentre gli intrecci di chitarra e archi donano un tocco di malinconica nobiltà. La risposta del pubblico è sorprendentemente calorosa: in un festival dove il volume della strumentazione è spesso al centro, l’esibizione di Osi and the Jupiter rappresenta un’oasi di quiete. La magia delle ballate pagane, venate di malinconia e saggezza antica, cattura i presenti, regalando un ricordo prezioso che resterà scolpito nella memoria di chi ha avuto la fortuna di esserci.

Torniamo all’elettricità del palco principale con i THE GREAT OLD ONES, reduci da un intenso tour europeo insieme ai Cult of Fire. La band francese, con il suo black metal oscuro e letterario ispirato ai miti di Lovecraft, appare in grande forma dal punto di vista dell’amalgama e della coesione.
Peccato, però, che la resa sonora non sia sempre all’altezza: le tre chitarre faticano a emergere come dovrebbero, e il risultato è un suono un po’ ovattato che smorza parte della potenza evocativa del loro repertorio. La scaletta si concentra sull’ultimo album, “Kadath”, che già su disco si presenta come un lavoro abbastanza dispersivo, e anche dal vivo questi brani appaiono meno incisivi rispetto ai vecchi classici. È un concerto che lascia sensazioni contrastanti: la band si muove con sicurezza, ma le sfumature che rendono particolare la loro proposta restano in parte celate.
La serata prosegue sul palco principale con i RUÏM, l’ultima incarnazione sonora di Blasphemer, l’inquieto architetto di riff già noto per il suo passato nei Mayhem e per realtà come Aura Noir e Vltimas, tra le tante. Fin dalle prime note si coglie la cura maniacale per il dettaglio: la resa sonora è cristallina e avvolgente, con ogni strato strumentale che emerge distinto e coeso, creando un impatto quasi cerimoniale. La sezione ritmica, guidata da un CSR in stato di grazia, si fa motore pulsante di un black metal che rievoca il caos sacrale dei primi Duemila, ma sa declinarlo con una personalità piuttosto netta e priva di compiacimenti.
I riff di Blasphemer si snodano come spire oscure, alternando passaggi dissonanti e fendenti più diretti che evocano un senso di ineluttabile fatalità. E quando la band, proprio come su disco, decide di omaggiare i Mayhem con una cover di “Fall of Seraphs” – impreziosita dall’apparizione sulfurea di Maniac – l’atmosfera si carica di una tensione ancora più tesa. È un momento che racchiude l’essenza stessa del gruppo: un equilibrio tra omaggio e rinnovamento, tra furia primigenia e un’estetica consapevole, che guarda a certa tradizione norvegese ma la riveste di un’aura più colta e moderna.
Il set si concentra interamente sul debutto uscito due anni fa, un album che a suo tempo era parso passare sotto silenzio e che invece oggi si rivela un’opera viva e magnetica. Dal vivo, questi brani acquistano un respiro nuovo, più penetrante: una miscela di ferocia e rigore formale che lascia trasparire il tocco inconfondibile di musicisti avvezzi a muoversi sul filo dell’abisso.

Poco dopo, ci spostiamo nella Ocean Room, la sala secondaria, per AKHLYS. La band americana, qui per continuare a promuovere l’ultimo “House of the Black Geminus”, si presenta mascherata e inquietante come una carovana di predoni post-apocalittici, riuscendo a trasformare la freddezza un po’ spartana della location in un rituale ipnotico.
Il loro black metal, già oscuro e sinistro su disco, dal vivo si carica di una fisicità devastante: le chitarre, più spesse e più aggressive nel contesto live, colpiscono come stilettate, mentre le atmosfere di estrazione dark ambient si insinuano come spettri in controluce.
L’alchimia tra i musicisti è palpabile: nulla è lasciato al caso, e l’equilibrio tra caos e disciplina sembra quasi studiato per destabilizzare e sedurre al tempo stesso. Non a caso, il pubblico è molto coinvolto, inchiodato nel vortice architettato dal quartetto, il quale chiude il set in crescendo, lasciando un senso di straniamento e una voglia di esplorare ancora più a fondo quell’oscurità senza compromessi che rappresenta il cuore pulsante della band.

Chiude la prima giornata un nome ormai storico e da sempre abbastanza controverso: i 1349. Negli anni abbiamo spesso discusso di loro – band a volte sopravvalutata, che, soprattutto agli esordi, ha goduto di una certa notorietà in primis grazie alla presenza di una personalità di spicco come Frost alla batteria. Eppure, dal vivo, i norvegesi sanno come coinvolgere. Il loro black metal, piuttosto lineare ma solido e sempre ben costruito, trova nel contesto live la sua massima efficacia. La resa sonora è notevole, il feeling tra i musicisti invidiabile. I brani si susseguono con precisione, alternando classiche sfuriate e riff di stampo thrash che, pur nella loro semplicità, sanno smuovere la platea.
Ovviamente, nessuna concessione alla melodia o a una teatralità eccessiva: solo un’ortodossia nera che si impone con forza, guidata dal frontman Ravn. E così, con le fiamme che bruciano sullo sfondo e le ultime note che riverberano nella Spa, la prima giornata del Fortress Festival 2025 si chiude tra convinte ovazioni.

DOMENICA 1 GIUGNO

La seconda giornata del Fortress Festival inizia con un’energia rinnovata e un cartellone che alterna atmosfere intime e set dal taglio più potente. Si parte con gli ABDUCTION, band inglese finora rimasta un po’ in ombra fuori dal Regno Unito, ma che si presenta qui con l’orgoglio e la sicurezza di chi sa di avere qualcosa da dire.
Il leader A|V, figura carismatica e inquieta, domina la scena con un piglio da frontman navigato, conducendo una band impegnata a imbastire momenti di black metal denso e rovente e melodie patinate che si insinuano come un sussurro tra le pieghe più cupe. È un concerto che sorprende: le proiezioni sullo sfondo aggiungono suggestione e i passaggi più groovy mostrano come la formazione sappia trovare un equilibrio tra impatto e una certa eleganza malinconica. Un tempo avremmo pensato a certi Satyricon, ma oggi il paragone più spontaneo è quello con i Mgła più compatti e ritmati.
Il testimone passa poi ai DÖDSRIT, sempre sul palco principale, e la temperatura emotiva si alza ancora. I Dödsrit si sono ritagliati uno spazio di tutto rispetto in questi anni, affinando un sound che unisce la furia del black metal più ruvido e primigenio con aperture melodiche sempre più cesellate e un innato gusto per l’epica.
Ora sorretto da ben tre chitarre, il loro è un assalto sonoro che non dimentica di parlare al cuore, con arrembaggi furiosi e cavalcate d-beat che si alternano a passaggi euforici, quasi luminosi, ad occhieggiare con sempre maggiore confidenza al classic metal. È un concerto che non concede tregua: i brani del recente “Nocturnal Will” rendono meglio dal vivo, susseguendosi come un flusso inarrestabile, mentre la band, compatta e affiatata grazie a un rodaggio europeo ormai consolidato, sembra avere un solo scopo: convincere e conquistare. Missione compiuta, se si giudica dalla risposta entusiasta del pubblico e dalla sensazione di assistere a una prova di forza lucida e appassionata.

La parentesi più ‘festivaliera’ del main stage arriva con i finlandesi MOONLIGHT SORCERY, che mettono in scena uno spettacolo tanto sfarzoso quanto godibile. La loro proposta, un symphonic black metal ipermelodico (senza disdegnare incursioni quasi power), si rivela un affresco sonoro che si distacca parecchio dal registro medio del festival. In alcuni momenti è più Dragonforce che Dimmu Borgir o Bal Sagoth, ma proprio questa sfacciataggine e questa voglia di stupire diventano il tratto distintivo della formazione.
Il suono, arioso e scintillante, ha, come previsto, la capacità di sedurre anche chi magari si avvicina per caso o per curiosità: c’è tanta orecchiabilità e questo approccio si traduce in un’attrazione magnetica, resa ancora più coinvolgente da una presenza scenica sorprendentemente sicura per una band che, fino a oggi, non ha certo macinato chilometri in tour.
Certo, il tutto non incontra esattamente il nostro gusto, ma è oggettivo che i Moonlight Sorcery, con le loro fughe sinfoniche e la teatralità innata, qui incarnino alla perfezione quel ruolo di outsider capaci di spezzare il ritmo e portare un tocco di luce e di magia tamarra in un festival più spesso votato alle tenebre e alla furia.
Restando davanti al main stage, ecco quindi gli ULCERATE, che sembrano provenire da un altro mondo e che, in pochi minuti, trasformano la platea in un unico organismo ipnotizzato.
La band neozelandese è l’esatto opposto dell’approccio melodico e quasi festoso dei Moonlight Sorcery: il loro death metal dissonante e viscerale non conosce compromessi e sembra ignorare ogni logica terrestre. Le geometrie sonore che scolpiscono dal vivo sono un labirinto di tensione e rilascio, un magma sonoro che si modella e si contorce, sempre sull’orlo di un abisso.
In questa performance monumentale ogni strumento è una lama che affonda nella carne viva dell’ascoltatore, mentre la voce di Paul Kelland, in bilico tra preghiera e minaccia, amplifica l’alienazione. Impressiona come la band riesca a dominare anche un palco grande e dispersivo come questo, una consacrazione definitiva di un gruppo che, un tempo, sembrava troppo ostico per spazi tanto ampi. Qui invece il loro linguaggio è universale e, sulle note di brani come “The Dawn is Hollow” o “Dissolved Orders”, il pubblico lo accoglie in un silenzio quasi religioso, come di fronte a una rivelazione.

Per noi il viaggio prosegue quindi nella Ocean Room con un cambio di rotta che sfiora la malinconia e l’introspezione più rarefatta. I GRIFT, svedesi dalla sensibilità acuta e dolorosa (quindi non gli idoli del prof. Guidobaldo Maria Riccardelli), portano in scena un set che scivola dolcemente tra atmosfere folkish e depressive, regalando un momento di raccoglimento e di nostalgia struggente. Come accennato, la sala non è la più suggestiva, e manca un po’ di quel calore che la musica di Grift meriterebbe, ma la band riesce comunque a mantenere viva la tensione emotiva, grazie alla voce sofferta e alla chitarra di Erik Gärdefors, vero cuore pulsante del progetto.
Il repertorio si concentra interamente su “Syner”, un album che sembra fatto per raccontare storie antiche e dolori sommessi. Non siamo davanti a un’esecuzione perfetta, ma la sincerità e la devozione con cui viene affrontato ogni brano rendono anche questo set un momento interessante per chi cerca qualcosa di meno fragoroso.
Quando salgono sul palco i FORTERESSE, si percepisce subito che la loro esibizione non sarà un semplice concerto, ma un rituale di orgoglio e rivendicazione identitaria. La band del Quebec, forte di un’attitudine indipendentista che non è solo retorica ma carne viva, porta la sua dichiarazione di appartenenza fin sopra l’asta del microfono, avvolta nella bandiera blu e bianca della propria terra. Anche il parlato tra i brani è rigorosamente in francese, a rimarcare una linea di demarcazione netta e a evocare un senso di comunità e di appartenenza che trascende la dimensione strettamente musicale.
La scaletta pesca a piene mani dall’ultimo album “Thèmes pour la Rébellion”, che dal vivo acquista una carica ancora più spinta, incorniciando la loro proposta black metal in un alone di fierezza militante, ma non mancano incursioni nel debutto “Métal noir québécois”, dove le radici di questa loro dichiarazione di guerra culturale e musicale trovano la forma più pura e ruvida.
La band procede con passo spedito, come un’armata in marcia: tutto, dai movimenti sul palco al suono serrato e mai dispersivo, comunica la sensazione che i Forteresse vogliano dare una lezione a tutte le altre band presenti, in termini di dedizione, foga e coerenza. E il pubblico raccoglie questo messaggio con entusiasmo palpabile: l’energia è contagiosa, e la loro parabola sonora – nonostante un inconveniente tecnico che priva il gruppo della chitarra per qualche minuto – sembra risuonare con forza nella platea.
Alla fine, il loro set si rivela uno dei momenti più potenti e incisivi della giornata, confermando come l’organizzazione abbia visto giusto nell’ingaggiare il gruppo e nel farlo arrivare direttamente da Quebec City.

Gran finale con gli AGALLOCH, un nome che non ha bisogno di presentazioni e che qui, alla loro prima apparizione europea dalla reunion, regala un set che è un rito collettivo.
L’emozione è palpabile, e il pubblico sembra pronto a farsi portare via da un’onda di nostalgia e devozione. La scaletta degli americani pesca soprattutto da “Ashes Against the Grain”, ma concede spazio anche agli altri capitoli della loro discografia, creando un viaggio attraverso la loro storia musicale e spirituale. Non tutto è perfetto: qualche sbavatura tecnica, qualche passaggio che si perde in un feedback imprevisto, ma tutto questo viene quasi assorbito dall’atmosfera intensa e dalle interpretazioni appassionate. John Haughm, loquace e disponibile, intreccia un dialogo continuo con il pubblico, mentre Don Anderson, chitarra in mano, si concede pose da rocker consumato, simil-Judas Priest, che strappano sorrisi e alleggeriscono l’aria densa di ricordi.
Ci sono momenti in cui la musica si fa più aggressiva e diretta, pescando a piene mani dal retaggio black/dark metal anni Novanta – rievocando quei paragoni con Katatonia e In The Woods… che erano particolarmente insistenti agli esordi – e altri in cui sfuma in un’atmosfera da jam session, lasciando spazio all’improvvisazione e al respiro. In platea qualcuno arriva alle lacrime, segno che qui la musica è più di una semplice performance: è un patto di fedeltà e di memoria.
Il contesto raccolto del teatro fa la sua parte, offrendo un’intimità che lo scorso anno, sul palco esterno del Maryland Deathfest, era mancata. In chiusura, gli statunitensi firmano uno dei set più intensi e seguiti del festival: un abbraccio corale che conferma la loro capacità di parlare alle anime più sensibili e di chiudere questa seconda giornata con una nota di poesia e di catarsi.

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