Introduzione di Sara Sostini
Report di Dario Onofrio e Sara Sostini
Fotografie di Benedetta Gaiani
Il Frantic Fest è ormai un’istituzione all’interno del panorama dei festival estivi italiani (e forse, non solo): da sempre ospitato nella cornice del centro sportivo Tikitaka Village di Francavilla al mare (piccolo centro balneare in provincia di Chieti), negli anni il festival è diventato un punto di ritrovo e condivisione di metal in molte sfumature (dal death al black, passando per punk, hardcore, darkwave, doom, post-rock, sperimentazione e elettronica) e correlati.
Proprio questi ultimi sono stati oggetto di lavoro e costruzione, a lato della proposta musicale vera e propria, sempre ragionata e con un occhio fisso a monitorare i ribollimenti del sottobosco underground, per l’edizione 2024: accanto alla presenza di stand vari (distro, artisti, merch, artigianato, libri), l’offerta di intrattenimento si è arricchita con angolo dedicato ai giochi di ruolo, episodi live del podcast “Si stava meglio quando si stava metal” e l’immancabile, seguitissimo “Sarapanda”, parodia metal del celebre (trashissimo) programma televisivo.
Non solo: ulteriori migliorie sono state effettuate anche a livello logistico, con punti di acqua potabile gratuita (una salvezza viste le temperature proibitive di un agosto in centro Italia, sia pure a due passi dal mare), un servizio cashless molto agevole (con un sistema di braccialetto e QR code sempre più diffusi in eventi di questo tipo), bagni e docce ‘al coperto’ accanto ai classici Sebach (in condizioni dignitose durante tutto il festival), una maggiore cura anche per l’area campeggio, una proposta di cibo e bevande ancora più ricca (soprattutto con alternative vegane, vegetariane e anche gluten-free) e a prezzi sempre abbordabili; il tutto, senza perdere una briciola di quell’atmosfera ‘DIY’ che abbiamo sempre apprezzato.
Tutto questo ha portato negli anni alla costituzione di una sorta di ‘comunità’ che unisce volontari, spettatori e organizzatori, creando un senso di festoso ‘ritorno a casa’ percepibile tanto per chi è alla prima quanto per chi è all’ennesima partecipazione al festival. A livello di partecipazione e affluenza ci attestiamo più o meno sui livelli dello scorso anno: mai pienone esagerato, ma comunque diverse centinaia di persone in grado di regalare un buon colpo d’occhio (soprattutto il sabato) senza però creare una ressa pressante, con lo zoccolo duro di affezionatissimi che oramai è quasi parte integrante dell’allestimento del festival; oltre a questo, salta anche all’occhio, a livello di pubblico, l’età tendenzialmente più bassa della media di eventi cui ci è capitato di presenziare durante l’estate, ed un incremento delle presenze dall’estero.
Al terzo anno di fila in cui scegliamo di “non cambiare, stessa spiaggia, stesso maLe”, è davvero impossibile non notare un processo di sviluppo, cambiamento e evoluzione come quello appena descritto, i cui frutti in termini di vivibilità e fruizione sono immediatamente percepibili, come detto poco sopra; se proprio dovessimo trovare un ulteriore punto da tenere in considerazione per il futuro, sarebbe l’orario di inizio dei concerti, quest’anno fissato alle tre del pomeriggio: in una delle settimane più calde dell’anno, in una location simile, affrontare uno show (come pubblico, musicisti e tecnici) con temperature elevate – nonostante i primi gruppi si esibiscano tutti sul palco sotto il salvifico tendone – risulta molte volte quasi proibitivo. È anche vero che questo viene bilanciato dalla ricchissima offerta musicale, come dicevamo, altrimenti impossibile da strutturare.
E proprio pensando alla musica, tanta, diversissima e in moltissimi casi bellissima, vi lasciamo al resoconto di questi tre giorni (+1) abruzzesi.
MERCOLEDÌ 14 AGOSTO
Ad accoglierci, nel caldo agostano del litorale adriatico, ci pensano i contorni familiari dell’area festival all’interno del Tikitaka, il chiacchiericcio diffuso dei primi avventori del festival, l’odore delle griglie di arrosticini e il primo sorso di birra, mentre gli abruzzesi UNSAFE danno la prima rodata alle assi del palco sotto il tendone con il loro hardcore a muso duro.
Nel frattempo testiamo la scorrevolezza del servizio cashless e abbiamo modo di fare un primo giro tra stand e aree relax, apprezzandone l’aumento delle sedute e la copertura di alcune zone. (Sara Sostini)
Ancora una volta si gioca in casa pescarese con i VOICELESS, formazione dedita a un punk rock che mescola più stili e influenze di questa musica, recentemente uscita con il disco d’esordio “The Biggest Chance”, dal quale viene giustamente pescata l’intera scaletta.
Quando si parla del Frantic, spesso e volentieri sono l’attitudine sul palco e il muro di suono a farla da padroni: il quartetto non di perde quindi in chiacchiere e ci spara uno dietro l’altro pezzi che lasciano senza respiro, come la title-track dell’ultimo disco, alternando alla voce i bravi Matteo Giannese (chitarra) e Stefano Addario (basso), tirando fuori una grinta influenzata palesemente dai vecchi Social Distortion e facendo pogare il pubblico presente. Un antipasto divertente, in attesa che salgano sul palco i ben più caciaroni UNDERBALL. (Dario Onofrio)
Provate a tradurre il nome di questa band in italiano e già vi renderete conto di dove va a parare il loro hardcore/thrash dai toni decisamente politicamente scorretti e demenziali. Forti di una lunga carriera che li ha portati anche ad aprire a ‘maestri’ del genere – come ad esempio i Prophilax – il quintetto capitolino porta sul palco del Tent Stage uno show folle, fatto di deeptroath ai microfoni, elicotteri (con qualsiasi parte del corpo) e tributi all’heavy metal più cazzone e sguaiato.
Brani come “Cannonball Dookie”, “Milf” o “Dildo”, chiusa con una citazione a “Walk” dei Pantera, non possono assolutamente lasciare indifferenti il pubblico, che infatti risponde pogando e lanciando improperi in romanesco e abruzzese. Una situazione perfetta per lasciarsi andare fra birrette e pogo (con pochissime eccezioni, una costante dell’intera durata del festival), con tanto di cover di “Ace Of Spades”: insomma, un concerto assolutamente scemo e intransigente composto da riffoni thrash, sfuriate hardcore e momenti di inaspettata eleganza, che fa l’occhiolino alla parte più scabrosa della nostra musica preferita.
Chiusura con “Underball”, che a sua volta finisce con una epicissima e geniale citazione ai Manowar (!) e all’ultima esibizione di parti del corpo: un concerto da piegarsi in due dalle risate. (Dario Onofrio)
Riusciamo a malincuore a vedere solo una parte dello show dei DEATHWOOD, unica concessione a quella parte di festival dal cuore un po’ horror punk e darkwave, ma la stanchezza del viaggio (e la prospettiva dei prossimi tre giorni come maratona di concerti) hanno la meglio: il quartetto però ci lascia un’ottima impressione, con quell’attitudine che mescola la polverosa strafottenza da Far West dei Ghoultown, il dogma dissacrante e sepolcrale insegnato dai Misfits (impossibile non averne una cover sul palco, infatti) e un pizzico di rutilante follia psychobilly. Ci ripromettiamo di recuperarli, ghignanti e irresistibilmente catchy, quanto prima. (Sara Sostini)
Guarda le foto del warm-up party.
GIOVEDÌ 15 AGOSTO
La prima giornata del festival viene inaugurata dal trip sonoro degli OTUS: il quintetto romano porta sul palco il proprio unico connubio di psichedelia, introspezione, doom metal, indagine filosofica, stoner e riverberi ‘post-‘, intervallando momenti dilatati a base di sintetizzatori e chitarre ribassate a fasi maggiormente cadenzate e serrate.
Nonostante il caldo – o forse proprio per questo – Fabrizio Aromolo e soci riescono a intessere una coltre densa di suoni capace di ammaliare il pubblico, che segue le meditazioni tra Om e Cult Of Luna con interesse (e sudore).
Era qualche anno che non li vedevamo, ma troviamo il mantra degli Otus più maturo, compatto e carico di energie che mai. (Sara Sostini)
Tocca poi al post rock brillante e delicato dei DEATH MANTRA FOR LAZARUS inserire la scia melodica sopra all’ipnosi lasciata dagli Otus: attivi dal 2010 a pause alterne, i quattro pescaresi (provenienti da band del calibro di Zippo e Santo Niente) hanno saputo negli anni arricchire il loro suono che ha portato nel 2023 all’uscita di “DMFL”, un lavoro ricco di spunti e maturo, anche grazie alla collaborazione con diversi artisti folk e classici.
Sul palco del Frantic, però, i nostri portano uno show riflessivo e quasi introspettivo, con pochissima interazione e molta concentrazione più che altro sulla parte più distorta della musica, rarefatta e incentrata sullo scambio fra le chitarre, che non perdono però occasione di avventurarsi in territori che non sono solo quelli del post-rock. Una band che ci sarebbe stata benissimo anche al Miami, ma che, per la convergenza di stili del Frantic, ha saputo intrattenere degnamente con grinta ed energia un pubblico appassionato di più sonorità. (Dario Onofrio)
Tocca poi ai GOTHO prendere la palla e intrattenerci per tre quarti d’ora. Saltano subito all’occhio due cose abbastanza strane: la prima è che sul palco ci sono solo sintetizzatori e batteria, la seconda è che Fabio Cuomo e Andrea Peracchia si presentano vestiti con camicie e pantaloni piene di pubblicità di gelati che andavano di moda fra anni Ottanta e Novanta.
Non sapevamo sinceramente cosa aspettarci, ma quello che arriva è una bordata sonora che pesca a piene mani dal progressive, dal math rock e da chi più ne ha più ne metta: un concerto assolutamente sperimentale e con una esecuzione tecnica eccezionale. Non è un mistero infatti che Cuomo abbia collaborato con moltissime formazioni, fra cui gli Elder, né che Peracchia sia il batterista dei Tons, ma l’alchimia fra i due crea un mix devastante che mischia l’Amiga con i Meshuggah, fino a quando non compare addirittura una tromba sul palco.
Molti dei pezzi suonati provengono dall’album “Mindbowling” e, per chi apprezza le sonorità più strane e sperimentali, il duo realizza un’esibizione di tutto rispetto. Mostruosi! (Dario Onofrio)
Si è parlato tanto di HELLRIPPER e si continuerà a parlarne tanto, visto che James McBain e i suoi soci dal vivo sono sempre una macchina da guerra distruttiva pronta a far muovere anche la persona più pacifica presente nella platea.
Una nuvola ci concede riparo dalla calura di Francavilla, mentre sul palco esplode “All Hail The Goat” e subito si crea un pogo furioso, condito dai gonfiabili, spesso forniti dal festival e pensati apposta per queste situazioni.
I concerti di Hellripper sono così: poche parole, tanto Satana, anche se alla fine verranno suonati solo due pezzi dall’ultimo, bellissimo, “Warlocks Grim & Withered Hags”.
McBain è un frontman nato e ce lo dimostra chiacchierando con noi fra un pezzo e l’altro, chiedendoci se siamo stanchi e continuando a incalzarci sul fare casino: impossibile non divertirsi con pezzi come “Hell’s Rock’n’Roll” o “The Affair Of The Poisons”, magistralmente interpretati in sede live, in particolare dal bravissimo bassista Clark Core che si esibisce più volte nel growl insieme al mastermind della formazione.
Ma l’infernale speed metal del quartetto che sembra richiamare una pioggia di sangue dall’inferno non ci sarebbe senza la batteria sparata a diecimila di Max Southall e la chitarra di Joseph Quinian, che, complici dei suoni particolarmente azzeccati, ci trascinano in un tornado di fuoco.
Ci scappa anche da ridere quando, al momento di annunciare gli ultimi pezzi, l’istrionico cantante e chitarrista fa presente che dureranno circa due minuti e mezzo: gran finale affidato prima a “Nunfucking Armageddon 666”, poi a “Bastard Of Hades” ed infine a “Headless Angels”. Sicuramente il concerto giusto per chiudere questa prima tornata pomeridiana e inaugurare il main stage, prima del tuffo nel doom e nel post-rock che ci aspetta. (Dario Onofrio)
Facciamo una pausa per ristorarci e ascoltiamo da lontano i NYOS ammansire i ghigni ferini post-Hellripper a suon di viaggi spaziali e orbite non euclidee: la proposta del duo finlandese (il più classico chitarra-batteria) spazia ancora una volta tra post-rock assorto e sperimentazioni sonore avanguardistiche.
Nell’atmosfera raccolta del Tent Stage, questo risulta in una performance insieme intima e vagamente folle, con il muro del suono (giunto su nuovi lidi con l’ultimo “Waterfall Cave Fantasy, Forever”) che cola, ora ossessivo, ora sognante, dal palco. (Sara Sostini)
E a proposito di muro del suono, quello alzato dagli ZU si guadagna a mani basse uno dei podi dell’intero festival per immensità e ‘pesantezza’: cinquantacinque minuti in cui l’asticella della sperimentazione tra noise, nuove avanguardie metal e la libertà obliqua del jazz non smette mai di oscillare tra le varie sponde.
Paolo Mongardi (batteria), Massimo Pupillo (basso) e Luca Mai (sassofono baritono) sono passati, nel corso della loro carriera, attraverso i vari sommovimenti del mondo musicale ad ampio spettro, scalandone le atmosfere rarefatte delle vette e scandagliandone i fondali più deliziosamente underground, il tutto senza perdere (quasi) mai l’orientamento: portano sul palco del Frantic tutta questa esperienza condensata in una chimica tra musicisti, strumenti e suoni davvero percepibile, una fluidità mirabile nel passare dalle parti più riflessive a quelle pesanti come macigni in caduta libera.
Nel monolite di riff slabbrati, fraseggi di sax e pattern di batteria schizofrenici – con più di un occhio puntato verso “Carboniferum”, pietra miliare della band – è facile perdersi, assorti, mentre il trio lavora per contrasti (unto/rarefatto, grezzo/pulito) sul palco.
Sempre un piacere farsi spellare le orecchie da loro, soprattutto quando il tramonto cede il passo alla notte. (Sara Sostini)
Ancora leggermente tramortiti dal pachiderma sonoro degli Zu, ci avviciniamo al palco sotto il tendone per gli EL ALTAR DEL HOLOCAUSTO: il quartetto spagnolo ci aveva incuriosito non poco per l’inusuale amalgama tra immaginario mistico/religioso (tanto negli artwork che nell’abbigliamento di scena, molto simile a quello dei Nazareni penitenti durante la settimana santa di Siviglia) e post-metal sognante a cavallo tra i God Is An Astronaut che verranno, certa solarità shoegaze e brusche virate in odore di doom.
Questo si traduce in uno show ‘strano’, costellato dal ticchettio della pioggia sul tendone: i quattro hanno infatti un’attitudine ‘accorata’ e intessono un legame forte col pubblico, invitandolo a seguirli con battimani e simili tra un “De Euforia” e la più recente “El Silencio De Un Gesto”, ma i lunghi vestiti e cappucci bianchi rendono tutto surreale.
Non sappiamo se sia quello l’effetto che cercavano gli spagnoli, ma sicuramente qualcosa in grado di rimanere impresso: in un mondo in cui tutto scorre via con leggerezza e senza lasciare troppo il segno questo è un punto a loro favore; da parte nostra, forse avremmo preferito una maggiore coesione tra le due anime della band, ma visto l’entusiasmo generale che saluta la fine del concerto dei Nostri forse questo non è sentito come necessario. (Sara Sostini)
Mentre ragioniamo sul senso di placida incredulità derivato da quanto abbiamo appena visto, ci avviciniamo al palco principale per uno dei gruppi da chi scrive più attesi di tutto il festival.
Vedere gli AHAB a due passi dal mare, sotto un cielo minaccioso che non ha ancora smesso di gocciolare ha un suo fascino specifico: il doom funereo, così impregnato di salsedine e profondità abissali, di cui i lupi di mare di Heidelberg sono portatori risuona infatti in maniera davvero unica con un contesto simile.
Certo, l’assenza (per motivi familiari) di due quarti della formazione – il chitarrista Chris Hector e il bassista Stephan Wandernoth – è impossibile da non notare, in una line-up immutata dagli esordi, e insieme a qualche problema tecnico iniziale forse mina un po’ il quadro generale, ma bastano le note iniziali di quel piccolo gioiellino plumbeo di “The Divinity Of Oceans” per cancellare con la forza di diecimila onde qualsiasi remora.
Cinque pezzi: tanto basta ai tedeschi per far colare a picco palco, pubblico e location, con i due estratti dall’ultimo “The Coral Tomb” (“The Sea As A Desert” e “The Maelstrom”) a descrivere le rotte nautiche del viaggio più recente degli Ahab, con immersioni in fondali prog senza mai perdere la bussola del doom metal più tetragono e opprimente.
Daniel Droste come sempre riesce a fondere growl gorgogliante e tonalità più cristalline e arriva “Antarctica (The Polymorphess)”, leggermente riarrangiata live rispetto alla versione su disco, a ricordarcelo; il secondo chitarrista e il bassista ‘sostitutivi’ sono parte della marea montante che si riversa sulla platea, e quando arriva l’arpeggio iniziale, con la batteria dilatatissima e minacciosa di Cornelius Althammer a farne da contraltare, di “The Hunt”, non possiamo che seguirne il flusso verso il miraggio della balena bianca, immortalato dall’urlo “Whale ahead!” di melvilliana memoria capace ogni volta di regalare chilometri e chilometri di pelle d’oca. (Sara Sostini)
Pelle d’oca che non accenna ad andarsene, grazie ai KLIMT 1918: i quattro romani vengono salutati con il calore commosso dei cari amici che non si vedono da una vita, regalando un concerto intimo e insieme corale fatto di ricordi dolceamari (“Snow of ‘85”), turbamenti post-adolescenziali e prese di coscienza più adulte, storia collettiva e panorami su una Roma nostalgica come solo Roma sa essere nei suoi tramonti dorati (ce lo ricorda “Belvedere”).
Dalla coppia instancabile di “The Breathtaking Days (Via Lactea)”/”Skygazer” a “Just in Case We’ll Never Meet Again”, brano eponimo di un disco meraviglioso, sono davvero in pochi tra il pubblico a non cantare e muoversi nei ritmi shoegaze sognanti, e vediamo più di qualche occhio lucido asciugato di soppiatto qui e lì da quelle stesse persone che qualche ora prima invocavano Satana nelle sue forme più caprine con Hellripper.
Ma è proprio questa la magia di cui da sempre i fratelli Soellner, nucleo pulsante del gruppo, sono artefici e custodi: la capacità, timida e emozionata, di parlare ad un sostrato comune di esperienze e sensazioni deliziosamente umane, arrivando a colpire cuori e animi con la struggente “Comandante” o “La notte”, eseguita quasi ‘in punta di piedi’.
Luci soffuse, l’immancabile leggio davanti al cantante e chitarrista Marco, una bandiera palestinese a tenere a modo proprio un piede ancorato al presente, le note acute di chitarre a mescolarsi con la voce pulsante del basso sono gli ingredienti finali di un concerto intenso ed emozionale, e gli scrosci di applausi alla fine ci rendono chiaro come tale sensazione sia davvero condivisa. (Sara Sostini)
La pioggia ha finalmente smesso di cadere quando sul palco salgono i GOD IS AN ASTRONAUT, attirando un discreto numero di persone sotto al palco, giustamente dovuto grazie ad una carriera ormai ben più che decennale e che ha saputo far breccia nei cuori di molti ascoltatori, non solo di post-rock.
Ancora una volta notiamo l’assenza del chitarrista e tastierista Jamie Dean e ci chiediamo se ormai collabori con la band solo in studio, ma ciò non toglie che l’esibizione degli irlandesi è stata una delle più particolari e ‘sentite’ del festival insieme ai precedenti Ahab.
Intanto pochissimi cellulari alzati, segno che chi era sotto il palco voleva semplicemente godersi l’elaborato post-rock del trio, questa sera particolarmente incentrato sul nuovo disco “Embers”, in uscita a settembre 2024, dal quale vengono presentati ben cinque pezzi.
Si parte con “Odyssey”, ma non ci si dimentica delle vecchie glorie andando a ripescare “Echoes” dall’album omonimo della band. Nonostante le basi registrate, il trio composto dai fratelli Kinsella e da Lloyd Hanney alla batteria si trova molto a suo agio e il pubblico risponde positivamente a quanto suonato, anche perché non c’è bisogno né di cantare, né di battere le mani e nemmeno di fischiettare melodie: i God Is An Astronaut ci portano un’ora passata a cavalcare sogni e speranze, una musica elaborata pensata apposta per perderci nelle sue trame fra arpeggi e melodie ultraterrene.
In particolare, è sempre apprezzabile il lavoro dei Kinsella ai rispettivi strumenti, una alchimia fraterna che fa rendere conto della perizia tecnica e del coinvolgimento che i due hanno ormai raggiunto dopo decenni di concerti nel loro progetto. Alla fine, dal bellissimo “All Is Violent, All Is Bright”, viene recuperata “Suicide By Star”, mentre a chiudere il tutto non può che esserci “From Dust To Beyond”, che ci prende per mano e ci accompagna verso lidi spaziali fuori dal tempo. (Dario Onofrio)
Forse l’unica band che quest’anno potremmo definire davvero ‘stoner’ presente al Frantic Fest, i texani DUEL hanno il difficile compito di chiudere la prima giornata di festival evitando che la gente si rilassi troppo dopo il bellissimo concerto dei God Is An Astronaut.
In giro da molti anni e subito spottati dall’attento occhio della Heavy Psych Sound, il loro non è un compito difficile, vista la musica suonata: stoner agli ottani di benzina e rock’n roll tamarro si fondono in un’ora devastante capace di richiamare sin da subito il pogo sotto al palco.
Una musica che puzza di whiskey distillato illegalmente e di gasolio, forse proveniente dalle numerose birrette spillate nel corso della giornata che alzano il tasso alcolico: vi basti andare a cercare la copertina dell’ultimissimo arrivato “Breakfast (with) Death” per capire di cosa stiamo parlando.
Fra una “Chaos Reign” e una “Electricity”, dal debut “Fears Of The Dead” non manca neanche una capatina in ognuno dei dischi dei Duel, band che sicuramente non mancheremo di continuare a tenere sott’occhio dopo questo divertente concerto. (Dario Onofrio)
Guarda tutte le foto del primo giorno.
VENERDÌ 16 AGOSTO
Arriviamo nella canicola del secondo giorno di festival sul termine del set degli UNVIAR, di cui riusciamo solo a carpire poche, acuminate schegge di black metal quel desolato che basta da farci ripromettere di recuperarli live e su disco il prima possibile.
Il pubblico sotto il tendone è già discretamente nutrito quando sul palco arrivano i NEL BUIO: di recentissima formazione, il trio italiano è composto dal tatuatore Clod The Ripper al basso, che condivide la militanza nei Blasphemer con il batterista Vellacifer, mentre quest’ultimo a sua volta suona con gli Electrocution insieme al chitarrista Neil Grotti.
Al di là delle commistioni di line-up, i tre portano sul palco del Frantic la loro peculiare miscela di black metal, sintetizzatori dal sentore vagamente industrial e darkwave: il quadro, dipinto a tinte livide e scure, parla di desolazione urbana e interiore e si concentra intorno a figure femminili (qui incarnate anche dalle movenze flessuose di una performer), unendo voci disperate e growl, inserti elettronici ipnotici e riff taglienti come cocci di vetro.
Rispetto alla versione studio, gli estratti dall’EP omonimo risultano ancora più violenti nelle parti black metal, con quel tocco algido tipico da ‘primi Duemila’ a farci scordare per qualche minuto del sole a picco poco più in là, mentre la parte più squisitamente new wave crediamo si ‘accenda’ come si deve in contesti più notturni, più adatti per quella vena di gotico urbano che comunque costituisce parte del midollo osseo del gruppo. (Sara Sostini)
Dall’oscurità tormentata dei Nel Buio a quella carica di zolfo dei PONTE DEL DIAVOLO il passo è breve, specialmente se a compierlo sono zoccoli caprini.
La band torinese è diventata una ‘piccola grande’ promessa a livello nazionale (e non solo, specialmente dopo la firma per Season Of Mist) e, vedendoli per la seconda volta nel giro di pochi mesi, non ci mettiamo molto a riconfermare le nostre sensazioni: l’amalgama di black e doom metal proposta è solida, ulteriormente rafforzata dalla presenza dei due bassi in sede live, ben si sposa con l’immaginario luciferino, insieme rurale e viscerale, profondo, incarnato dal carisma (vagamente diamandagalassiano) e dalla voce di Erba del Diavolo.
Il suo peculiare modo di cantare, infatti, passa da declamazioni di voce squillante a toni più caldi e melodici, arrivando fino a timbri gutturali carichi di infinite, nerissime sfumature, ed insieme ad una gestualità deliziosamente teatrale e altamente simbolica è veicolo perfetto per la stratificazione di significati di testi e musica, sorretto come dicevamo da un muro strumentale compatto – coeso come solo chi ha macinato una discreta quantità di live sa essere, e ogni volta “Demone” sembra volercelo ribadire.
Tra risate ghignanti, rime mistiche in italiano, femminini interiori, impalcature di riff nerissimi e stacchi più cadenzati, capaci di far muovere innumerevoli teste a ritmo, passano gli estratti di “Fire Blades From The Tomb” e dai precedenti EP, con “Il bacio a mezzanotte” a segnare l’ennesimo punto nel cuore di molti e a riconfermare la bontà diabolica e seducente della band. I lunghi applausi finali ne sono ulteriore conferma. (Sara Sostini)
Quando è ora di passare al main stage ci vuole sempre un gruppo che sappia fomentare un po’ di sano casino: questa volta l’onore e l’onere sono toccati ai WITCHUNTER, formazione abruzzese dedita a un heavy/speed vecchia scuola capitanata dall’istrionico Steve Di Leo. Una formazione oramai stabile da moltissimi anni, per un tripudio di borchie e pantaloni di pelle che hanno fatto molte vittime fra il pubblico: si parte subito a manetta con “Metal Dream”, per poi scendere in una scaletta tutta basata sui pezzi più luciferini della band, decisamente in tema con il Frantic Fest.
A stupire è proprio Di Leo, che oltre a un’ugola d’oro si esibisce in diversi cambi di costume con spadoni, maschere e persino una brocca di sangue finto: non troppo sullo sfondo la coppia di asce composta da Federico ‘Ace’ Iustini e Silvio ‘Chuck’ Verdecchia, che guidano la nave nella tempesta con complici i ritmi dati da Fabrizio Rosati al basso e Luca Cetroni alla batteria.
Ai Witchunter non spaventa affatto essere stati inseriti in una giornata tutta estrema, e portano a casa un signor concerto che culmina con “Hold Back The Flame” e la cover di “Detroit Rock City” dei Kiss: i nostri hanno dimostrato di essersi meritati questo slot e che, forse, sono anche pronti per palchi più grossi. (Dario Onofrio)
Dalla caccia alle streghe, ad una cavalcata furiosa tra teschi animali, facepainting sanguinolento e cuoio sdrucito: i TRIVAX non perdono tempo e scaraventano sulla platea il loro black metal ferino e belligerante a base di deità luciferine e apocalissi nella Mezzaluna fertile, striato di death quel tanto che basta per dentellare riff e incrementare la potenza distruttiva di pezzi come “Azrael” o “Twilight of Death”, rivelandosi come i figli sacrileghi di Behemoth e Melechesh.
La provenienza da Siria e Iran di parte della formazione si sente nel gusto mediorientale dei riff, nella minacciosità desertica evocata dalle voci cavernose e sibilanti di Shayan e soci, nell’andamento ora convulso e ora cantilenante di sezione ritmica e chitarre, e anche in una certa orgogliosa condanna alla miopia delle religioni che ha più di qualche tratto autobiografico.
I nostri regalano un set davvero intenso e coinvolgente, non risparmiando né sudore né carica virulenta sugli assoli, capace di farci venire voglia di ritirare fuori dallo scaffale “Eloah Burns Out” una volta tornati a casa. Una delle esibizioni migliori della giornata, per chi scrive. (Sara Sostini)
Poi entriamo, quasi senza volerlo, in un altro gorgo, fatto di arditissime distorsioni sonore: volevamo approfittare degli ultimi strascichi di tramonto per rifocillarci e riposare un attimo, ma appena sentiamo le prime note di AUTHOR & PUNISHER schizziamo davanti al palco principale con la curiosità alle stelle.
Chi scrive non è mai stata fan di certo rumorismo estremizzato e sublimato in avanguardie più o meno metal, ma ci tocca confessare di essere rimasti stupiti in positivo di quanto ci siamo ritrovati ad ascoltare: Tristan Shone, nell’ora a sua disposizione, è riuscito a costruire un altro muro del suono che ci ricorderemo per molto, molto tempo.
Quasi nascosto dietro una vera e propria cattedrale post-moderna – di cui è ideatore, costruttore ed eseguitore – di macchinari per produrre suoni e distorsioni impensabili, l’ingegnere del suono si muove a ritmo di bpm industrial acidissimi, che sovente arrivano quasi a sconfinare in scenari quasi retrowave, specie con l’ultimo “Krüller”: “Maiden Star”, ad esempio, crediamo infatti abbia conquistato qualche altro scettico, nella platea.
Coadiuvato da un chitarrista per arricchire la struttura muscolare dei brani e da luci fantascientifiche, Shone sembra avere la potenza sonora di cento musicisti e la sicurezza pioneristica di chi ha viaggiato in universi non euclidei ed è riuscito a riprodurne la struttura molecolare sottoforma di suoni.
Magari su disco risulterà letale per orecchie non allenate, ma dal vivo Author & Punisher è un’esperienza da provare almeno una volta nella vita. (Sara Sostini)
Cominciamo a entrare nel vivo della serata con un’altra storica realtà grindcore nostrana: i napoletani UNDERTAKERS mettono subito le cose in chiaro usando come intro il famoso tema di “1997: Fuga da New York”, che fa presagire un concerto ricco di rumore, ma anche di realtà distopiche.
Quando Enrico Giannone, Stefano Casanica e soci fanno il loro ingresso sul palco è come se un muro di suono composto da barricate improvvisate contro il sistema ci piovesse addosso, con molti pezzi presi da diversi capitoli della loro discografia ma in particolare concentrati sulla compilation “Dictatorial Democracy”. Inevitabile una atmosfera di simpatia e stima per Giannone (già a capo di Time To Kill e dietro al microfono anche in Buffalo Grillz) che scherza e parla col pubblico in maniera guascona, alternando momenti di rifiatamento con mazzate come “I Am The Motherfucker”, proveniente da “Vision Distortion Perversion”, altro capitolo della discografia da cui vengono pescati diversi episodi.
Non manca nemmeno un momento per buttarsi sul pubblico o chiedere ‘cortesemente’ di fare un circle pit su “The Riot Maker” o su “The Night Of The Bastards”, mentre dal nulla compare la cover di “Pet Semetary” dei Ramones, per chiudere in bellezza con un’altra cover: quella di “Milk” dei mitici S.O.D. Un altro concerto di livello per questa giornata che sta per raggiungere il suo apice di violenza. (Dario Onofrio)
Lasciamo un attimo da parte tutte le polemiche che si scoperchiano quando si parla dell’affidabilità dei membri dei TERRORIZER o della ‘legittimità’ di questa formazione (talvolta vista quasi come una ‘cover band’, vista la quasi totale assenza di membri storici). Anche perché stiamo parlando di due mostri sacri del death metal e del grindcore che rispondono ai nomi di Pete Sandoval e David Vincent, persone che nonostante tutte le loro contraddizioni continue (ci sciogliamo, non ci sciogliamo, ci ritiriamo, non ci ritiriamo etc. etc.) fanno (quasi) sempre felici i fan che presiedono i loro concerti, qualunque incarnazione di qualunque delle loro band portino in scena.
Quello che abbiamo visto al Frantic Fest è stato sì un concerto di mestiere, ma anche una buona prova che ha spazzato via i nostri timori, complici anche l’ingresso di Richie Brown alla chitarra (già negli I Am Morbid, visti l’anno scorso sullo stesso palco) e Brian Werner alla voce, che hanno evidentemente dato nuova linfa vitale a un progetto che molti dichiaravano per morto e che oggigiorno è spesso visto come una cover band.
Il palcoscenico si presenta con tre microfoni su asta caratterizzati da degli scheletri finti, mentre la scaletta non può che basarsi sostanzialmente sul capolavoro della formazione “World Downfall”, cui è dedicato l’intero set, passando da “Human Prey”, “Enslaved By Propaganda” e “Injustice”, con solamente una manciata di brani dai non brillanti “Darker Days Ahead” e “Hordes Of Zombies”. È soprattutto la presenza di Brian Werner a rendere il concerto, se non memorabile, davvero apprezzabile: un frontman abile e capace di dialogare scherzando col pubblico, senza ovviamente scadere mai nella farsa e riuscendo a tenere in piedi una formazione che non sempre regge dal vivo, con tanto di battute sulla sua età e provenienza, visto che quando uscì “World Downfall” era ‘solo’ un americano di origini italiane di cinque anni. Chi l’avrebbe mai detto che si sarebbe ritrovato a cantare pezzi come “Injustice” dal vivo?
Dietro le quinte, si fa per dire, invece, un Vincent e un Sandoval di mestiere, come al solito impeccabili dal vivo ma evidentemente assorti nel fare il loro compito a casa.
Nonostante qualche problema al radiomicrofono che impedisce a Werner di scendere in mezzo al pogo a cantare “Whirlwind Struggle”, i Terrorizer chiudono degnamente con “Nightmares” la loro setlist. Se sia il caso di smettere di provare a fare dischi e fare solo un concerto ogni tanto non lo sappiamo, ma a questo punto siamo curiosi di capire se questa line-up avrà delle possibilità di restare stabile nel tempo. (Dario Onofrio)
Eravamo davvero impazienti di vedere i DARVAZA dal vivo, e siamo ben contenti di riportare come il loro concerto sia stato tra i migliori dell’intero festival in termini di carica evocativa, sound mortifero e puzza di zolfo: introdotto dall’onnipresente ronzio di mosche (ci piace pensare come manifestazione di entità caprine), il concerto del duo italo-norvegese è un gustosissimo banchetto per gli appassionati cultori della fiamma più nera – e ne notiamo molti, soprattutto nelle prime file.
Non siamo stupiti: ovunque ci siano lo zampino di Omega e Wraath – e la pletora di formazioni e progetti a carico dei due, da soli o in coppia, è vastissima (Frostmoon Eclipse, Chaos Invocation, Fides Inversa, Nubivagant, Mare, Behexen, solo per citarne qualcuno) – il black metal che segue è sempre di pregevole fattura, e questo nuovo capitolo insieme ne è l’ennesima dimostrazione.
Coadiuvati da altri tre musicisti dal vivo, tutti con facepainting e gilet di cuoio d’ordinanza, i due portano sul palco coperto il loro paradigma di come si evoca un pandemonio a base di black metal cultuale ma comunque capace di prendere a schiaffi in faccia (vicino alla scuola black islandese ma con un tocco occulto in più), evocazioni, bordate rutilanti black’n’roll, ossa rituali, urla tra il mistico e il disperato, riff lancinanti ma mai senza un tocco melodico ad arricchirne la fibra, e brani come “This Hungry Triumphant Darkness” o “The Silver Chalice” sembrano ribadirne il potere incantatorio.
A fine concerto siamo stupiti di non vedersi spalancare le viscere della terra sotto ai piedi (come il ‘cancello per l’inferno’ da cui prendono il nome, il gigantesco cratere turkmenistano ribollente di magma e gas), talmente coinvolgente è stata l’esibizione. Come sempre, una (luciferina) garanzia. (Sara Sostini)
Il buio è calato ampiamente su Francavilla Al Male (è il caso di dirlo) per l’arrivo dei MARDUK e gli svedesi sono pronti a invaderci con una tormenta di neve dove si notano solo le orme degli anfibi di soldati.
Rimanendo in tema, appunto, l’apertura è affidata ai venti gelidi di “On Darkened Wings”, da “Those of The Unlight”, inizio di una scaletta che prenderà a piene mani da (quasi) tutta la discografia del gruppo svedese.
Coadiuvati dal vivo dalla presenza del nuovo arrivato Simon Wizén al basso, Mortuus, Morgan e Simon si dimostrano sempre la solita macchina da guerra satanica che è comparsa più e più volte nei report del nostro sito; oramai stabilizzatisi nel tempo, i nostri non possono non proporre anche “Shovel Beats Sceptre”, una delle tracce più assassine dell’ultimo, ottimo, “Memento Mori”, ma non ci si dimentica anche di pezzi del recente passato come “Into Utter Madness” da “Wormwood”.
Decisamente mancanti invece molte tracce dai primi capitoli della loro discografia, fatto salvo appunto per l’opener e per la conclusiva “Wolves”, ma ai Marduk del 2024 piace pescare a piene mani da tutte le loro prove in studio, prediligendo il post-2000 con “Imago Mortis” e “The Leveling Dust” da “Rom 5:12”. Insomma, una esibizione da manuale che ha sicuramente coinvolto molto gli astanti, al di là di presunti problemi tecnici percepiti qui e lì anche in un certo passeggero fastidio di Mortuus. Ora della fine del concerto c’è tempo pure per la title-track di “Viktoria”, dove la band dà il meglio di sé in una apoteosi di malvagità marziale. Basta poco per far felici i fan dei Marduk, peccato solo per l’assenza di “Panzer Division Marduk” suonata solo sporadicamente durante questo nuovo tour.
Polemiche a parte, ognuno può farsi l’opinione che vuole sul concerto degli svedesi al Frantic: per noi che c’eravamo, l’ennesima riprova di come un nome storico del death/black metal sia ancora un cingolato sul palco. (Dario Onofrio)
A chiudere il secondo giorno del festival ci pensano infine le stratificazioni sonore di LILI REFRAIN: ogni esibizione della sciamana dei loop è un’esperienza interessante, perché con il passare degli anni le sperimentazioni di chitarra, nucleo primigenio di espressione dell’artista, si sono evolute, dilatate fino a includere canti, campanelli, campanacci, sintetizzatori, tamburi e percussioni varie.
L’ora è tarda, ma il sorriso, l’energia un po’ da folletta di Lili arrivano ben oltre gli ultimi instancabili ascoltatori che affollano il palco coperto, ed è difficile non esserne contagiati. Se a questo aggiungiamo il fascino della sua proposta, definibile come un viaggio di suoni attraverso la sperimentazione dei loop, gli ingredienti per una conclusione ‘magica’ ci sono tutti, sintetizzata nel lungo trip di “Mami Wata”, tra gli altri.
La musicista romana ha calcato negli scorsi anni i palchi di mezza Europa con nomi come Heilung o The Cult, ma non perde mai il genuino entusiasmo da appassionata di musica che suona prima di tutto per questo.
Andiamo a dormire contenti con i riverberi di riff e battiti di tamburo ancora nelle orecchie. (Sara Sostini)
Guarda tutte le foto del secondo giorno.
SABATO 17 AGOSTO
L’ultimo giorno di festival si apre con i SONUM che prendono a schiaffi in faccia la canicola e la stanchezza a colpi di black/death virulento e slabbrato, con i SVNTH che successivamente pensano a mitigarne la botta con un post-black metal trasognato, figlio di Alcest e Deafheaven.
Tra screaming accorato, stacchi sospesi e dolci arpeggi, i quattro riescono a creare una dimensione ‘altra’ per la quarantina di minuti scarsa a loro disposizione, cercando costantemente un contatto fisico e d’intenti con il pubblico, con incursioni frequenti del cantante e bassista Rodolfo Ciuffo a ridosso delle transenne, mentre nuvole nere si ammassano minacciose sulla linea dell’orizzonte e un vento gelido mette a dura prova i gazebi degli stand e le aree relax.
Questa volta, quando arriva, la pioggia cade forte, costringendo a coprire per sicurezza il palco principale e il pubblico a rintanarsi sotto la tettoia dell’area ristoro. A differenza di due anni fa, quando una tromba d’aria mise a repentaglio davvero il festival, la violenza della tempesta è più contenuta e dura poco, con l’organizzazione pronta ad ogni evenienza. (Sara Sostini)
La pioggia non ha certo demotivato i presenti: finalmente l’aria è respirabile e senza intoppi, con solo qualche minuto di ritardo rispetto alla tabella di marcia, salgono sul palco i gli HUSQWARNAH, formazione ormai abbastanza nota nell’ambito death metal italico che dopo diversi anni ha finalmente trovato una propria stabilità e si appresta a far uscire il loro secondo disco “Purification Through Sacrifice” a metà settembre.
Il loro mix di Bolt Thrower, Demolition Hammer e Asphyx riceve subito grande apprezzamento fra i presenti, in particolare per la prestazione di Maurizio Caverzan, ormai veterano dietro ai microfoni con il suo growl potente e preciso. Molti pezzi proposti arrivano appunto dall’album in procinto di pubblicazione, riusciamo così ad apprezzare dal vivo canzoni come “Reincarnation of Sin Pt. II”, mentre il pubblico poga e si esibisce in un wall of death, e le conclusive “Wheel Of Torture” e “Tower Of Suicide”, che non fanno che confermare l’attitudine e l’alchimia ormai formatasi fra i partecipanti al progetto, evidente anche nell’energia con cui assaltano le assi del palco coperto. (Dario Onofrio)
La stanchezza comincia a farsi sentire, quindi approfittiamo della pausa per rifiatare un attimo, mentre gli OBSIDIUS e il loro death metal tecnico e articolato inaugurano un’ultima volta il palco principale.
I costaricani MANTRA non sono un gruppo che si è visto spesso calcare i palchi del vecchio continente: per la precisione, mancavano dall’Italia da ventuno anni. Motivo in più per assistere all’esibizione di una band che, sebbene abbia avuto alti e bassi, promette un’ora di death/thrash alla Vader di livello.
La formazione, capitanata dallo storico batterista Roberto Pana, vede per questo tour la presenza del veterano Eduardo Marenco alla chitarra e di Mauro Vargas alla voce e basso, presente sull’ultimo album “Omnipotente”, che tengono decisamente il palco nonostante una partecipazione non proprio numerosa del pubblico, soprattutto a inizio concerto. I Mantra non si fanno scoraggiare e ci danno subito una bella lezione di come si suona con attitudine, andando a pescare da diversi episodi della loro discografia come “Hunting Time”, da “Building Hell”, oppure “Bruja Emperatriz” da “Autonémesis”, dai primi anni Duemila.
Gran parte della scaletta non può che essere però dedicata all’ultima prova in studio dei sudamericani, che pescano la title-track e “Loas Petro”: tutte bordate di thrash lento e growlato, che ricordano i primi Dark Angel e, in generale, tutti quei gruppi che, mentre altri addolcivano il sound, lo portavano alle estreme conseguenze. Un’esibizione impeccabile, che si chiude con “Creatures”, traccia proveniente dall’omonimo album del 2004: un peccato davvero che i costaricani non siano riusciti a sfondare nel corso degli anni. Per quello che ci riguarda, noi siamo corsi a comprare “Omnipotente” subito dopo l’esibizione. (Dario Onofrio)
Definire ‘concerto’ uno show dei GUTALAX non è probabilmente corretto al cento per cento, visto che nell’ora passata in loro compagnia abbiamo assistito più a uno show di cabaret, con la musica a fare da accompagnamento alle battute e agli scherzi fatti dal quartetto della Repubblica Ceca.
Ciò nonostante, sarebbe da ipocriti dire che non ci siamo divertiti a suon di grindcore e pig squeal portato alle estreme conseguenze: dopo l’intro affidata a “Ghostbusters” è un susseguirsi di titoli idioti, lanci di carta igienica e gonfiabili, con continui insulti al pubblico (chiamato, testuali parole, “piccoli cazzi“) e altre amenità. Inutile dire che il pubblico è ovviamente partecipe dello scherzo: nel pogo vediamo salvagenti, gente con la maschera di cavallo, lecca lecca gonfiabili, gente con pannolini e scopini del cesso in testa e molto altro, in un delirante carnevale metal.
Arriva “Vaginapocalypse”, questa volta dedicata ai nostrani Guinea Pig, ad aprire scenari in cui disgusto e divertimento trovano nuovi modi di unirsi, anche se il momento più divertente di tutta l’esibizione è stata quando, su una base di musica epica e strumentale, i nostri hanno sovrapposto un gonfiabile a forma di pizza a uno a forma di ananas, con tanto di urlo di disgusto alzatosi dalla folla. Non possono poi mancare pezzi come “Diarrhero” e “Fart And Furious”, anche se la chiusura del concerto è affidata a “Strejda Donald”, dal primo demo della band, e a un’outro tratta da un certo video con Gandalf e un sassofono in loop inciso nella memoria di molti. Se l’obiettivo della giornata era farci divertire prima dei piatti forti della serata, che ci riporteranno a una dimensione più seria, i Gutalax ci sono ovviamente riusciti. (Dario Onofrio)
Dopo il marasma cazzone e ignorante dei cechi, i SYK settano decisamente il mood della serata su lidi più introspettivi e taglienti: il loro death metal è tagliente e tecnico come i Meshuggah, ma con un groove vicino anche ai Gojira pre-“L’Enfant Sauvage”, fuso con una vena introspettiva davvero personale, soprattutto nell’ultimo “EarthFlesh”.
Elaborazione del lutto, empatia, contemplazione, scenari devastanti e distruzione cosmica si mescolano ai riff di Marcello Cravini e Stefano Ferrian, ai pattern intricati di batteria, al respiro schioccante del basso, in un ibrido sonoro violento e capace di polverizzare le ginocchia; i suoni, tra l’altro, permettono di apprezzare le sfumature ‘storte’ di moltissimi passaggi, e donano uno spessore particolare all’intera performance. (Sara Sostini)
Se avessimo potuto scegliere noi una scaletta per i CYNIC, probabilmente non saremmo riusciti a mettere insieme un concerto bellissimo come quello che gli statunitensi hanno portato al Frantic Fest. Mentre alcuni approfittano della pausa per cenare, chi apprezza le sonorità più tecniche e progressive affolla velocemente il main stage mentre Paul Masvidal e soci irrompono con “Nunc Fluens”, dal bellissimo “Traced In Air”, album da cui prenderanno gran parte delle tracce.
Vedere un concerto dei Cynic diventa quasi una dimensione trascendentale e sacrale: non vola una mosca, non c’è pogo, solo assuefazione alla qualità musicale e sonora che ci viene proposta in quel di Francavilla. Anche i pezzi degli ultimi dischi, ormai decisamente più spostati sul lato progressive che sul death metal tecnico dei primordi, ci trascinano in un mondo criptico fatto di atomi, come con “In a Multiverse Where Atom Sings” e “Infinite Shapes”.
La band sembra veramente in forma, e non possiamo che essere grati a Masvidal per aver voluto tenere in vita la sua creatura dopo la triste scomparsa di Sean Reinert e di Sean Malone nel 2020, forse anche proprio come tributo ai due compagni di strada.
Tutto è infatti sembrato fuorché uno di quei concerti che i più maliziosi direbbero legati al vil denaro: si vede che l’eclettico chitarrista ha trovato una propria via grazie ai nuovi musicisti che dal vivo lo accompagnano, cosa che si respira benissimo fra un brano e l’altro mentre ci parla del perché e del per come ha scelto la scaletta. Una esecuzione impeccabile, che culmina dopo “Humanoid”: quasi doverosi gli estratti da “Focus”, in questo caso introdotti da “Textures”, per la nostra estrema gioia.
Alla fine viene chiamato sul palco Stefano Ferrian degli Syk, il quale ha l’onere e l’onore di cantare i brani più ovviamente attesi dai presenti: con “How Could I” e “Veil Of Maya” si chiude un concerto davvero memorabile, che ci rinfranca sulla tenuta della formazione capitanata da Masvidal e ci fa ben sperare in un nuovo futuro di rinascita. (Dario Onofrio)
‘Delirio sonoro’: solo così riusciamo vagamente a descrivere un concerto dei BOLOGNA VIOLENTA.
Il duo composto da Nicola Manzan (voce, chitarra, violino, basi e ironia devastante) e Alessandro Vagnoni (batteria, spalla morale e comica) è un concentrato micidiale di grind schizzato, elettronica acida e idrofoba, inserti di film o documentari alla Istituto Luce, chilometri e chilometri di sarcasmo al vetriolo – solo per dare un’idea, il concerto comincia sulle note di “Franco, Ciccio e il pirata Barbanera” e chitarre a motosega.
Manzan, a dispetto della feroce urticabilità della propria musica, è un mattatore sagace e capacissimo di entrare a gamba tesa nel mood del festival – e nei cuori del pubblico, che non ci mette molto a istaurare un dialogo di prese per il culo e sudatissima energia, senza un calo di tensione per tutta la durata del concerto.
Così tra “Maledetta dal Demonio” e “Tuk Tuk Extravaganza” ciascun pezzo arriva fulmineo, velocissimo e letale come un dardo al curaro, a regalarci uno spaccato fugace su quella linea dell’orizzonte dove grind, noise e industrial sono fusi con i poliziotteschi italiani e fango: e, dobbiamo ammettere, il panorama presentato è assurdo, ma con una propria, stralunata bellezza. (Sara Sostini)
Le energie rimaste sono poche, dopo tre giorni (più uno) di festival, ma quando i NAPALM DEATH attaccano con “From Enslavement To Obliteration” non c’è una persona che non si alzi in piedi e corra davanti al palco principale per tributare amore, rispetto e stima ad un’istituzione della musica metal estrema tutta.
Pionieri della mutazione genetica del death metal in grindcore, fieri appartenenti ad una scena punk e hardcore mai per fortuna rinnegata, a parole e fatti, gli inglesi sono sempre una gioia da vedere: nonostante gli anni che passano e gli acciacchi a irrigidire un po’ le movenze (soprattutto di uno Shane Embury ancora leggermente affaticato dai passati problemi di salute), Barney e soci consegnano al Frantic un concerto quadratissimo e intenso, capace di trapassare occhi, orecchie e cuore con una panoramica sulla sterminata discografia dei nostri.
Come potrebbe non essere così, d’altronde, quando il messaggio veicolato ai riff assassini, alle urla gutturali, alla tensione nervosa della sezione ritmica è così orgogliosamente tenace, coerente e vibrante nel ribadire l’esigenza di lotta sociale per i diritti di chiunque, antimilitarismo, critica ad un sistema economico opprimente e distruzione di un mondo famelico e carico di ingiustizie?
Passano “Resentment Still Simmers”, “When All Is Said and Done” e le più recenti “Backlash Just Because” e “Metaphorically Screw You”, arrivano le immancabili, sempre micidiali “M.A.D.”, “Scum” e “You Suffer?”, passa anche “Amoral” e il suo pulsare cupo, arriva anche la cover di “Nazi Punks Fuck Off” dei Dead Kennedys cantata da quasi tutto il pubblico, e con la doppietta “Instinct of Survival”/”Contemptuous” il quartetto di Birmingham si congeda lasciando ossa rotte e cuori sorridenti.
Un mondo in cui esistono ancora i Napalm Death fa un po’ meno schifo. (Sara Sostini)
Agli UADA resta infine il compito di mettere la chiosa finale a questa edizione del festival, ed è una chiusura bellissima a base di fumo e ululati al chiaro di luna.
Avevamo visto recentemente gli americani all’opera sul palco dello scorso Luppolo In Rock il pomeriggio dell’ultimo giorno, ma ovviamente col favore della notte il loro black metal della ‘recente’ scuola Mgla/Groza acquista una nerissima marcia in più, capace di mostrare davvero le differenti sfumature, fatte di melodie lancinanti e riff dal filo tagliente, della loro musica.
Sulla carta, nulla di nuovo, anzi: la ‘solita’ proposta black metal moderna a base di cappucci, una certa orecchiabilità di fondo che permea tanto “Djinn” (title-track di un album che ne ha fatto invece una delle proprie armi preferite), la recente, bellissima “Retraversing The Void” e le sue chitarre capaci di inchiodarsi nel cervello, quanto la più lontana “Black Autumn, White Spring“, un giubotto di cuoio interiore con le toppe ‘nichilismo mistico’ e ‘misantropia silvana’ appiccicate sopra; eppure la formazione dell’Oregon riesce a tessere con perizia e personalità un arazzo a colori – ovviamente – nerissimi, ad avvolgere un pubblico equamente diviso tra sguardi rapiti, teste che si muovono a ritmo e gente oramai al di là della sbronza molesta che poga a casaccio nelle prime file.
“Cult of A Dying Sun” brilla di luce propria, e illumina una notte carica già della malinconia di fine festival, scaldando a modo proprio l’animo come solo le note nate da un’oscurità interiore pulsante di energia sanno fare.
Non potevamo chiedere davvero una conclusione – intensa, e a modo proprio toccante – migliore per gli ultimi saluti ad un’edizione del Frantic Fest ancora una volta intensa e ricchissima. (Sara Sostini)