13/07/2007 - FROZEN ROCK OPEN AIR 2007 @ Prato Dei Popoli - Marcon (VE)

Pubblicato il 25/07/2007 da
Introduzione a cura di Marco Gallarati
Report a cura di Marco Gallarati, Maurizio ‘MoRRiZZ’ Borghi, Paolo ‘Cernunnos’ Vidmar e Valentina Spanna
Foto di Barbara Francone
Standisti: Alessandro Corno, Matteo Cereda, Maurizio ‘MoRRiZZ’ Borghi, Marco Gallarati e Valentina Spanna
 
Per Metalitalia.com l’edizione numero 1 del Frozen Rock Open Air è stata di particolare interesse e valore, non solo per l’ottima qualità delle band impegnate e per la bella giornata trascorsa, ma anche perché il vostro portale metal preferito ha avuto finalmente il piacere e l’onore di poter allestire ed organizzare il primo stand promozionale della sua storia. E per essere dei pivellini in merito, difficile dire di noi che non ce la siamo cavata più che bene! Ringraziando ancora una volta chi di dovere – organizzazione, etichette, distributori, colleghi della carta stampata e soprattutto voi accorsi al banchetto! – procediamo ora con il solito report riguardante questo bel festival esordiente, del quale fra l’altro eravamo partner ufficiali. E bando alle ciance e alle auto-celebrazioni, quindi! Un Sole pieno, caldo e indefesso per tutta la durata della manifestazione ha accolto il plotone di vostri redattori in quel di Marcon, poco oltre Venezia, in piena mattinata. Una buona oretta per completare l’allestimento dello stand e ci si comincia a chiedere quando mai verranno aperti i cancelli: la classica coda al casello di Mestre, infatti, ha fatto probabilmente ritardare un po’ troppo la massa mattutina di pubblico previsto, e quindi lo sciame di astanti è stato fatto affluire all’interno della location solamente intorno all’una! Un ritardo che non verrà praticamente mai recuperato, se non troncando di mezzora ciascuna le esibizioni di Meshuggah e Lacuna Coil. Molto carino è risultato essere il Prato dei Popoli, piccolo al primo impatto, ma perfetto invece per la quantità di gente accorsa (stimeremmo intorno alle 1500 unità); situato tra un campo da calcio ed un campo e basta, il prato ha ospitato un capiente tendone ‘modello Festa della Birra’, con tante panche e tavoli; uno stretto spazio verde tra palco e tendone formava il pit e la platea, mentre stand vari stazionavano ai fianchi del suddetto tendone-ristorante; opposto al palco, un fornitissimo servizio catering dispensava cibarie di diverso tipo, fra cui ha spiccato il gustoso e simpatico cono-pizza! Prezzi alti, ma in media con i festival italici di quest’anno, non hanno fatto storcere più di tanto il naso, mentre molto positivo il fatto che le zone d’ombra erano decisamente più di quelle al Sole. E le band, direte voi? Il bill era ottimo, poco da dire: soltanto i Lacuna Coil hanno un po’ stonato nel carattere underground dell’evento; ed infatti, purtroppo per loro e per la civiltà del metallaro medio, non sono mancati, durante la performance dei milanesi, cori pro-Meshuggah e poco gentili sfottò all’indirizzo di un’incolpevole Cristina Scabbia. Brutti episodi, ancora una volta. Meshuggah, My Dying Bride ed Entombed, precursori nei loro rispettivi generi, hanno fornito prove maiuscole; Schizo e Brutal Truth sono stati viaggi nella Storia mica male, con gli yankee assoluti protagonisti; Disillusion e Natron, infine, hanno aperto degnamente il Frozen Rock. Lasciandovi ora ai trafiletti band-by-band, ci auguriamo di rivedere questo festival anche l’anno prossimo, speranzosi di esserne di nuovo protagonisti diretti! Up the horns!
 
 
 
 
 

NATRON

I baresi Natron sono chiamati ad aprire le ostilità del Frozen Rock. In una cornice di pubblico ancora scarna e timidina, il quartetto pugliese si è comportato da ideale opener della kermesse. Il suo feroce death metal, debitore del sound americano dei primi Nineties ma insaporito da una ‘sensibilità’ tutta europea, si fa strada facilmente tra le tempie e le orecchie dei primi spettatori accorsi alle transenne. La band è fra le più esperte del genere in Italia, basti ricordare i quattro full-length della sua discografia, gli innumerevoli tour nel Vecchio Continente (sarà per questo che Mike Tarantino, il singer, ha presentato i brani alternando l’italiano all’inglese?) e la quasi decennale militanza nella francese Holy Records. I suoni sono sufficientemente buoni, i brani spaccano (“House Of Festering” su tutti) e i Natron si meritano ampiamente i primi applausi della giornata!

DISILLUSION

Prova del fuoco sui palcoscenici festivalieri nazionali per i Disillusion. Nonostante il calore del primo pomeriggio, un buon numero di estimatori si sistemano inneggianti sotto il palco, seguiti, a distanza, da una schiera incuriosita a cui i Natron hanno dato poco prima una sonora sveglia. La formazione di Lipsia non si fa pregare e sfodera tutta la multiforme irregolarità del nuovo corso, inaugurato a fine 2006 con il secondo full-length “Gloria”. Complici suoni già abbastanza calibrati, lo show può svolgersi senza incidenti di percorso. Nel tempo limitato a loro disposizione, i nostri, con grande coesione e apprezzabile sicurezza, si producono in un repertorio ricco di soluzioni, che un certo sperimentalismo della frantumazione non priva della capacità di suscitare la rumorosa partecipazione del pubblico. Sembrano lontani i giorni in cui, alle marcate influenze swedish-death, si univano la perizia di inserti classicheggianti e una strutturazione prog piegata a un risultato di scintillante potenza. Diversamente dai brani di “Back To Times Of Splendor”, il nuovo materiale appare decisamente rivolto a una ricerca di totale libertà espressiva, che si appropria di elementi convenzionali e li stravolge, li affianca, senza apparentemente preoccuparsi di conservare un impianto musicalmente riconducibile a modelli. Ma com’era prevedibile, la scelta della set-list si orienta in direzione del maggior coinvolgimento possibile, sfruttando i pezzi che mettono in luce un fraseggio vocale sensualmente accattivante, il cui registro grave stempera le asprezze dei cambi strumentali, permettendo in generale di creare un’atmosfera efficace e intensa, che finisce per conquistare anche chi ignorava l’esistenza della band teutonica. Nel complesso l’esibizione è stata soddisfacente e apre buone aspettative per un futuro live serale con maggiore tempo a disposizione, per rendere possibile lo spiegamento in forze delle composizioni più riflessivamente intricate e d’impatto meno immediato. E magari un contatto più sciolto e trascinante con il pubblico, che solo l’esperienza può garantire.
 

SCHIZO

Un evento. Poco ma sicuro. Se si pensa alla storia degli Schizo e alla loro importanza per la crescita del metallo estremo italiano, almeno in ambito underground, non si può non guardare all’esibizione odierna come ad un vero e proprio special event: dalla ripubblicazione del seminale “Main Frame Collapse” e dall’uscita del nuovo “Cicatriz Black”, infatti, questa è la prima data in assoluto che la formazione di Alberto Penzin tiene in Italia e non. Penzin al basso e S.B. Reder alla chitarra solista sono due colonne dell’avanguardia estrema tricolore, spalleggiate a dovere dai ‘nuovi’ pard, Dario Casabona alle pelli, Nicola Accurso alla voce ed il session Azmeroth all’altra sei-corde. Il materiale proposto ha fatto fare ai presenti un salto indietro nel tempo, quando probabilmente ancora pochi spettatori andavano alle medie; ovviamente il suono, seppure impastato sulle prime, ha reso moderno il thrash-death-core del combo siciliano. Presentatosi sul palco con passamontagna, cigarillo e bretelle da ‘black bloc hardcoreggiante’, Accurso non è stato fermo un attimo, nonostante il suo interagire con il pubblico sia stato minimale e lievemente imbarazzato; precisi nelle esecuzioni, un po’ freddi in presenza scenica e trasporto emotivo: questa l’impressione che gli Schizo hanno dato al Frozen Rock e ai suoi spettatori, molti dei quali non sapevano bene cosa aspettarsi da questa formazione ‘poco conosciuta’. Un problema all’avambraccio del drummer Casabona ha fatto temere il peggio dopo un paio di canzoni, ma poi tutto è filato liscio, con Reder, Penzin ed Azmeroth fermi sui loro piedi ma potenti e carismatici. Insomma, prestazione buona ma lievemente impacciata per i nostri alfieri di lungo corso; la band deve continuare a suonare per amalgamarsi meglio e destare in toto la curiosità e l’interesse nei suoi confronti. Un pezzo di storia definitivamente riesumato.
 

ENTOMBED

Quando il caldo è ancora micidiale tocca ad un gruppo che all’epoca ha ridisegnato i canoni del death metal: stiamo parlando ovviamente degli svedesi Entombed. Chi si aspettava un concerto da motoraduno si è subito dovuto ricredere alla grande perché nel 2007 gli Entombed, nonostante una discografia non sempre esemplare, hanno ancora voglia di spaccare le ossa con il loro death metal. Ed ecco allora un concerto letale, brutale, veloce nel ritmo e serrato con ottimi suoni, quelli che li hanno resi celebri e riconoscibili. Petrov interagisce bene con il pubblico, forse un po’ troppo cotto dal caldo soffocante per tributare il giusto omaggio alla band scandinava. “Left Hand Path” viene inevitabilmente tirata in ballo, ma oggi si gioca soprattutto con il capolavoro “Clandestine”, che viene riproposto in modo esemplare in numerosi dei suoi prestigiosi capitoli: da ricordare l’apice della prestazione dei quattro svedesi con la devastante “Stranger Aeons”. Chi ha avuto la fortuna di averli visti calcare i palchi più di un decennio fa probabilmente non si sarà impressionato più di tanto nel rivedere gli Entombed, di certo la band ha dato il massimo ed il risultato si è visto tutto.

BRUTAL TRUTH

Secondo pezzo di storia ad esibirsi al Prato dei Popoli, dopo gli Schizo tricolori, i newyorchesi Brutal Truth hanno letteralmente messo a ferro e fuoco il pit davanti al palco e non solo! Quasi un’ora di spettacolo, con pochissime pause e brani sciorinati senza tregua, tanto da perderne il conto e non raccapezzarsi più di dove finiva un pezzo e di quando iniziava il successivo. Quattro animali da palco allo stato brado: ecco cosa hanno dato l’idea di essere Dan Lilker, Kevin Sharp, Brent McCarthy ed il mostruoso batterista Rich Hoak. Lilker e McCarthy, basso e chitarra, sono risultati professionali e ribelli allo stesso tempo, in grado di reggere ritmi forsennati per una setlist terremotante, ma l’attenzione del pubblico è stata per forza catalizzata a centro palco, dove Sharp davanti e Hoak dietro hanno dato spettacolo: il barbuto singer, piedi nudi, sudore ovunque, uno strappo altezza natica sul retro dei pantaloni ed una discreta pancia, si è mosso in puro stile grind, dimenandosi e urlando con esperienza, senza neanche stare a considerare le 10-11 microfonate tiratesi sulla fronte (a fine concerto, infatti, una rosa insanguinata gli spuntava appena sotto i capelli); Hoak, dal par suo, in preda ad orgasmi da drumming, è stato del tutto simile al miglior Jerry ‘Picchiatello’ Lewis, con un campionario di smorfie e contorsioni da far morire dal ridere…peccato che contemporaneamente pestava pure come un forsennato sui tamburi. Gran prestazione, quindi, per gli storici grindcorers americani! E finalmente del sano, buon pogo senza esclusione di colpi!
 
 

MY DYING BRIDE

Siamo in zona crepuscolo, ma il Sole, per una volta tanto sempre rivolto verso i protagonisti sul palco, picchia ancora forte: non proprio l’atmosfera ideale per permettere ai Doom-Gods My Dying Bride di fornire una prestazione memorabile, così almeno avranno pensato in tanti. Ed invece, Aaron Stainthorpe e compagni sembrano proprio non risentire della temperatura e della luminosità della situazione, anzi, si impegnano a fondo per incupire e rabbuiare gli ancora pulsanti cuori reduci dalla ferocia dei precedenti Brutal Truth. Quindi, i Bride del Frozen Rock hanno fornito una prova eccellente, inanellando un’ottima sequenza di brani, equilibratissima tra pezzi più decadenti e romantici ed episodi corrosi da morbosa violenza. Il dannato frontman, catalizzatore di tutta l’arte del gruppo, si è presentato on stage ovviamente nero-vestito e con mani ed unghie sanguinanti smalto rosso: per chi già conosce l’interpretazione drammatica e sofferta del singer britannico, non sarà stata certo una sorpresa trovarlo rantolante ed inginocchiato durante le strazianti note di “The Cry Of Mankind”, masterpiece assoluto del sestetto. Per chi invece visionava per la prima volta la band, stupore e curiosità saranno stati padroni soprattutto all’altezza di brani cangianti ed emozionali quali “The Dreadful Hours”, “Thy Raven Wings” e “Catherine Blake”. Stupendo il riproponimento di “She Is The Dark”, una delle migliori canzoni del repertorio della Sposa Morente; l’apertura “To Remain Tombless”, “The Blue Lotus”, “My Hope, The Destroyer” e la devastante chiusura affidata all’antica “The Forever People” hanno completato la setlist degli inglesi, baciati anche da suoni perfetti e davvero vogliosi di offrire un vigoroso spettacolo. Sicuramente fra i migliori del festival, se non I migliori. Da rivedere subito!
 
 
 
 

LACUNA COIL

Da qualche parte i Lacuna Coil dovevano pur suonare, nella stagione di festival italiani, e giustamente, visto il successo e la posizione che i milanesi hanno assunto negli States e, successivamente, in tutto il mondo. Il palco del Frozen Rock però è alquanto difficile, perché quello di Marcon è un festival di concezione estrema, e non c’è una singola band nel bill accostabile al goth metal della band,soprattutto dopo la svolta moderna degli ultimi lavori. Con una Cristina in un inedito look con capelli lisci e in completi coordinati nero/rosso, i Lacuna tentano l’approccio più aggressivo ed energico possibile allo show, accentuando le parti più grintose e prodigandosi per coinvolgere al meglio i meno avvezzi alla proposta. Se il pubblico nelle prime file apprezza e sostiene i meneghini, purtroppo le retrovie, al posto di ignorare e dedicarsi ad altro, disturbano in maniera incivile e lanciano cori ingiuriosi nei confronti della cantante, un comportamento che ci sentiamo di non condividere in toto. Professionalmente vengono eseguiti, in una scaletta abbastanza ordinaria, tutte le hit di dieci anni di carriera, sempre con il sorriso sulle labbra e ringraziando i sostenitori fedeli. Una macchia che ha segnato un festival ben riuscito e la solita dimostrazione di ignoranza da parte di una fetta del pubblico italiano. Un applauso alla pazienza e alla serietà dei co-headliner, per gli ignoranti una sola parola: vergogna.
 
 
 
 

MESHUGGAH

Il drappo meshugghiano, appeso ai tralicci del fondopalco fin dalle prime ore della mattinata, finalmente prende vita e senso quando, annunciate da possenti ondate di ghiaccio secco, le ombrose sagome dei cinque svedesi si presentano on stage. Dopo averli visti da vicino, durante il meet’n’greet, ed essersi resi conto di come almeno Mårten Hagström, Tomas Haake e Dick Lövgren sembrino fratelli da quanto si somiglino in corporatura, è piuttosto difficile scorgere chi sia chi, ad esclusione del frontman Jens Kidman, con la sua rasata totale ed il tipico muoversi da robotico automa. I Meshuggah sono delle macchine, si sa: ciò che i loro dischi trasmettono non può venir troppo violentato da un’attitudine live diversa da quella da studio, in quanto molto dell’appeal cyber e glaciale che permea la band verrebbe perso; ciò fa semplicemente derivare che, se la band vi piace su disco, allora anche dal vivo vi lascerà sbalorditi; mentre al contrario proverete soprattutto noia, se i vari “Destroy Erase Improve”, “Chaosphere” e “Nothing” sono per voi il non plus ultra della monotonia. Precisi come robot da fabbrica, Thordendal e soci inanellano i loro brani con poche, classiche ciance, con mattonate di groove, headbanging corale molto d’impatto e un Kidman quanto mai attivo. La spettacolare “Soul Burn” apre le danze, seguita da “The Mouth Licking What You’ve Bled”. Pochi avvenimenti da rimarcare durante la setlist, se non gli assoli paurosi del buon Fredrik: i Meshuggah suonano il loro imperioso muro di note metalliche, seriosi e duri come ci si aspetta da un combo per niente avvezzo all’ironia. “Rational Gaze”, “Sane”, “Suffer In Truth”, “New Millennium Cyanide Christ” ci accompagnano cadenzate fino all’apoteosi finale di “Future Breed Machine”, il cui incipit modello ‘allarme rosso’ era nell’etere da inizio performance. I ragazzi di Umea riescono a dividere il pubblico, tra chi li giudica ripetitivi e chi li crede dei mostri di bravura; certo è che la band ha creato uno stile, influenzato centinaia di formazioni e dal vivo continua a fare paura!
 
 
 
 
 
 

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