11/04/2015 - FRONTIERS ROCK FESTIVAL 2015 @ Live Music Club - Trezzo Sull'Adda (MI)

Pubblicato il 25/04/2015 da

FRONTIERS ROCK FESTIVAL 2015
11/04/2015 – 12/04/2015 – Live Music Club – Trezzo sull’Adda (MI)

FRONTIERS ROCK FESTIVAL 2015

Introduzione e reportage a cura di Gennaro Dileo
Foto a cura di Bianca Saviane

Il Frontiers Rock Festival giunge alla seconda edizione, dopo aver esordito lo scorso anno con una tre giorni da leccarsi i baffi. Tesla, Stryper e Night Ranger hanno rappresentato la sacra triade di un genere che pare stia risorgendo dalle proprie ceneri dopo lunghi anni di anonimato. Quest’anno i partecipanti sono apparsi decisamente meno invitanti per la ‘massa’, ma al contempo sono stati accolti come manna dal cielo da tutti i cultori dell’hard rock melodico. Ci rammarichiamo per la scarsa presenza del pubblico nostrano, evidentemente disinteressato nei confronti di un evento che andrebbe supportato a prescindere dai contendenti in lista. Questa mancanza è stata fortunatamente compensata dal nutrito pubblico proveniente dall’estero, il quale ha saggiamente scelto di non perdersi le eroiche gesta dei Pride Of Lions e di godersi la classe infinita della quale sono dotati i pesi massimi del genere come FM e Harem Scarem. Lo stand del merchandise è stato prevedibilmente preso d’assalto dai collezionisti o dai semplici appassionati del genere, i quali, mano al portafogli, hanno speso una consistente somma in CD, vinili e magliette. Come nota curiosa segnaliamo la presenza dell’ex cantante degli Accept David Reece, ora in forza ai Bonfire, intento a tracannare birra e a concedersi con empatia ai fan pronti a farsi fotografare con lui. Una nota di merito va sicuramente concessa anche al frontman dei Danger Danger, Ted Poley, il quale non ha fatto altro che passare il suo tempo in mezzo ai fan, increduli per la sua disponibilità, la sua gentilezza e la sua propensione ad abbracciare chiunque gli capitasse a tiro. Augurandoci vivamente di veder formalizzata una terza edizione di un evento francamente imperdibile per tutti i veri appassionati del genere, vi invitiamo a seguire il nostro report illustrato in calce. Si ringrazia Cristiano Canali per la fattiva collaborazione.

 

ANGELICA

Spetta alla cantante dei The Murder Of My Sweet, Angelica Rylin, aprire le danze della seconda edizione del Frontiers Rock Festival. Autrice di un gradevole debutto solista, nel quale spicca la presenza di alcuni prestigiosi ospiti del calibro di Jesper Strömblad (ex In Flames) e Magnus Karlsson (Primal Fear), la protagonista ha puntualmente svolto il suo compito denotando una comprovata capacità di tenere il palco. L’(hard) rock melodico coniato dalla frontwoman svedese piace senza regalare particolari sussulti, virtù che permette comunque di goderci una performance più che soddisfacente. La sua duttile estensione vocale è in grado di conferire il giusto colore ad episodi cangianti come “Breaking My Heart”, “Riding Out The Storm” e “To Your Rescue”, vivide testimonianze in musica di un’esibizione complessivamente positiva.

PRAYING MANTIS

Spesso celebrati dal pubblico unicamente per il meraviglioso debut “Time Tells No Lies”, negli anni Novanta i Praying Mantis hanno coraggiosamente intrapreso un percorso artistico che li ha spinti a scrollarsi di dosso le scorie della New Wave Of British Heavy Metal per addentrarsi nelle maglie melodiche dell’AOR. Dischi pregevoli come “Predator In Disguise” e “A Cry For The New World” sono entrati nel cuore degli appassionati di questa corrente artistica e la loro presenza al Festival era attesa da chi scrive con fervente curiosità. Le nostre aspettative non sono state deluse dagli inossidabili fratelli Troy, i quali ci hanno regalato una setlist con i fiocchi, meritevole di coniugare il meglio del passato e del presente. L’incantevole doppietta d’apertura costituita da “Children Of The Earth” e “Panic In The Streets” ci provoca qualche gradito brivido sulla spina dorsale, complice una brillante coesione collettiva. I Nostri propongono due brani inediti, inclusi nel nuovo album di prossima pubblicazione intitolato “Legacy”. “Fight For Your Honour” e “Believable”, di primo acchito, appaiono come due solide tracce incentrate su di un robusto hard rock impregnato di melodia fino al midollo. La trascinante enfasi di “Captured City” ha il compito di concludere uno spettacolo coinvolgente, orchestrato da un gruppo di veterani che non ha la minima intenzione di gettare la spugna.

ECLIPSE

In attività da ben tre lustri, il collettivo svedese si esibisce per il secondo anno consecutivo sul palco del Frontiers Rock Festival, sintomo che la popolarità dei Nostri risulta in verticale ascesa sul territorio nazionale (e non solo). Complice uno spiccato senso della melodia intinto in un lotto di brani dal fragoroso impatto, la squadra capitanata dal biondo Erik Mårtensson viene prevedibilmente accolta tra i copiosi applausi dei presenti. Peccato che la performance fotografata in questa occasione non sia stata altrettanto solida e convincente come pronosticato, complice una resa sonora tutt’altro che irresistibile. Il frontman ha palesato alcuni importanti cali di tensione vocale nel corso dello show, incertezze francamente inaccettabili per chiunque voglia ambire a distinguersi nel marasma di gruppi attualmente in attività. L’indiscutibile professionalità ed il fervente entusiasmo palesato dagli scandinavi ha comunque permesso loro di conquistare ancora una volta il cuore di gran parte degli spettatori, inebriati da spumeggianti anthem come “I Don’t Wanna Say I’m Sorry’, “Stand On Your Feet” e “Blood Enemies”. Rimandati a settembre, quando torneranno dalle nostre parti.

BURNING RAIN

L’urticante hard rock forgiato nel fuoco dal chitarrista Doug Aldrich (ex Lion e Whitesnake, tra gli altri) e dai suoi compagni di merende possiede l’indiscutibile virtù di librare nell’aria i nostri istinti primordiali. La bruciante passionalità profusa dal quartetto yankee sintetizza come un meccanismo ad orologeria le principali peculiarità di un genere duro a morire. I protagonisti si sono resi artefici di una vibrante e chiassosa esibizione con il cuore orientato negli anni Settanta e con i piedi saldamente piantati nel Ventunesimo secolo. La terremotante ritmica composta dal batterista Matt Starr (attualmente in forza ai Mr. Big) e dal bassista Sean McNabb (Dokken, Quiet Riot e mille altri) spiana la strada ai mirabolanti assoli al fulmicotone elaborati con precisione chirurgica dallo scatenato chitarrista biondo-crinito. Il frontman Keith St. John rappresenta l’archetipo del cavallo di razza, capace di far sue le migliori virtù di gente come Robert Plant e Steven Tyler per rielaborarle con assoluta credibilità. Gran parte delle tracce presenti sull’ultimo studio-album “Epic Obsession” vengono oltremodo amplificate da un voltaggio elevatissimo, smorzato in alcuni frangenti nella rielaborazione in chiave bluesy di “Crying In The Rain” dei Whitesnake. L’epilogo viene affidato all’immortale sincope esotica di “Kashmir” dei Led Zeppelin, nella quale figura come ospite il bravissimo produttore e musicista Alessandro Del Vecchio, che contribuisce a sigillare una prestazione poco meno che perfetta. Che botta.

FM

In trent’anni di carriera, la band inglese ha scolpito almeno due capolavori dell’Adult Oriented Rock come “Indiscreet” e “Tough It Out”, per poi collezionare una serie di lavori più che validi progressivamente orientati su un rock classico annaffiato da forti sentori blues. Per la prima volta in assoluto gli FM giungono in Italia e non deludono le aspettative di tutti coloro che nel corso del tempo hanno divorato avidamente le loro composizioni. Con uno stile meravigliosamente british, i Nostri si palesano sul palco e, con le sapide note di “Tough Love”, dimostrano da subito di che pasta sono fatti. Sin dalle prime battute l’impianto acustico fa nuovamente qualche capriccio, offuscando il suono delle chitarre e la voce di Steve Overland, fortunatamente meglio bilanciate sulle note dell’immortale hit “I Belong To The Night”, magnificamente narrata da un corposo affresco di tastiere. L’ossessione del frontman nei confronti dell’inarrivabile ugola di Paul Rodgers si palesa nella sua bellezza in episodi dal sapore autentico come “Crosstown Train” e “Digging Up The Dirt”. Le sgargianti note profuse dalle incendiarie “That Girl” e “Tough It Out” riportano in vita, per pochi istanti, l’immaginifico ventaglio di colori che ha contribuito a rendere magici gli anni Ottanta. Classe da vendere.

HAREM SCAREM

Mancavano pochi giorni all’inizio del Festival, quando è stata confermata l’assenza dello storico chitarrista Pete Lesperance a causa di un serio infortunio al braccio. Una notizia del genere ha comprensibilmente smorzato l’entusiasmo dei fan più accaniti della band canadese, ma per nostra fortuna questo incidente non ha minimamente intaccato la resa di uno spettacolo a dir poco perfetto. Harry Hess e soci dimostrano di essere in una forma psicofisica strabiliante, magnificata da una setlist eterogenea dalla quale spiccano alcuni dei brani più belli mai incisi dal combo che ha da poco compiuto i venticinque anni di onorata carriera. A tratti ci risulta veramente difficile credere che i Nostri siano in grado di replicare in maniera così certosina quanto inciso in studio. L’unica reale differenza viene palesata dallo stile chitarristico plasmato dal sostituto Michael Vassos, estremamente astuto nel non voler competere con l’illustre assente, mostrando ai potenziali detrattori di che pasta è fatto. L’estro alle sei corde ben si sposa con l’eclettico hard rock melodico finemente intarsiato con disarmante classe e tecnica da questo poker d’assi. Brani immortali come “Hard To Love”, “Distant Memory”, “Sentimental BLVD.” e “No Justice” esprimono quanto di meglio potesse offrire l’hard rock all’inizio degli anni Novanta. Anche gli episodi più recenti non sono da meno, anzi, una botta di vita come “Garden Of Eden” riesce ad innescare quella dose esagerata di entusiasmo che solo i Maestri del genere riescono ad offrire. Immensi.

JOE LYNN TURNER

Chi scrive non si sarebbe mai aspettato di assistere ad uno spettacolo surreale e indecoroso come quello offerto dall’ex-cantante di Rainbow e Deep Purple. Con un atteggiamento strafottente degno della peggior primadonna, il protagonista ha inanellato una serie di cadute di tono che ben si addicono alla figura della triste rockstar avviata sul viale del tramonto. Tocca ai talentuosi Dynazty supportare strumentalmente un protagonista prigioniero del suo stesso personaggio, che offre in maniera opaca una consistente fetta del suo passato arcobaleno. “Death Alley Driver”, “I Surrender”, “Stone Cold” e “Street Of Dreams” vengono reinterpretate con gran piglio strumentale, ma con scarsa dose di fiato e convinzione. La breve collaborazione con Yngwie Malmsteen viene riportata alla luce dall’oblio del tempo con brani esaltanti come “Rising Force” e “Déjà Vu”, così come riteniamo sia positivo pagare il giusto dazio a Ronnie James Dio con “Man On The Silver Mountain” e, se proprio vogliamo esagerare in tributi, “Long Live Rock ‘n’ Roll”. Invece è francamente intollerabile vedere il Nostro ignorare del tutto la sua discografia solista per dar vita a delle vere proprie cover a lui estranee come “Burn”, “Perfect Strangers” e “Highway Star” dei Deep Purple, ottenendo un risultato finale al limite del grottesco. Con il trascorrere del tempo lo spettacolo assume la forma di una gigantesca presa per i fondelli nei confronti di tutti coloro che sino ad oggi hanno difeso a spada tratta un (defunto) artista che, in passato, ha svolto egregiamente il difficile compito di sostituire voci storiche come Gillan e lo stesso Dio, cantando su brani davvero validi e meritevoli di riscoperta. L’apice del dramma viene raggiunto nel rifacimento della celebre “Smoke On The Water”, epitaffio da cover band del sabato sera posto come pietra tombale di un personaggio dannosamente egocentrico, che si è pure preso la briga di sfottere il pubblico (rivolgendosi ai presenti come “Great Britain”) che non urlava abbastanza per lui. Che amarezza.

BAILEY

Il secondo giorno viene inaugurato da Nigel Bailey, frontman dei Three Lions ed autore di un esordio da solista più che dignitoso. Il corpulento protagonista dimostra anche in questa occasione di avere una voce formalmente impeccabile, pulita e squillante, meritevole di fornire un valore aggiunto ai brani qui proposti. Inoltre, il cantante è anche un abile chitarrista, fattore che permette di imprimere maggior spessore e potenza all’esibizione. “Long Way Down” e “Bad Reputation” possiedono la giusta dose di smalto e sostanza. L’ammiccante singolo “Trouble In A Red Dress”, inciso sotto l’effige dei Tre Leoni, conferma le potenzialità non ancora completamente espresse da un artista che potrebbe regalarci grosse soddisfazioni nel futuro prossimo. Da tenere d’occhio.

VEGA

Dalla perfida Albione giunge in Italia una giovane e sorprendente band che sta dimostrando di avere la necessaria stoffa per diventare grande. Assurta alla cronaca per una recente e sterile polemica nei confronti degli H.E.A.T., i Vega eliminano ogni dubbio sul volersi fare della semplice pubblicità gratuita offrendo un’esibizione complessivamente impeccabile, orientata verso un rock melodico dall’approccio schiettamente moderno. Forte di un album valido ed ispirato come “Stereo Messiah”, il quintetto britannico palesa un’invidiabile coordinazione nei cori ed un’abilità strumentale a tratti straordinaria. La prima parte del concerto è da tramandare ai posteri, grazie ad un’esecuzione collettiva impeccabile, meritevole di valorizzare ulteriormente episodi già di per sé esaltanti come “The Wild, The Weird, The Wonderful” e “Gonna Need Some Love Tonight”. Nella seconda parte dello spettacolo si palesa un calo fisiologico dei protagonisti, probabilmente causato dalla relativa inesperienza in sede live o dalla semplice emozione. Se i Vega riusciranno a limare velocemente le imperfezioni trapelate in questa occasione, ci ritroveremo dinnanzi ad un’indiscutibile realtà di spessore del genere. Puntiamo su di loro.

TED POLEY

Contrariamente a quanto offerto dal pessimo Joe Lynn Turner, Ted Poley rappresenta quanto di meglio ci possa offrire una navigata rockstar. Il biondo cantante anche in questo frangente ha regalato una prestazione di assoluta qualità, peraltro affiancato da una solidissima band nostrana composta dall’onnipresente Alessandro Del Vecchio alle tastiere, Mario Percudani alle chitarre, Anna Portalupi al basso e Alessandro Mori dietro le pelli. Consapevole di essere un intrattenitore nato, il buon Ted non lesina un’oncia di energia, muovendosi con brio da un’estremità all’altra del palco, intrattenendo anche fisicamente i presenti, lanciando palloncini da gonfiare che progressivamente diventano parte integrante della scenografia. Sperticate lodi vengono profuse durante l’esecuzione dei brani dei Danger Danger: “Under The Gun”, “Bang Bang” e “Naughty Naughty” rappresentano quanto di meglio ci potesse offrire un gruppo glam metal / party rock sul finire degli anni Ottanta. La power ballad “One Step From Paradise”, nella quale figura come ospite la cantante Issa Oversveen, viene introdotta da un divertente siparietto che assume una piega ilare durante la traduzione del termine “paradise” in italiano. Spigliato e disinvolto, il Nostro non ha paura di immergersi in un bagno di folla, che assiste incantata ad uno spettacolo brillante offerto da un artista dotato di un’umanità rara ai giorni nostri e onnipresente in mezzo al pubblico durante tutti i due giorni del festival. Applausi.

PINK CREAM 69

Chi scrive era in febbrile attesa di vedere in azione la band di Karlsruhe, forte di una corposa discografia prevalentemente orientata verso un hard rock avvolto da marcati accenti metallizzati e profumato da una consistente dose di melodia. “Keep Your Eye On The Twisted” apre le danze con tellurico vigore e ci presenta un collettivo agguerrito, intenzionato a conquistare il cuore del pubblico italiano, purtroppo non eccessivamente coinvolto almeno per quanto concerne la prima parte del set. Il frontman David Readman dimostra di mantenere saldamente il controllo della situazione a livello scenico e francamente rimaniamo stupiti dalla scelta dei brani, in gran parte estratti dai primi tre album con Andi Deris al microfono. È impossibile e controproducente paragonare due ugole così distinte, ma resta il fatto che il protagonista esca sconfitto a testa alta dal duello nei confronti dell’attuale cantante degli Helloween. Questo fattore non è determinante nel penalizzare un lotto di episodi tremendamente ispirati come “Talk To The Moon”, “Do You Like It Like That”, “Hell’s Gone Crazy” e “Welcome The Night”, eseguiti con perizia certosina ed indubbio impatto da un gruppo che non dimostra di lambire quasi trent’anni di carriera.

HOUSE OF LORDS

James Christian e soci si sono resi protagonisti di un’ottima esibizione, costellata da un affiatamento collettivo eccelso che ha permesso loro di riscuotere una generosa dose di applausi sin dalle prime battute. I Nostri hanno optato per una scaletta variegata, allo scopo di rendere i dovuti omaggi al loro illustre passato ed al contempo valorizzare alcuni tra gli episodi migliori estratti dagli ultimi lavori. Il frontman è l’unico membro originale di una formazione che non si avvale di un tastierista da almeno dieci anni, optando per una selezione di basi e arrangiamenti campionati. Se da un lato questa soluzione può far comprensibilmente storcere il naso ai puristi del genere, dall’altro non penalizza un impatto sonoro sicuramente lodevole. Nonostante il carismatico Christian sia reduce da un periodo non esattamente fortunato, a causa di un cancro che ha rischiato seriamente di mettere a rischio la sua vita, il protagonista ha concentrato tutte le sue energie per dar vita ad uno show emozionante. Anche se la voce non appare più cristallina come una volta, non possiamo rimanere indifferenti all’epos profuso nell’interpretazione di alcuni cavalli di battaglia come l’imperiosa “Sahara”, la toccante semi ballata “Can’t Find My Way Home” e la smash hit “I Wanna Be Loved”. La vitale energia di “Big Money” e “Come To My Kingdom” testimonia l’arguzia degli House Of Lords nel non volersi cristallizzare in un glorioso passato, preferendo osare con soluzioni dal taglio più moderno. L’eroica solennità di brani come “Battle” e “Cartesian Dreams” illustra l’ottimo stato di salute di una band che meriterebbe più attenzione da parte di una consistente fetta di pubblico pigra e svogliata. Da applausi.

LYNCH MOB

Il collettivo guidato da George Lynch, eroico chitarrista dei Dokken nonché mente di questo progetto fondato oltre venticinque anni fa, si rende artefice di una prestazione altalenante, minata da una resa acustica francamente poco nitida e chiassosa. Rimaniamo altresì infastiditi dal modo di fare adottato dal leader sulle assi del palco, il quale palesa un’insofferenza ed uno scazzo apparentemente ingiustificabili per un professionista come lui. Il palpabile ronzio della chitarra ha penalizzato un concerto nel quale i brani estratti dal valido “Wicked Sensation” assumono marcate tinte grunge (il trittico iniziale composto da “She’s Evil But She’s Mine”, “River Of Love” e “Hell Child” potrebbe far parte della discografia di un qualsiasi gruppo minore di Seattle), salvati in corner dall’ugola di razza del coriaceo Oni Logan e dalla puntuale ritmica scolpita dall’infaticabile bassista Sean McNabb. Ci pensano alcuni cavalli di battaglia dei Dokken a risollevare l’animo di un pubblico comprensibilmente immobile: l’anthemica “Into The Fire”, la power ballad “Alone Again” ed il verace heavy metal di “Tooth And Nail” appaiono incredibilmente fresche ed esaltanti. Il funambolico chitarrista conquista la platea con l’assurda cavalcata solista denominata “Mr. Scary”, che confluisce nella frizzante “Wicked Sensation”, a conclusione di uno spettacolo in salsa agrodolce.

PRIDE OF LIONS

Non ci sono aggettivi per definire lo spettacolo concesso dai Leoni guidati dall’estroso polistrumentista Jim Peterik, artefici di una prestazione da tramandare ai posteri. Valorizzati da un’acustica paradisiaca e da un impatto sonoro devastante, i Nostri hanno regalato un concentrato purissimo di emozioni elevate al cubo. Non capita a tutti i concerti di veder commuoversi una discreta parte del pubblico durante l’esecuzione della singhiozzante ballata “Man Against The World” e trasformare la celebrazione dell’immortale Jimi Jamison durante la lunga coda conclusiva di “Eye Of The Tiger”. A sessantacinque anni suonati Peterik dimostra di possedere un’energia invidiabile ad una consistente fetta di giovani artisti contemporanei, ricamando sontuosi intarsi alle tastiere, levigando energici riff alle chitarre e dilettandosi al microfono insieme al cantante Toby Hitchcock, con risultati straordinari. Quest’ultimo possiede una poderosa voce da tenore, meritevole di conferire uno spessore unico ai brani qui proposti. La setlist contiene alcuni tra i migliori episodi targati Pride Of Lions, i quali non hanno nulla da invidiare al passato dei monumentali Survivor. Una legnata nei denti come “Born To Believe In You” è in grado di ridimensionare pesantemente i risultati ottenuti dagli Stratovarius più ispirati, così come le anthemiche “It’s Criminal” e “Sound Of Home” magnificano il lato più puro e brillante dell’AOR contemporaneo. A sorpresa sale sul palco il cantante Marc Scherer, protagonista di una collaborazione in studio con l’iperattivo Peterik che tutti potranno ascoltare nell’album “Risk Everything”. La title track e “Cold Blooded” appaiono inappuntabili per tutti i fanatici del genere ma il buon Marc, pur essendo dotato di una voce limpida e potente, perde impietosamente la sfida nei confronti di un inarrivabile Hitchcock, autentico prodigio del canto. Una parte della scaletta viene dedicata come previsto al compianto Jimi Jamison, accolta come manna dal cielo da tutti coloro in attesa di godersi le hit della band americana leader della colonna sonora del mitico Rocky. Il vigoroso arena rock di “I Can’t Hold Back”, la classe adamantina sprigionata da “Oceans” e “High On You” hanno beneficiato di un’esemplare reinterpretazione da parte di un collettivo che dovrebbe rappresentare un faro per tutte le nuove leve desiderose di traslare il verbo dell’Adult Oriented Rock nel Ventunesimo secolo. Commoventi, unici e indimenticabili.

2 commenti
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