Report di Sara Sostini e Dario Onofrio
Foto di Benedetta Gaiani
Il Frantic Fest è un unicum nel panorama italiano: per posizione geografica (Francavilla al mare è un – inaspettatamente – tranquillo centro balneare tra Chieti e Pescara) e collocazione temporale post-ferragostana, ma soprattutto per atmosfera e proposta musicale. Tra i prati e le tensostrutture del centro sportivo Tikitaka, infatti, si respira un’aria unica, capace di unire il brioso entusiasmo degli open air con un’attitudine do-it-yourself rilassata e ‘comunitaria’, in cui pubblico, stand, band e staff non sono rispettivamente consumatori, performer e organizzatori, ma parte di un tutt’uno che ha significato e valore solo con la presenza degli altri. Essendo la prima volta che partecipiamo al festival, non sappiamo quanto questo senso di ‘comune metal/punk’ sia stato enfatizzato dallo iato di assenza forzata degli ultimi anni dovuto alla pandemia (e quindi al conseguente entusiasmo di ‘tornare’), ma sicuramente ci è parso un elemento prezioso, messo ancora di più in evidenza nella solidarietà e nell’aiuto visti nel secondo giorno, quando una tromba d’aria nelle prime ore della mattina e un nubifragio poco prima dell’inizio dei concerti hanno distrutto parte delle strutture del festival (soprattutto gazebo e ombrelloni) e messo in dubbio la riuscita della giornata; grazie sicuramente a sangue freddo, comunicazioni tempestive e capacità di gestione, l’organizzazione ha comunque cercato di sostituire i gazebi divelti, riparare i danni – fortunatamente non occorsi ai due palchi – e rischedulare l’intero running order con pochissimi tagli al minutaggio dei singoli gruppi, mentre spettatori, volontari, espositori e ristoratori si prodigavano insieme per pulire, asciugare e sistemare le aree comuni di ristoro/relax, in una catena solidale insolita eppure speciale, emblema di quanto questo evento sia vissuto, davanti e dietro al palco, con un senso profondo di ‘appartenenza’ che è bello da riscoprire.
Per quanto riguarda la ‘vita da festival’, anche in questo caso il Frantic è una scelta indicata per chi predilige un apparato collaterale molto spartano – fatto di servizi igienici gratuiti e a pagamento, un’area campeggio minimale, un piccolo numero di stand per merch uffciale delle band, distro, libri e illustrazioni e un unico punto cibo integrato nella struttura del centro sportivo, capace di fornire, a prezzi comunque abbastanza ragionevoli, un servizio vario (migliorabile forse solo nelle alternative vegane/vegetariane) e con attese proporzionate al volume di coda, soprattutto per gli arrosticini, tradizionale ciliegina sulla torta per molti dei partecipanti. Perchè l’importante, alla fine di tutto, è la musica: la scelta è da sempre quella di orientarsi verso una proposta variegata di metal estremo e hardcore-punk, andando a pescare tra le infinite rifrazioni dei generi nomi più conosciuti senza per forza puntare troppo in alto, chicche in cui inciampare e piccole gemme underground. L’edizione di quest’anno poi risulta particolarmente ‘centrifugata’ con sbalzi di genere in apparenza schizofrenici, dovuti all’accavallarsi di rinvii e cambiamenti di line-up, ma il risultato è stato in ogni caso una serie di concerti belli e intensi. E la dimensione raccolta (anche a livello di pubblico non si sono mai superate le ottocento persone, a colpo d’occhio) di un festival con poche pretese e molta voglia di fare è stata ideale per apprezzarli appieno, come andiamo a raccontarvi.
MERCOLEDÌ 17 AGOSTO
Nonostante i treni ce l’abbiano messa tutta (tra ritardi, cancellazioni e rinvii), riusciamo ad arrivare a Francavilla nel tardo pomeriggio, e subito veniamo accolti da un clima familiare, di casa, in grado di cancellare con un colpo di spugna la stanchezza del viaggio. Sono all’incirca le 21 quando il post-hardcore dei COMANOISE si abbatte sul Tikitaka in questo show di benvenuto: un risveglio rabbioso da parte dei pescaresi che ci vomitano addosso disagio esistenziale e rabbia sociale. Il pubblico presente reagisce subito bene e popola velocemente le prime file, trattandosi sostanzialmente di autoctoni ben disposti verso il trio che, giusto per non lanciare spazio a dubbi suona pezzi dai titoli emblematici, tipo “Fascist Church”, direttamente dalla demo del 2020. Si rallenta con il rock alternativo ed un po’ sognante dei MYKIMONO, quartetto impegnato ad intessere trame introspettive e dense in accompagnamento alla sera che scende benevola a portare un po’ di refrigerio, prima dell’arrivo turbolento e rocambolesco dei SONS OF THUNDER, che smorzano i toni estremi della serata col loro simpaticissimo e scanzonato hard rock di strada alla AC/DC. Oltre alla prestazione musicale, veramente di buon livello e dal forte impatto visivo, i Nostri si presentano sul palco con tanto di coriste, che aggiungono al tutto ancora più potenza e la sensazione di trovarsi a una grande festa rock’n’roll. Standing ovation per “Thunderhood”, che ha la stoffa per diventare una piccola hit, e tante facce felici e saltellanti, prima di rituffarsi nell’oscurità con l’headliner della serata.
Abbiamo visto gli SHORES OF NULL suonare per intero “Beyond The Shores (On Death And Dying)” più volte negli ultimi mesi, ma ogni volta il viaggio musicale (e visuale) attraverso gli aspri gradini dell’accettazione di un lutto si rivela viscerale e molto intenso: sarà che il quintetto (per questa volta orfano del bassista Matteo Capozucca, sostituito per l’occasione da Leonardo Sapio dei Thecodontion) è oramai un piccolo meccanismo melodico e funeral doom perfettamente oliato, sarà il carattere peculiare del set (composto appunto da un’unico pezzo, lungo quaranta minuti), ma pochi riescono a rimanere indifferenti alla voce ora accorata e ora abrasiva di Davide Straccione, così come al lirismo struggente e insieme tempestoso del doom qui proposto, erosivo negli assoli di chitarra e deliziosamente distruttivo nelle parti percussive. Una buonanotte nera, senza respiro.
COMANOISE
MYKIMONO
SONS OF THUNDER
SHORES OF NULL
FRANTIC PUBBLICO
GIOVEDÌ 18 AGOSTO
Il sole batte ancora su un Tikitaka che comincia nel tardo pomeriggio a popolarsi per il primo giorno di festival, ed è già il momento di inaugurare ufficialmente il Frantic sognando con gli OREYEON, band ligure che porta una setlist incentrata sull’ultimo disco, “Equations For The Useless”. Non c’è che dire: il quartetto si rivela un opener particolarmente azzeccato, che in breve tempo passa dallo stoner a atmosfere quasi elettroniche grazie al vocoder sul microfono di Matteo Signanini. Se il nome della band richiama l’onirico, si può dire che anche la musica lo faccia perfettamente, conducendoci per mano in un viaggio polveroso deliziosamente stralunato. Ci spostiamo vero il main stage e una provvidenziale ombra perchè stanno per iniziare a suonare i MESSA. La band è diventata in breve tempo un caso internazionale – e a ragion veduta: più che ad un concerto siamo di fronte a un viaggio spirituale nella desolazione e nel vuoto. Si parte con “If You Want Her To Be Taken” e nonostante il sole stia ancora tramontando un velo di malinconica nebbia scende sul Frantic Fest, mentre Sara e i suoi compagni di viaggio ci cantano di culture perdute, ricordi sommersi e molto altro, esibendo gli estratti dall’ultimo “Close” come perle preziose. Il pubblico, anche a quest’ora già discretamente folto, ascolta in religioso silenzio pezzi come “Dark Horse”, con pochissimi applausi alla fine dei pezzi, non per mancanza di stima quanto piuttosto per godersi al massimo questo momento così raccolto, che incorona la band come una delle rivelazioni di questi ultimi anni.
Lasciate agli ultimi raggi di sole le introspezioni del gruppo veneto, e partiamo per un lungo viaggio attraverso i rivoli più lisergici e storti del metal che durerà fino a tarda notte; prima ci spostiamo più a Sud con lo sludge paludoso e sporcato di nero dei NAGA. Il trio napoletano ci aveva fatto una buonissima impressione già qualche anno fa, ma stasera suona con una ‘fame’ e un’energia rinnovata, e non ci mette molto per divorare orecchie e occhi al pubblico assiepato nel prato davanti al palco minore, che sembra ondeggiare a ritmo delle note percussive e slabbrate generate dagli estratti di “Void Cult Rising” – album del 2019 che aveva ulteriormente definito i parametri (ruvidi e inclementi) della proposta musicale dei Nostri. Gli aspetti più marci e slabbrati della musica vengono poi mitigati, sul palco principale, dalla psichedelia degli UFOMAMMUT, che come la fenice che titola il loro ultimo disco sono ‘risorti’ dalla cenere di una (breve quanto incerta) pausa con un cambio di line-up e, appunto, un nuovo album. Dopo qualche problema tecnico, che ritarda di qualche minuto l’inizio del concerto, ci godiamo un altro power trio che ha mescolato stoner, doom e visionarietà in un composto eccezionale, capace di attraversare con forza allucinata qualche decennio, costruendosi una propria dimensione, assolutamente non euclidea, in cui tracciare riff, riverberi, voci distorte, rallentamenti, impianto visivo e pattern cadenzati con un tocco unico ed immediatamente riconoscibile. Certo, fa strano non vedere la familiare sagoma di Vita dietro alla batteria, ma il nuovo acquisto Levre dimostra un affiatamento e una sintonia con Urlo e Poia capace di infondere nuova energia all’intera esibizione.
Il tempo di cenare e finiamo di goderci il concerto dei NERO DI MARTE dalle file posteriori, mentre riflettiamo sul fatto che non importa che stiano suonando pezzi dall’ultimo “Immoto” o da “Derivae”, i quattro sul palco plasmano death metal tecnico, derive ‘post-‘ con una perizia ed una scioltezza che lascia sempre sconcertati in positivo, trasformando riff stridenti e rallentamenti improvvisi in un magma lucido, mutevole ma comunque letale.
Sono appena calate le tenebre quando sul palco salgono i NEBULA, che sfruttano lo schermo piazzato dietro alla batteria per calarci in un trip supersonico made in USA. La band di Eddie Glass, riunitasi ormai cinque anni fa, ne approfitta per presentarci l’ultima fatica in studio “Trasmission From Mothership Earth”, ma andando a pescare anche “Man’s Best Friend” da “Holy Shit!” e una più che benvoluta “To The Center”, dall’omonimo album senza però desistere dal costruire miraggi sonori allucinati, riverberati nell’ondeggiare ritmico della folla sotto al palco. Insomma, sembra di stare in un deserto spaziale, su qualche luna fuori dal sistema solare a sorseggiare un cocktail con l’ombrellino, mentre il trio ci guida in un percorso lisergico, che però sembra solo essere una tappa del Grand Tour della psichedelia in scena stasera; il passo successivo verso nuovi, inesplorati, affascinanti ma ingordi abissi è il concerto degli OvO, perchè Bruno Dorella e Stefania Pedretti si appropriano delle nostre sinapsi e non le lasciano più. Percussività ossessive, chitarra distorta, voce metallica e inquietantemente stregonesca sono tutte istantanee di una performance puramente sperimentale, che negli sguardi allucinanti, nelle movenze oracolari sconfina quasi nel teatro e sovente nella pura ricerca sonora. Il duo si è guadagnato con gli anni un posto di culto nel cuore degli appassionati di stortume, e sebbene molti degli sguardi degli astanti oscillino tra l’attonito e lo stupito, nessuno sembra esente dal sinistro fascino emanato dai due musicisti, impegnati a riscrivere le coordinate dell’incrocio tra drone, sperimentazioni, industrial e sludge più rarefatto, lasciandoci, con la commozione della prima esibizione live dopo anni, intenti a capire come si faccia a tornare indietro.
Forse non si può, e allora siamo costretti a guardare avanti, verso visual abbaglianti e muro del suono prepotente, mentre i GODFLESH di Justin Broadrick sembrano volerci dare il colpo di grazia: saranno i suoni, tranne qualche piccolo problema qui e lì sempre molto buoni durante tutti i set, ora affilati come bisturi, sarà la batteria campionata che prende a calci in faccia specialmente su “Crush My Soul”, saranno quei riff ruvidi e rugginosi come calcinacci in una fabbrica abbandonata, ma l’ora e un quarto di live non concede tregue e non fa prigionieri, inseguendo gli spettatori e schiacciandoli, come i ratti dell’omonima canzone, senza battere ciglio e senza disperdere invano la propria carica industrial, virulenta e stridente come ingranaggi fuori fase.
A chiudere questa giornata arriva però una band che anticipa in qualche modo la violenza in serbo per l’indomani: sul palco salgono i NUNSLAUGHTER. Già dal nome potete immaginare quale genere possa fare questo quartetto dell’Ohio, perché mentre si alza un vento caldo proveniente dalle viscere dell’Inferno una scarica di death metal vecchia scuola lordato di nero si abbatte sul festival, magistralmente portata da Don Of The Dead e i suoi confratelli. Un gigantesco inno cacofonico al Maligno che attraversa quasi tutta la discografia della band, passando da “The Crowned and Conquering Hag” fino ai pezzi dell’ultimo “Red Is the Color of Ripping Death”. Una cosa decisamente non per deboli di cuore ma che ci ha regalato una chiusura di prima giornata degna di tutto rispetto, prima che la tempesta si abbatta su Francavilla al mare replicando con pioggia battente e vento assassino la violenza trasudata in questo primo giorno.
OREYEON
MESSA
NAGA
UFOMAMMUT
NERO DI MARTE
NEBULA
OvO
GODFLESH
NUNSLAUGHTER
FRANTIC PUBBLICO
VENERDÌ 19 AGOSTO
La giornata non comincia certo all’insegna delle migliori aspettative: come anticipato nell’introduzione, la tromba d’aria che ha squassato il centro Italia in quei giorni non ha certo risparmiato Francavilla, distruggendo molte delle strutture del festival e lasciando dietro di sè uno spiacevole strascico di nubifragio, che per due ore a metà pomeriggio infierisce sugli spazi appena risistemati e pronti per accogliere il secondo giorno. Con grande tenacia e prontezza, appena smette di piovere, l’organizzazione si rimette in moto, annunciando l’inizio dei concerti sì in ritardo, ma con solo piccoli aggiustamenti sulla tabella di marcia. Ed ecco che a (s)battezzare le assi del palco piccolo salgono gli SPOILED, piccolo panzer romano di crossover thrash e hardcore, che a colpi delle ringhiate rabbiose di Laura, riff convulsi, batteria tirata al cardiopalma, regala l’inizio migliore e più rinvigorente al festival, risollevando gli spiriti a colpi di “più veloce” e “Fate i Nabat”. Esattamente quello che ci voleva.
A portare una testimonianza dalle fredde lande nordiche ci pensano poco dopo gli EREB ALTOR, capitanati da un Ragnar in ottima forma, anche se con la voce un po’ ballerina. Il concerto del quartetto nordico si rivela essere subito una delle più intense performance del Frantic, con un viking metal dalle tinte doom ed epiche che ci trasporta fra leggende e saghe nordiche e va a chiudersi su una intensissima “The Blood In My Veins”, sulla quale persino una corda della chitarra del frontman finisce per staccarsi! Davvero un ottimo concerto che inizia a preparare gli animi per la lunga serata che ci attende, nonostante lo spostamento orario. Cascano a fagiolo anche i TENEBRA che si godono, appunto, il tramonto del sole: il quartetto bolognese ci porta subito nei suoi territori stoner dal sapore occulto, con una Silvia Feninno in piena forma. Concerto veramente carico di energia, con un climax grazie a Giorgio Trombino degli Assumption che ad un certo punto sale a suonare il flauto traverso, per chiudere poi con “Moon Maiden”, estratta dall’ultimo album “Moongazer”.
Sulle ultime note dei Tenebra scivoliamo via verso il palco principale, perchè si appresta uno dei concerti che più attendiamo.
I finlandesi DEMILICH sono uno di quei gruppi imperdibili per chiunque abbia fatto un po’ di posto per il death metal nel proprio cuore (e i propri ascolti): un solo album, “Nespithe”, oramai quasi trentenne eppure mai davvero invecchiato, una manciata di demo, riff aspri e passaggi vorticosi, controtempi rallentati, voce gorgogliante come i peggiori scarichi otturati; gli ingredienti per ritagliarsi un posto d’onore tra chi condivide il culto dell’estremo ci sono tutti, ed anche stasera in moltissimi sono in trepidante attesa di vedere Antti Boman e soci in azione. Con qualche minuto di ulteriore minuto di ritardo la band sale sul palco e immediatamente “Inherited Bowel Levitation – Reduced Without Any Effort” cola putridamente fuori dalle casse, scatenando un moshpit selvaggio (costante, salvo poche eccezioni, di ciascuna esibizione del festival in tutte le giornate) e annichilendo tutti senza distinzione. L’autoironia e l’umorismo salace del frontman non stridono affatto con gli assoli di “(Within) The Chamber Of Whispering Eyes”, scolpiti dalla precisione chirurgica di Aki Hytönen, ma anzi restituiscono un tono più vivo al concerto. E poi cosa c’è di più bello che sentir annunciare “The Planet that Once Used to Absorb Flesh in Order to Achieve Divinity and Immortality (Suffocated to the Flesh that it Desired…)”? Non vediamo l’ora di rivederli in Italia il prossimo autunno.
Seguiamo l’eco di tastiere emanato dal palco piccolo finendo di massaggiarci l’osso del collo, e veniamo catturati dai BEDSORE – come buona parte dell’audience, da quanto notiamo: il quartetto romano suona rapito, alternando momenti onirici e sognanti (quasi pinkfloydiani) a stacchi più forsennatamente death metal, con una voce in screaming che sembra esalata da qualche cripta dimenticata dal tempo. Potrebbe sembrare una descrizione un po’ schizofrenica, eppure in qualche modo ciascun estratto da “Hypnagogic Hallucinations” risulta non una serie di momenti raffazzonati e appiccicati a caso, ma un insieme organico e coerente, che dal vivo colpisce allo stesso modo con carezze e schiaffi. Siamo curiosi di rivederli in futuro, magari in una dimensione più raccolta.
Ormai siamo completamente immersi in una vera e propria apoteosi di death metal, ed ecco salire sul palco i carichissimi FLESHGOD APOCALYPSE, ad arricchire con sinfonie e una grandeur orchestrale il quadro. Che ci si senta tutti a casa è un dato di fatto: Francesco Paoli ride e scherza col pubblico (folto, nonostante il maltempo di qualche ora prima) dedicando “The Fool” al famosissimo scherzo telefonico della lavatrice di Magnotta, per poi prenderci a mazzate in faccia con i grandi classici della band o gli estratti dal più recente “Veleno”, come “Monnalisa”. Ormai questa line-up stabile da due anni ha trovato una sua perfetta quadra del cerchio, con Eugene Ryabchenko che non è decisamente un essere umano dietro alla batteria e la voce di ValchiRea sontuosamente in primo piano nei ritornelli. Il tutto è decisamente più bello grazie al fatto che Francesco Ferrini ha a disposizione tutto lo spazio per portarsi il suo pianoforte sul palco, garantendo alla band un impatto scenico ancora più efficace insieme a trucco e costumi, e regalando veramente un concerto bellissimo e molto sentito dal pubblico del Frantic, che ovviamente non si risparmia in wall of death e botte da orbi tra le prime file.
Torniamo nelle ombre più spettrali con gli ASSUMPTION, il cui “Hadean Tides” si è rivelato una delle uscite più interessanti del 2022; doom monolitico, quadratissimo e sferzate di death polveroso e gutturale sono unite da un disegno di chitarre che dal vivo risulta ancora più vibrante e colorito, arricchendo una performance davvero lucida e profonda, senza pause, capace di irretire e soggiogare puntando tutto su atmosfere cavernose e soffocanti. Sicuramente uno dei concerti migliori del festival.
La folla davanti al palco dei BENEDICTION testimonia il grado d’affetto e stima di cui gli inglesi godono anche in territorio italiano; nel momento in cui l’intro strumentale riscuote un boato da parte del pubblico, però, succede qualcosa di prodigioso: ciascun membro della band – dal colossale Dave Ingram al batterista Giovanni Durst, bonariamente ‘messo in mezzo’ nel corso del concerto a causa delle proprie origini italiane – si stampa un felicissimo quanto selvaggio ghigno sul viso e mette letteralmente una marcia in più. Che siano pietre miliari di un modo più scostumato e riottoso (particolarmente britannico) di intendere il death metal come “Nightfear” o episodi di “Scriptures” (ultimo lavoro, datato 2020), i Nostri non guardano in faccia a nessuno, sparando mitragliate di riff e lavorando come fabbri sulla sezione ritmica. Eppure ciascuno di loro – nonostante sospettiamo un tasso alcolemico cumulativo alto anche per gli standard anglosassoni – è presente a se stesso e attento all’ambiente circostante, tanto che Darren Brookes si stoppa improvvisamente sul manico della chitarra nel mezzo di una canzone per spiegare a security e pubblico come fare crowdsurfing con sicurezza per tutti, e condannando poi le prime file a venire sommerse da numerosi entusiasti, marcissimi surfatori, mentre dal palco non si lesina su violenza, ringhi, e altre amenità, con una contentezza deliziosamente sguaiata che spinge i Benediction a chiedere di poter rimanere sul palco a suonare un paio di pezzi in più, cosa che poi fanno entusiasti come ragazzini. È tutto bellissimo, e nonostante l’ora tarda, il freddo e un nubifragio sulle spalle nessuno vuole veramente andar via, tant’è che i nostrani GUINEAPIG possono contare ancora un circle pit vispo e truce mentre finiscono di demolirci i padiglioni auricolari a colpi di grind squadrato, morbi devastanti, bacilli virulenti, chitarre a motosega e basso urticante, in un ultimo, grandioso spurgo di eccessi, strafottenti incitamenti e musica estrema. Non potevamo chiedere di meglio.
SPOILED
EREB ALTOR
TENEBRA
DEMILICH
BEDSORE
FLESHGOD APOCALYPSE
ASSUMPTION
BENEDICTION
GUINEAPIG
FRANTIC PUBBLICO
SABATO 20 AGOSTO
Quasi a beffarsi della catastrofe del giorno prima, il cielo sopra Francavilla nell’ultimo giorno di festival è praticamente limpido, con una canicola dirompente che rischia di arrostire i danesi SEPTAGE, intenti a saggiare la tenuta del palco piccolo per primi, suonando con il sole dritto in faccia. Nonostante i litri di sudore persi, il loro death metal tubolare e dagli scoscesi picchi grind riesce comunque a dare una bella sventagliata a tutto il circondario, che vola definitivamente per aria appena i PLAKKAGGIO salgono sul palco principale: in quasi quattro giorni non abbiamo mai visto il pubblico urlare, pogare e cantare così a gola spiegata come durante il concerto della formazione di Colleferro, ma d’altronde il ‘New Wave Of Heavy Black Metal Oi!’ (come piace loro chiamare il genere suonato), poco serioso e moltissimo sanguigno, non lascia scampo; e così “Verso La Vetta” (pezzo eponimo dall’ultimo disco, e uno dei migliori del lotto), l’epicissima “Rivolta”, “Granito” e “Ziggurath” sono schiaffi a mano aperta che ci prendiamo volentieri, mentre i quattro, momentaneamente orfani del secondo chitarrista e col basso interscambiabile tra ChrisNunnoS e Comrade Fiacchi, semplicemente annichiliscono il Tikitaka a colpi di salti, birre calde in lattina, punk, hardcore, black metal, vette impervie, cori, piccozze da scalatori, citazioni, ironia, musicassette, dichiarazioni d’amore all’intera storia dell’heavy metal e imprecazioni vecchio stile. Trainati dalla voce alla carta vetrata di gAbbath e dai pestoni dietro alla batteria di ValHell, i Plakkaggio tengono fede al proprio nome e corrono, afferrano per le gambe, creano una mischia allucinante e se ne vanno, portando con sè i cori de “I Nostri Anni” in un meraviglioso tributo nostalgico in stile 666/883 e forse qualche dente rotto tra le prime file. Se non è il concerto più sentito di tutta questa edizione, poco ci manca.
Non c’è tempo di tirare il fiato neanche per mezzo secondo, perchè gli HYPERDONTIA non hanno pietà nè della stanchezza che oramai si fa sentire, nè del sole quasi al tramonto: con una manciata di pezzi – da “Vessel Forlon” a “Trapped Into The Void”, dal più recente “Hideous Entity” – il combo turco-danese sguinzaglia una miscela death metal putrida e velenosa, in grado di alternare senza sforzo o frizione momenti convulsi e tombali ad assoli scappati via dai primi Morbid Angel, con i musicisti che nonostante le note frenetiche e l’headbanging sembrano scolpiti nel granito, impietosamente intenti a disintegrare pezzo per pezzo qualsiasi cosa si trovino davanti.
Cediamo alla fame e ci godiamo le atmosfere riflessive e assorte, l’introspezione sognante e le chitarre dei 40 WATT SUN dalla zona ristoro; effettivamente la creatura di Patrick Walker dei Warning è capace di emozionare più di uno degli astanti, però non possiamo fare a meno di pensare che stoni un po’ con l’atmosfera lurida e scura della giornata; ci riproponiamo quindi di ascoltarli in una dimensione più intima, al chiuso.
Una giornata che si alterna fra Oi! e atmosfere horrorifiche non poteva non includere i WHISKEY RITUAL. Il loro raw black metal irrompe al Frantic come una lama che trafigge le carni: immancabile l’inno dell’ultimo “Black Metal Ultras”, così come non possono mancare pezzi come “Satanic Commando” e “Black’n Roll”, che scaldano il pubblico e lo costringono inevitabilmente a pogare. I parmensi chiudono con la cover di GG Allin “Bite Your Scum”, a sottolineare la loro attitudine punk spregiudicata e senza regole. Ma è tempo di rituffarsi nell’horror con DOYLE. Il gigantesco (letteralmente, torreggia sopra qualsiasi cosa) chitarrista dei Misfits porta sul palco del Frantic uno show ad alto tasso di horror rock e metal, concentrandosi sostanzialmente sulla sua carriera solista e sbattendoci in faccia una dietro l’altra canzoni che parlano di amore, di vendetta, di stregoneria e di morte, sulle quali il cantante Alex Story ci suggerisce anche di ballare (ironicamente o meno non ci è dato saperlo, vista la tendenza a ripetere la stessa frase prima di ciascun brano in scaletta). D’altronde non si rimane indifferenti con titoli come “Cemetary Sexxx” o “Dreaming Dead Girls”, mentre i suoi sodali non fanno che pestare come fabbri ferrai sui loro strumenti. Nonostante la totale assenza di pezzi dei Misfits il pubblico si dimostra soddisfatto dall’ottima esibizione di Doyle, che conferma come il Frantic sia un festival di portata internazionale.
Appena sentiamo il primo giro di basso languido e schioccante degli HORROR VACUI ci innamoriamo istantaneamente del loro modo, deliziosamente polveroso, sinuoso e crepuscolare, di intendere la new wave più dark. Adoriamo tutto: le capigliature rètro, il carisma decadente e post-punk del frontman Koppa, la vena goticheggiante che pulsa soffusa negli estratti da “Living For Nothing”, le atmosfere un po’ orrorifiche ed un po’ sensuali che accomunano Fields Of Nephilim e The Sisters Of Mercy dei tempi che furono, il modo ipnotico in cui i bolognesi irretiscono il pubblico a colpi di chitarre distorte e batteria dall’eco secca, spingendo chiunque sia ancora in piedi a muoversi a tempo di musica. La vera chicca del festival, e vedendo l’assalto al loro banchetto del merch a fine concerto forse non siamo i soli a pensarlo.
È ormai tardi quando veniamo calati nel progressive-horror rock dei CLAUDIO SIMONETTI’S GOBLIN, ormai di casa al Frantic. Sarà anche per questo che stasera il Maestro dell’orrore decide di suonare non solo le famose colonne sonore di Dario Argento, Romero e Bava, ma anche pezzi originali dei Goblin come “Brain Zero One”, “Roller” o “Aquaman”. Claudio Simonetti ride e scherza col pubblico, mentre accompagna la sua band come un direttore d’orchestra e si prende persino qualche minuto in più rispetto al previsto dalla scaletta di un Frantic osannante nei suoi confronti. Tra bellissimi assoli di chitarra e di tastiera non possono mancare poi i pezzi più famosi composti dal Nostro: dopo “Suspiria”, sussurrata dal pubblico con la stessa voce roca e malvagia della Madre dei Sospiri, e l’epicità di “Phenomena”, la giusta conclusione di questa apoteosi horror non può che essere “Profondo Rosso”. Claudio Simonetti e i suoi Goblin, insomma, si prendono tutto il tempo necessario per suonare e celebrare tanti anni di carriera fra dischi e colonne sonore: un trionfo meritatissimo che Francavilla al maLe (mai gioco di parole fu più emblematico, in questo caso) tributa al Maestro con un lungo applauso.
Concludere il festival col botto, letteralmente: il concerto dei RAW POWER, quasi interamente dedicato allo storico “Screams From The Gutter”, è un candelotto di dinamite che ci scoppia tra le mani, sparpagliando quel poco di lucidità e forza vitale che ancora ci rimaneva appiccicata addosso. La giornata si chiude con un bel mix di thrash, hardcore e sana attitudine punk, questa volta da parte di chi questi generi ha contribuito a plasmarli e unirli insieme, almeno nella penisola italiana. I ruspanti emiliani, nonostante l’ora tarda, pestano sugli strumenti con la foga rabbiosa delle rivendicazioni operaie in “State Oppression” e “We Shall Overcome”, il rifiuto di gerarchie e sistemi con la doppietta “Police, Police” e “Politicians”, alternando cover di Black Flag e Minor Threat a bordate slabbrate di nitroglicerina musicale. Una versione centrifugata e idrofoba di “Ace Of Spades” dei Motorhead (proprio come sarebbe piaciuto a Lemmy) saluta il pubblico, lasciando dietro di sè una scia di teste vuote, ossa rotte, sorrisi e un proposito che sembra comune un po’ a tutti: ci rivediamo l’anno prossimo, Frantic.
SEPTAGE
PLAKKAGGIO
HYPERDONTIA
40 WATT SUN
WHISKEY RITUAL
DOYLE
HORROR VACUI
CLAUDIO SIMONETTI’S GOBLIN
RAW POWER
FRANTIC PUBBLICO