Report di Sara Sostini e Dario Onofrio
Foto di Benedetta Gaiani
Il Frantic Fest è un unicum nel panorama italiano: per posizione geografica (Francavilla al mare è un – inaspettatamente – tranquillo centro balneare tra Chieti e Pescara) e collocazione temporale post-ferragostana, ma soprattutto per atmosfera e proposta musicale. Tra i prati e le tensostrutture del centro sportivo Tikitaka, infatti, si respira un’aria unica, capace di unire il brioso entusiasmo degli open air con un’attitudine do-it-yourself rilassata e ‘comunitaria’, in cui pubblico, stand, band e staff non sono rispettivamente consumatori, performer e organizzatori, ma parte di un tutt’uno che ha significato e valore solo con la presenza degli altri. Essendo la prima volta che partecipiamo al festival, non sappiamo quanto questo senso di ‘comune metal/punk’ sia stato enfatizzato dallo iato di assenza forzata degli ultimi anni dovuto alla pandemia (e quindi al conseguente entusiasmo di ‘tornare’), ma sicuramente ci è parso un elemento prezioso, messo ancora di più in evidenza nella solidarietà e nell’aiuto visti nel secondo giorno, quando una tromba d’aria nelle prime ore della mattina e un nubifragio poco prima dell’inizio dei concerti hanno distrutto parte delle strutture del festival (soprattutto gazebo e ombrelloni) e messo in dubbio la riuscita della giornata; grazie sicuramente a sangue freddo, comunicazioni tempestive e capacità di gestione, l’organizzazione ha comunque cercato di sostituire i gazebi divelti, riparare i danni – fortunatamente non occorsi ai due palchi – e rischedulare l’intero running order con pochissimi tagli al minutaggio dei singoli gruppi, mentre spettatori, volontari, espositori e ristoratori si prodigavano insieme per pulire, asciugare e sistemare le aree comuni di ristoro/relax, in una catena solidale insolita eppure speciale, emblema di quanto questo evento sia vissuto, davanti e dietro al palco, con un senso profondo di ‘appartenenza’ che è bello da riscoprire.
Per quanto riguarda la ‘vita da festival’, anche in questo caso il Frantic è una scelta indicata per chi predilige un apparato collaterale molto spartano – fatto di servizi igienici gratuiti e a pagamento, un’area campeggio minimale, un piccolo numero di stand per merch uffciale delle band, distro, libri e illustrazioni e un unico punto cibo integrato nella struttura del centro sportivo, capace di fornire, a prezzi comunque abbastanza ragionevoli, un servizio vario (migliorabile forse solo nelle alternative vegane/vegetariane) e con attese proporzionate al volume di coda, soprattutto per gli arrosticini, tradizionale ciliegina sulla torta per molti dei partecipanti. Perchè l’importante, alla fine di tutto, è la musica: la scelta è da sempre quella di orientarsi verso una proposta variegata di metal estremo e hardcore-punk, andando a pescare tra le infinite rifrazioni dei generi nomi più conosciuti senza per forza puntare troppo in alto, chicche in cui inciampare e piccole gemme underground. L’edizione di quest’anno poi risulta particolarmente ‘centrifugata’ con sbalzi di genere in apparenza schizofrenici, dovuti all’accavallarsi di rinvii e cambiamenti di line-up, ma il risultato è stato in ogni caso una serie di concerti belli e intensi. E la dimensione raccolta (anche a livello di pubblico non si sono mai superate le ottocento persone, a colpo d’occhio) di un festival con poche pretese e molta voglia di fare è stata ideale per apprezzarli appieno, come andiamo a raccontarvi.
MERCOLEDÌ 17 AGOSTO
Nonostante i treni ce l’abbiano messa tutta (tra ritardi, cancellazioni e rinvii), riusciamo ad arrivare a Francavilla nel tardo pomeriggio, e subito veniamo accolti da un clima familiare, di casa, in grado di cancellare con un colpo di spugna la stanchezza del viaggio. Sono all’incirca le 21 quando il post-hardcore dei COMANOISE si abbatte sul Tikitaka in questo show di benvenuto: un risveglio rabbioso da parte dei pescaresi che ci vomitano addosso disagio esistenziale e rabbia sociale. Il pubblico presente reagisce subito bene e popola velocemente le prime file, trattandosi sostanzialmente di autoctoni ben disposti verso il trio che, giusto per non lanciare spazio a dubbi suona pezzi dai titoli emblematici, tipo “Fascist Church”, direttamente dalla demo del 2020. Si rallenta con il rock alternativo ed un po’ sognante dei MYKIMONO, quartetto impegnato ad intessere trame introspettive e dense in accompagnamento alla sera che scende benevola a portare un po’ di refrigerio, prima dell’arrivo turbolento e rocambolesco dei SONS OF THUNDER, che smorzano i toni estremi della serata col loro simpaticissimo e scanzonato hard rock di strada alla AC/DC. Oltre alla prestazione musicale, veramente di buon livello e dal forte impatto visivo, i Nostri si presentano sul palco con tanto di coriste, che aggiungono al tutto ancora più potenza e la sensazione di trovarsi a una grande festa rock’n’roll. Standing ovation per “Thunderhood”, che ha la stoffa per diventare una piccola hit, e tante facce felici e saltellanti, prima di rituffarsi nell’oscurità con l’headliner della serata.
Abbiamo visto gli SHORES OF NULL suonare per intero “Beyond The Shores (On Death And Dying)” più volte negli ultimi mesi, ma ogni volta il viaggio musicale (e visuale) attraverso gli aspri gradini dell’accettazione di un lutto si rivela viscerale e molto intenso: sarà che il quintetto (per questa volta orfano del bassista Matteo Capozucca, sostituito per l’occasione da Leonardo Sapio dei Thecodontion) è oramai un piccolo meccanismo melodico e funeral doom perfettamente oliato, sarà il carattere peculiare del set (composto appunto da un’unico pezzo, lungo quaranta minuti), ma pochi riescono a rimanere indifferenti alla voce ora accorata e ora abrasiva di Davide Straccione, così come al lirismo struggente e insieme tempestoso del doom qui proposto, erosivo negli assoli di chitarra e deliziosamente distruttivo nelle parti percussive. Una buonanotte nera, senza respiro.
COMANOISE
MYKIMONO
SONS OF THUNDER
SHORES OF NULL
FRANTIC PUBBLICO
GIOVEDÌ 18 AGOSTO
Il sole batte ancora su un Tikitaka che comincia nel tardo pomeriggio a popolarsi per il primo giorno di festival, ed è già il momento di inaugurare ufficialmente il Frantic sognando con gli OREYEON, band ligure che porta una setlist incentrata sull’ultimo disco, “Equations For The Useless”. Non c’è che dire: il quartetto si rivela un opener particolarmente azzeccato, che in breve tempo passa dallo stoner a atmosfere quasi elettroniche grazie al vocoder sul microfono di Matteo Signanini. Se il nome della band richiama l’onirico, si può dire che anche la musica lo faccia perfettamente, conducendoci per mano in un viaggio polveroso deliziosamente stralunato. Ci spostiamo vero il main stage e una provvidenziale ombra perchè stanno per iniziare a suonare i MESSA. La band è diventata in breve tempo un caso internazionale – e a ragion veduta: più che ad un concerto siamo di fronte a un viaggio spirituale nella desolazione e nel vuoto. Si parte con “If You Want Her To Be Taken” e nonostante il sole stia ancora tramontando un velo di malinconica nebbia scende sul Frantic Fest, mentre Sara e i suoi compagni di viaggio ci cantano di culture perdute, ricordi sommersi e molto altro, esibendo gli estratti dall’ultimo “Close” come perle preziose. Il pubblico, anche a quest’ora già discretamente folto, ascolta in religioso silenzio pezzi come “Dark Horse”, con pochissimi applausi alla fine dei pezzi, non per mancanza di stima quanto piuttosto per godersi al massimo questo momento così raccolto, che incorona la band come una delle rivelazioni di questi ultimi anni.
Lasciate agli ultimi raggi di sole le introspezioni del gruppo veneto, e partiamo per un lungo viaggio attraverso i rivoli più lisergici e storti del metal che durerà fino a tarda notte; prima ci spostiamo più a Sud con lo sludge paludoso e sporcato di nero dei NAGA. Il trio napoletano ci aveva fatto una buonissima impressione già qualche anno fa, ma stasera suona con una ‘fame’ e un’energia rinnovata, e non ci mette molto per divorare orecchie e occhi al pubblico assiepato nel prato davanti al palco minore, che sembra ondeggiare a ritmo delle note percussive e slabbrate generate dagli estratti di “Void Cult Rising” – album del 2019 che aveva ulteriormente definito i parametri (ruvidi e inclementi) della proposta musicale dei Nostri. Gli aspetti più marci e slabbrati della musica vengono poi mitigati, sul palco principale, dalla psichedelia degli UFOMAMMUT, che come la fenice che titola il loro ultimo disco sono ‘risorti’ dalla cenere di una (breve quanto incerta) pausa con un cambio di line-up e, appunto, un nuovo album. Dopo qualche problema tecnico, che ritarda di qualche minuto l’inizio del concerto, ci godiamo un altro power trio che ha mescolato stoner, doom e visionarietà in un composto eccezionale, capace di attraversare con forza allucinata qualche decennio, costruendosi una propria dimensione, assolutamente non euclidea, in cui tracciare riff, riverberi, voci distorte, rallentamenti, impianto visivo e pattern cadenzati con un tocco unico ed immediatamente riconoscibile. Certo, fa strano non vedere la familiare sagoma di Vita dietro alla batteria, ma il nuovo acquisto Levre dimostra un affiatamento e una sintonia con Urlo e Poia capace di infondere nuova energia all’intera esibizione.
Il tempo di cenare e finiamo di goderci il concerto dei NERO DI MARTE dalle file posteriori, mentre riflettiamo sul fatto che non importa che stiano suonando pezzi dall’ultimo “Immoto” o da “Derivae”, i quattro sul palco plasmano death metal tecnico, derive ‘post-‘ con una perizia ed una scioltezza che lascia sempre sconcertati in positivo, trasformando riff stridenti e rallentamenti improvvisi in un magma lucido, mutevole ma comunque letale.
Sono appena calate le tenebre quando sul palco salgono i NEBULA, che sfruttano lo schermo piazzato dietro alla batteria per calarci in un trip supersonico made in USA. La band di Eddie Glass, riunitasi ormai cinque anni fa, ne approfitta per presentarci l’ultima fatica in studio “Trasmission From Mothership Earth”, ma andando a pescare anche “Man’s Best Friend” da “Holy Shit!” e una più che benvoluta “To The Center”, dall’omonimo album senza però desistere dal costruire miraggi sonori allucinati, riverberati nell’ondeggiare ritmico della folla sotto al palco. Insomma, sembra di stare in un deserto spaziale, su qualche luna fuori dal sistema solare a sorseggiare un cocktail con l’ombrellino, mentre il trio ci guida in un percorso lisergico, che però sembra solo essere una tappa del Grand Tour della psichedelia in scena stasera; il passo successivo verso nuovi, inesplorati, affascinanti ma ingordi abissi è il concerto degli OvO, perchè Bruno Dorella e Stefania Pedretti si appropriano delle nostre sinapsi e non le lasciano più. Percussività ossessive, chitarra distorta, voce metallica e inquietantemente stregonesca sono tutte istantanee di una performance puramente sperimentale, che negli sguardi allucinanti, nelle movenze oracolari sconfina quasi nel teatro e sovente nella pura ricerca sonora. Il duo si è guadagnato con gli anni un posto di culto nel cuore degli appassionati di stortume, e sebbene molti degli sguardi degli astanti oscillino tra l’attonito e lo stupito, nessuno sembra esente dal sinistro fascino emanato dai due musicisti, impegnati a riscrivere le coordinate dell’incrocio tra drone, sperimentazioni, industrial e sludge più rarefatto, lasciandoci, con la commozione della prima esibizione live dopo anni, intenti a capire come si faccia a tornare indietro.
Forse non si può, e allora siamo costretti a guardare avanti, verso visual abbaglianti e muro del suono prepotente, mentre i GODFLESH di Justin Broadrick sembrano volerci dare il colpo di grazia: saranno i suoni, tranne qualche piccolo problema qui e lì sempre molto buoni durante tutti i set, ora affilati come bisturi, sarà la batteria campionata che prende a calci in faccia specialmente su “Crush My Soul”, saranno quei riff ruvidi e rugginosi come calcinacci in una fabbrica abbandonata, ma l’ora e un quarto di live non concede tregue e non fa prigionieri, inseguendo gli spettatori e schiacciandoli, come i ratti dell’omonima canzone, senza battere ciglio e senza disperdere invano la propria carica industrial, virulenta e stridente come ingranaggi fuori fase.
A chiudere questa giornata arriva però una band che anticipa in qualche modo la violenza in serbo per l’indomani: sul palco salgono i NUNSLAUGHTER. Già dal nome potete immaginare quale genere possa fare questo quartetto dell’Ohio, perché mentre si alza un vento caldo proveniente dalle viscere dell’Inferno una scarica di death metal vecchia scuola lordato di nero si abbatte sul festival, magistralmente portata da Don Of The Dead e i suoi confratelli. Un gigantesco inno cacofonico al Maligno che attraversa quasi tutta la discografia della band, passando da “The Crowned and Conquering Hag” fino ai pezzi dell’ultimo “Red Is the Color of Ripping Death”. Una cosa decisamente non per deboli di cuore ma che ci ha regalato una chiusura di prima giornata degna di tutto rispetto, prima che la tempesta si abbatta su Francavilla al mare replicando con pioggia battente e vento assassino la violenza trasudata in questo primo giorno.
OREYEON
MESSA
NAGA
UFOMAMMUT
NERO DI MARTE
NEBULA
OvO
GODFLESH
NUNSLAUGHTER
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