Introduzione e reportage a cura di Gennaro Dileo
Si ringrazia Cristiano Canali per la fattiva collaborazione
Il Frontiers Rock Festival è diventato un appuntamento ormai irrinunciabile per tutti coloro che amano l’hard rock melodico in ogni sua sfaccettatura. Per merito della smodata passione palesata dallo staff della celebre etichetta discografica partenopea, l’evento giunge alla fatidica prova del tre a testa alta, regalandoci un ampio ventaglio di emozioni che ricorderemo per molto, molto tempo. Anche in questa occasione il rodato Live Music Club di Trezzo Sull’Adda ha ospitato per due giorni una kermesse potenzialmente esplosiva, nella quale hanno partecipato alcune vecchie glorie del genere come Treat, Talisman e Last In Line, valorosamente affiancate da nuove promesse affamate di successo come Inglorious, Shiraz Lane e The Treatment. Purtroppo anche in questa occasione una discreta fetta di appassionati, o presunti tali, ha preferito dedicare tempo ed energie altrove, lasciando qualche spazio di troppo da colmare nell’ampio palazzetto ubicato alle porte di Milano. È altresì ammirevole l’indescrivibile umanità mostrata da alcuni protagonisti, che hanno scelto di dedicare gran parte del proprio tempo libero ai fan nell’area esterna del locale. In particolar modo, ci preme citare l’esemplare atteggiamento adottato da Robbie LaBlanc, frontman dei meravigliosi Find Me, il quale si è più volte commosso dinnanzi alla generosa dose di affetto mostrata da gran parte dei presenti nei suoi confronti, innegabilmente stregati da una performance posta lievemente al di sotto della perfezione. Tra solide certezze, gradite sorprese e qualche cocente delusione, siete tutti invitati a leggere la cronaca di un evento imprescindibile che, a quanto pare, vedrà la luce anche l’anno prossimo. Buona lettura.
NO HOT ASHES
Tocca allo storico quintetto nordirlandese il compito di scaldare i motori con un energico hard rock fieramente ancorato alla tradizione britannica che, in più di un’occasione, strizza l’occhio a quanto proposto dagli attuali FM. Pur senza raggiungere la comprovata eccellenza artistica della band guidata da Steve Overland, in poco più di mezz’ora i cinque protagonisti sciorinano un pugno di brani tutto sommato accattivanti e ben eseguiti. Dotati di un look sorprendentemente sobrio, i Nostri sfoggiano senza troppi fronzoli una solida coesione collettiva, smorzata altresì da un’eccessiva staticità sulle assi del palco. Poco male, in quanto episodi sufficientemente graffianti come “I’m Back” e “Summer Rain” strappano ai presenti una discreta dose di applausi. Un buon inizio.
SHIRAZ LANE
Incredibilmente dotati di una grinta e di un’energia da vendere a chili, preziose virtù che hanno risvegliato l’entusiasmo più animalesco della platea, i giovanissimi Shiraz Lane hanno dominato la scena per mezzo di uno spettacolo violento e, a tratti, assordante. Perdutamente devota al sacro verbo dello street metal più rozzo e aggressivo coniato a suo tempo da temibili bellimbusti come Skid Row, Dangerous Toys, L.A. Guns e Salty Dog, l’entusiasta compagine scandinava si è resa artefice di un impietoso assalto sonoro, perpetrato da bordate al cardiopalma come “Wake Up” e “For Crying Out Loud”. Solo la ballata al chiaro di luna “Same Ol’ Blues” ci ha permesso di tirare un attimo il fiato, prima di venire nuovamente investiti da un’incessante scarica di watt. Al contempo, è opportuno sottolineare che, in fase compositiva, i giovani finlandesi presentano ancora parecchi margini di miglioramento, in quanto sono emerse alcune (perdonabili) incertezze soprattutto all’altezza dell’umbratile “Behind The 8-Ball”. Anche l’ugola particolarmente squillante del frontman Hannes Kett può disincentivare i palati più fini, ma siamo convinti che in futuro questi vichinghi possano diventare qualcosa di più di una semplice promessa. Irruenti.
FIND ME
Abbiamo giusto il tempo di smaltire la colossale sbronza elettrica appena patita, prima di venire completamente avvolti dall’emozionante manto notturno che ha delineato la stratosferica esibizione dei Find Me. Guidati dal carismatico Robbie LaBlanc, il quale vanta un prestigioso passato negli sfortunati ma immensi Fury, il supergruppo ideato da un’intuizione vincente del patron di Frontiers Serafino Perugino ha cristallizzato, in un oceano di toccanti note, il concetto più puro ed immacolato dell’Adult Oriented Rock. Con un’umiltà ed una passione difficilmente riscontrabili altrove, LaBlanc e soci hanno avviato la macchina del tempo, al fine di cullarci con un’incredibile sequenza di melodie cangianti e ad ampio respiro, esaltate da una serie di ritornelli di rara ed impressionante bellezza. Come una lussuosa fuoriserie ben rodata, i protagonisti hanno mantenuto la tensione a livelli stellari dal primo all’ultimo secondo, rasentando la formale perfezione sotto ogni punto di vista. L’ugola smagliante del simpatico frontman non ha perso un’oncia di intensità e vigore, ergendosi ad indiscutibile protagonista all’altezza dell’accattivante “Nowhere To Hide”, della sontuosa “Dark Angel” e dell’anthemica “Midnight Memories”, autentico vertice emotivo di un’esperienza da tramandare ai posteri. Immensi.
THE TREATMENT
Ci pensa lo scapestrato combo inglese a riportarci nella cruda realtà, grazie al suo concreto e viscerale modo di intendere l’hard rock. Con tre ottimi studio album alle spalle che hanno permesso loro di accompagnare in tour alcuni mostri sacri del calibro di Alice Cooper, Kiss e W.A.S.P., il collettivo originario di Cambridge si è reso artefice di un concerto estremamente coinvolgente, pressoché privo di sbavature. Gran parte della nostra attenzione era rivolta soprattutto sul nuovo cantante Mitchel Emms, il quale si è dimostrato pienamente all’altezza del compito assegnatogli. Le sue corde vocali duttili e vigorose hanno retto alla forza d’urto generata dalla poderosa “Let It Begin”, ricamando al contempo sinuose ed avvolgenti melodie nella ballata “Backseat Heartbeat”. Anche il materiale di repertorio viene opportunamente rinfrescato ed amplificato da una prestazione collettiva al calor bianco, incapace di lasciare prigionieri sul campo di battaglia. Veniamo così inesorabilmente travolti dalle roventi note scandite dalle urticanti “I Bleed Rock + Roll” e “Shake The Mountain”, esplicite dichiarazioni di intenti di un gruppo che, allo stato attuale delle cose, merita di spiccare definitivamente il volo. Hot rod!
DRIVE, SHE SAID
Grottesca. Riteniamo non ci sia un modo più adatto per descrivere l’esibizione a dir poco sconfortante di una delle band più amate e rispettate dell’AOR. La curiosità di vedere finalmente in azione il tastierista Mark Mangold ed il cantante Al Fritsch era enorme ma, sin dal primo pomeriggio, giravano voci tra i presenti sul fatto che la performance in chiave acustica della sera prima riservata ai possessori del pacchetto VIP avesse lasciato parecchio a desiderare. Incuranti dei cosiddetti ‘rumors’, ci avviciniamo con entusiasmo immutato tra le prime file, ma mentre si alza il sipario osserviamo che i due protagonisti, affiancati da vari session man tra cui spicca il celebre Tommy Denander, sono impegnati pacatamente a completare il soundcheck. Chiudendo un occhio su questa brutta caduta di stile, attendiamo l’ufficiale apertura dei giochi con la diretta “Pedal To The Metal” e la frittata è fatta. Oltre ad essere terribilmente ingrassato, il buon Fritsch dimostra sin dalle prime battute di non avere più ossigeno nei polmoni. Inizialmente, l’enigmatico Mangold appare indolente e disorientato alle tastiere, fino a quando non ci accorgiamo che, di tanto in tanto, si ritrova a scrutare gli appunti scritti su dei foglietti volanti. Nonostante i volumi risultino enormemente sbilanciati in favore di una delle due chitarre, qualche brivido scorre sulla spina dorsale durante l’esecuzione dell’arrembante “Hard To Hold” e dell’immortale anthem firmata dai Touch “Don’t You Know What Love Is”, ma è impossibile non rimanere attoniti davanti alle continue stecche tirate dal frontman, nonché dal caos collettivo che regna sovrano sul palco. Ormai ci sembrava di aver toccato il fondo, ma all’improvviso fa la sua comparsa una certa Fiona Flanagan, autrice di tre ottimi studio album negli anni ottanta, la quale esegue un duetto di caratura discutibile con Fritsch nella zuccherosa “In Your Arms”. Alle sue spalle, però, notiamo la presenza di un’altra corista, successivamente identificata da una parte dei presenti come la giovane compagna di Mangold, anch’essa intenta a fornire il suo deciso contributo per far affondare la nave. Delusi e sconsolati da una situazione ingestibile e surreale, ci avviamo a prendere una boccata d’aria fresca sulle note della conclusiva “Writing On The Wall”.
TREAT
Seppur ancora sconcertati dalla triste prestazione offerta dai Drive, She Said, cerchiamo di recuperare velocemente l’entusiasmo svanito in prossimità del concerto dei Treat, storica ed amata realtà dell’hard rock melodico scandinavo. Con un palco addobbato per le grandi occasioni, gli svedesi vengono accolti con un autentico boato da una platea desiderosa di ascoltare alcuni grandi classici estratti dagli imprescindibili “Scratch And Bite”, “The Pleasure Principle” e “Dreamhunter”. Contrariamente alle nostre previsioni, invece, i protagonisti hanno deciso di impostare gran parte della scaletta (filmata e registrata per un futuro live) sulle ultime due uscite discografiche, generando così un parziale e prevedibile malcontento tra i presenti. Ovviamente, tale scelta è legittima, rispettabile e sacrosanta per un gruppo che, in apparenza, non vuole ad ogni costo riposare sugli allori, ma riteniamo assolutamente inaccettabile l’uso invadente e continuo di basi e cori preregistrati. Siamo consapevoli che determinate parti orchestrali (e non) siano irriproducibili dal vivo, ma una scelta simile si è rivelata a dir poco nefasta e controproducente per la band svedese. Ancora più grave ed irrispettosa nei confronti del pubblico pagante è stata la scelta del biondo cantante Robert Ernlund di adottare in ben più di un’occasione l’oscena arte del ‘lip sync’. Con tutti questi presupposti è inutile dire che lo spettacolo sia apparso tanto perfetto nella forma, quanto plasticoso e vuoto nella sostanza. Che si tratti del sontuoso mid tempo “Ghost Of Graceland”, dell’aggressiva “Paper Tiger” o dell’immortale anthem “World Of Promises” alla fine dei conti poco importa. La delusione è stata talmente cocente che una parte dei presenti ha deciso di uscire all’esterno del club prima della fine di un’esibizione che si è trasformata in una farsa.
LAST IN LINE
Di tutt’altra pasta, invece, si è palesata ai nostri occhi ed alle nostre orecchie l’esibizione dei Last In Line, celebre supergruppo guidato dal chitarrista Vivian Campbell e dal batterista Vinny Appice, impegnati a riportare in vita, con indubbia credibilità artistica, alcuni grandi classici inchiostrati a suo tempo insieme all’ineguagliabile Ronnie James Dio. Il bassista Jimmy Bain, purtroppo scomparso di recente, è stato rimpiazzato da un altro veterano del rock, Phil Soussan, abile ed esperto sessionman al servizio di alcuni pesi massimi come Ozzy Osbourne e Steve Lukather. Al microfono troviamo il giovane e carismatico Andrew Freeman, frontman dotato di un’estensione vocale pazzesca che, associata ad una straordinaria capacità interpretativa e ad un’indiscutibile personalità, rievoca egregiamente le eroiche gesta del compianto folletto italoamericano. Con una formazione del genere era praticamente impossibile fallire e, difatti, sin dalle prime battute scandite dall’adrenalinica “Stand Up And Shout” ci rendiamo conto di essere stati testimoni di un evento imperdibile. L’ammaliante “Egypt (The Chains Are On)”, il poderoso mid tempo “Straight Through The Heart”, l’irresistibile anthem “The Last in Line”, la devastante “We Rock” e l’immortale “Holy Diver” lasciano un segno indelebile sulla nostra pelle, per merito di un’esecuzione collettiva da lasciare a bocca aperta. Nonostante sia sull’onorevole soglia dei sessant’anni, il terremotante Appice pesta i tamburi come un dannato, dettando legge con la grancassa senza perdere una sola battuta, mentre un sorridente Campbell si destreggia abilmente tra riff chirurgici ed assoli sparati alla velocità della luce. È opportuno non dimenticarsi che queste straordinarie leggende viventi hanno rilasciato da qualche mese l’ottimo “Heavy Crown”, dal quale hanno eseguito con efficacia la mastodontica “Devil In Me”, l’introspettiva “Starmaker” e la punkeggiante “I Am Revolution”, alla quale spetta il compito di chiudere in maniera egregia la prima parte di una manifestazione che ci riserverà nel suo seguito altrettante sorprese.
BLOOD RED SAINTS
Il gong del secondo round viene puntualmente suonato dalla compagine inglese, impegnata in una fedele rilettura delle caratteristiche tradizionali dell’hard rock melodico britannico. Artefici di un gradevole esordio di recente pubblicazione, che ha riscosso un notevole interesse tra gli appassionati del genere, questi signori calcano le assi del palco con comprovata autorevolezza anche se, a onor del vero, la maggior parte dei brani eseguiti per l’occasione scorrono via senza offrire particolari sussulti. Tra gli episodi migliori ricordiamo volentieri la ruvida “Kickin’ Up Dust” e la trascinante “Better Days”, ma è innegabile che la totale attenzione dei presenti venga catturata durante un estratto della celebre ballad dei Bon Jovi, “Wanted Dead Or Alive”, catalizzando l’interesse anche per i brani successivi. Astuti.
INGLORIOUS
La temperatura interna del Live Club si innalza a livelli stellari durante la scoppiettante performance degli Inglorious, talentuoso collettivo capitanato dal carismatico cantante Nathan James, noto per aver collaborato con l’ex chitarrista degli Scorpions Uli Jon Roth ma, soprattutto, per la sua prestigiosa collaborazione con la Trans-Siberian Orchestra. Definita da Paul Anthony di Planet Rock Radio come il futuro del rock and roll, la giovane band si è resa protagonista di uno spettacolo devastante, magnetico e privo di ogni benché minima sbavatura. Il bollente hard rock impregnato di blues fino al midollo paga inevitabilmente dazio a mostri sacri del calibro di Led Zeppelin, Bad Company e Whitesnake, ma l’incendiaria miscela da loro proposta, unita ad una spiccata personalità in fase interpretativa, rappresentano gli ingredienti in grado di spazzare via gran parte della concorrenza attualmente in circolazione. I suoni grassi e saturi delle chitarre, il groove mastodontico scandito dalla batteria di Phil Beaver e l’attitudine da raro ed autentico animale da palcoscenico dell’implacabile James, rendono irresistibili episodi come “Until I Die” e “Breakaway”. Gli Inglorious si divertono pure a giocare d’azzardo, includendo nella scaletta due cover: “I Surrender”, scritta da Russ Ballard e portata al successo dai Rainbow, e “Girl Goodbye” dei Toto, entrambe anfetaminizzate da un muro sonoro in grado di tirare giù un palazzo. Impressionanti.
TERRY BROCK
Si cambia completamente registro durante l’esibizione di Terry Brock, storica voce dei superbi Strangeways nonché abile corista ed affermato compositore. Nel corso della sua trentennale carriera Brock è meritatamente diventato uno degli artisti più acclamati e rispettati nel vasto mondo del rock melodico, generando aspettative davvero molto alte. Accompagnato per l’occasione da una all star band italiana composta da Alessandro Del Vecchio alle tastiere, Anna Portalupi al basso, Edo Sala alla batteria e Francesco Marras alla chitarra, il frontman statunitense si è reso purtroppo protagonista di un’esibizione non particolarmente brillante e coinvolgente. Sin dalle prime battute, annotiamo che l’ugola del frontman fatica ad inerpicarsi sulle note più alte ed anche la sua prestigiosa backing band sembra procedere con il freno a mano tirato, limitandosi così a svolgere dignitosamente il compito a lei assegnato. La scaletta proposta risulta equamente suddivisa tra alcune gemme estratte dalla sua carriera solista, fra le quali spiccano la pulsante “No More Mr. Nice Guy” e “Face In The Crowd”, ed un’inevitabile manciata di esaltanti hit firmate insieme agli Strangeways. Ci pensa la superba “Jaded”, inclusa nel valido “Nowhere Land” di Mike Slamer, a riscaldare gli animi dei suoi fan più devoti, nel complesso soddisfatti di aver visto in azione uno dei pesi massimi del genere. Da rivedere, magari in un contesto più intimo, come la serata acustica riservata ai VIP durante la quale, secondo alcuni, Brock ha dato molto di più.
THE DEFIANTS
Il supergruppo composto dal bravissimo cantante e chitarrista ritmico Paul Laine, dal carismatico bassista Bruno Ravel e dal virtuoso chitarrista Rob Marcello si è reso protagonista di uno spettacolo coinvolgente e di altissima qualità, tanto da lasciare i presenti completamente a bocca aperta in più di un’occasione. L’irresistibile combinazione tra il frizzante glam metal ed il sopraffino hard rock melodico ha stregato tutti coloro che erano in attesa di gustarsi una manciata di estratti ‘minori’ dalla discografia dei Danger Danger, nonché di lasciarsi travolgere da alcuni tra i momenti migliori inclusi nell’imprescindibile primo album solista di Paul Laine, “Stick It In Your Ear”. Per l’occasione, nella setlist sono stati inseriti ben tre brani inediti inclusi nel recente esordio discografico a nome The Defiants che, pur non riuscendo ad eguagliare i picchi emotivi raggiunti nell’illustre passato, palesano chiaramente una più che discreta caratura qualitativa in fase di songwriting. L’irresistibile frontman ha letteralmente dominato il palcoscenico con la sua strabordante presenza e la sua voce, dura come l’acciaio e dolce come il miele, meritevole di aver risvegliato l’entusiasmo di una platea completamente asservita al suo volere. I monumentali anthem “We Are The Young” e “Dorianna” hanno fatto scendere qualche lacrima sul viso dei più nostalgici, mentre “Grind”, “Dead Drunk And Wasted”, “Goin’ Goin’ Gone” e una versione iper-vitaminizzata di “Beat The Bullet” ci hanno rimembrato il lato più duro e singhiozzante dei Danger Danger. Gli scalmanati protagonisti si sono anche esibiti in brevi ed ironici siparietti tra un brano e l’altro, lasciandosi andare ad un paio di inattese improvvisazioni. Il folle Bruno Ravel ha rubato la scena al biondo frontman per qualche istante, imitando con ottimi risultati Gene Simmons dei Kiss su “God Of Thunder”. Come ciliegina sulla torta i The Defiants hanno eseguito una deragliante versione della celeberrima “Paradise City” dei Guns N’Roses, a testimonianza del rinato interesse verso un genere risorto dalle sue stesse ceneri. Applausi.
GRAHAM BONNET BAND
Graham Bonnet è un’autentica leggenda vivente della musica contemporanea che, per merito della sua voce calda, squillante ed espressiva, ha ricoperto un ruolo fondamentale nel rendere irresistibili una serie di pietre miliari dell’hard rock tradizionale. Con un illustre passato al servizio dei pesi massimi del genere come Rainbow, Alcatrazz, Michael Schenker Group e Impellitteri, il protagonista ha snocciolato un ricco e sontuoso best-of, indispensabile nel tracciare un’ampia sintesi sulla sua lunga e onorata carriera. Accompagnato dal chitarrista Conrado Pesinato, dalla bassista Beth-Ami Heavenstone e dal tentacolare batterista Mark Zonder (Fates Warning, Warlord), l’elegante frontman ce l’ha messa davvero tutta per rinverdire i fasti del passato, ma in parecchie occasioni si è reso artefice di numerose e lampanti stecche, accompagnate altresì da un’interpretazione canora a tratti disordinata e mal gestita. Francamente, però, non ce la sentiamo proprio di bocciare su tutta la linea una performance sicuramente non perfetta, ma al contempo traboccante di passione ed energia. Le anfetaminiche note di “God Blessed Video”, “Assault Attack” e “Lost In Hollywood” vengono scandite con una precisione chirurgica da un incontenibile Zonder dietro le pelli. Il drammatico blues di “Love’s No Friend” disegna con maestria un’atmosfera toccante, riflessiva e solenne, ma spetta alle immortali anthem “All Night Long”, “Night Games” e “Since You Been Gone” riscuotere i consensi di un pubblico ancora evidentemente stordito dall’uragano denominato The Defiants. Rispetto.
TRIXTER
Si respira l’atmosfera delle grandi occasioni per l’attesissimo debutto in terra europea dei Trixter, mitica band statunitense che nei primi anni novanta ha inciso un paio di dischi di squisito pop metal (l’omonimo debutto ed il seguente “Hear!”), prima di venire risucchiata inesorabilmente dal terribile uragano grunge. Risorta improvvisamente nel 2007 in formazione originale, la goliardica compagine originaria di Paramus, New Jersey, ha dato vita di recente ad un altro paio di lavori di ottima caratura artistica, accolti con immutata stima dai fan che li aspettavano al varco. Le squillanti note di “Rockin’ To The Edge Of The Night” ci presentano sul palco una compagine entusiasta ed in ottima forma fisica, eccezion fatta per il batterista Mark “Gus” Scott in evidente sovrappeso, ma comunque impeccabile nel pestare i tamburi come un dannato. L’hype del pubblico schizza subito alle stelle e i presenti sono pronti, come mai prima d’ora, ad esaltarsi con le immortali hit “Road Of A Thousand Dreams”, “Waiting In That Line”, “Heart Of Steel” e “Line Of Fire”. Il chitarrista Steve Brown, peraltro chiamato di recente a rimpiazzare Vivian Campbell nelle date live dei Def Leppard, macina riff e assoli con una precisione certosina, offrendo sovente ampi e smaglianti sorrisi alle prime file in delirio. Anche il cantante Peter Loran si muove agevolmente sul palco, dimostrando di possedere un’invidiabile riserva di ossigeno nei polmoni, puntualmente accompagnata da un’ammaliante ed inimitabile capacità interpretativa. Episodi più recenti e lievemente più robusti nel costrutto sonoro come “Tattoos & Misery” e “Machine” riscuotono copiosi applausi dai presenti, a genuina testimonianza di un gruppo che vuole recuperare il terreno perduto a tutti i costi. Grandi.
TALISMAN
“Due anni fa abbiamo dedicato lo show al nostro bassista Marcel Jacob, questa volta lo dedichiamo esclusivamente a voi”. Con queste poche ma toccanti parole, il funambolico frontman Jeff Scott Soto si rivolge alla platea, elettrizzata sin dai primi istanti dal muro sonoro creato ad hoc dall’eclettico collettivo svedese. Un’ora e mezza abbondante nella quale siamo stati impietosamente travolti da un micidiale bombardamento sonoro, sempre in bilico tra funk, hard rock e metal, scagliato con genuina irruenza nei nostri timpani da una compagine padrona assoluta del proprio destino. Il chitarrista Pontus Norgren è artefice, come di consueto, di un’esibizione da tramandare ai posteri, sciorinando con apparente semplicità una sequenza impressionante di scale ed assoli al fulmicotone, puntualmente ricamati con gran gusto ed incredibile espressività. Il devastante impatto generato dalle roventi note di “Break Your Chains” prelude al cosiddetto show della vita e l’impressione viene subito dopo confermata dal sensuale e nervoso funk di “Colour My XTC”, brano letteralmente dominato dal basso pulsante di Johan Niemann (in forza agli Evergrey) e dall’ingombrante presenza scenica di Soto, vero e proprio mattatore della serata. Per la prima volta in assoluto, i Nostri eseguono con successo la graffiante “I’ll B There 4 U”, mentre la magnetica riproposizione di “Frozen” di Madonna riesce nell’intento di generare un’atmosfera da mille e una notte. La camaleontica ed accattivante “Mysterious (This Time It’s Serious)” conferma ancora una volta l’incredibile fantasia compositiva di un gruppo capace di spaziare da un genere all’altro con una naturalezza indescrivibile. La monumentale anthem “I’ll Be Waiting” viene cantata a squarciagola da quasi tutti i presenti, prima di lasciare spazio al previsto bis della zeppeliniana “Standin’ On Fire”. Quando i giochi sembrano conclusi, partono all’improvviso le prime note dell’immortale “Purple Rain”, doveroso tributo osservato con meticolosità assoluta nei confronti di uno dei musicisti più eclettici e talentuosi che ci abbia regalato il ventesimo secolo: Prince Rogers Nelson. Le luci viola sovrastano ancora il palco, mentre i protagonisti salutano i presenti tra generosi applausi e qualche lacrima. I giochi sono conclusi, arrivederci all’anno prossimo.