Live report a cura di Claudio Giuliani
Il “Full Of Hate Festival” ha fatto tappa a Bologna, nella sua unica data italiana, con un bill molto vario che ha radunato la folla delle grandi occasioni. Le quattro band che hanno calcato le assi del palco dell’Estragon, grazie alla perfetta organizzazione della Live, erano infatti portabandiera di quattro generi diversi: i norvegesi Keep Of Kalessin con il loro epic black metal, gli olandesi Legion Of The Damned autori di un thrash metal classico, gli americani Obituary, death metal da oltre due decenni, e gli headliner Amon Amarth, band viking metal numero uno al mondo, diremmo, per popolarità. Quasi quattro ore di musica, un vero e proprio festival, con tutte le band che hanno suonato per molto tempo deliziando i tantissimi fan accorsi ad osannare i proprio idoli. Un concerto di quelli che non si dimenticano facilmente, l’accorpamento della band è stato infatti indovinato e i locali pieni dell’Estragon sono stati una testimonianza forte di questo. A voi il reportage!
KEEP OF KALESSIN
I norvegesi sono oramai diventati una band affidabile, dotata di un certo seguito, grazie agli ultimi due lavori, “Armada” e “Kolossus” dove hanno strizzato l’occhio a parti melodiche ed epiche tagliando i ponti con il black metal furioso e incazzato degli esordi. E’ toccato a loro, quindi, aprire il concerto di fronte già a parecchia gente che ha dimostrato di gradire la proposta dei nostri, tutti con la faccia pulita come piace alle mamme. Fra i pezzi migliori dell’epic black metal abbastanza monocorde, si sono evidenziate “Ascendant”e “Kolossus”, brani del nuovo album che sembrano aver fatto trovare la giusta dimensione al leader Obsidian C. e ai suoi compagni. I suoni erano discreti, è un po’ la proposta dei quattro norvegesi a complicare il tutto, il blast beat senza tanta fantasia copriva un po’ tutto. Bravo comunque il cantante, che ha messo in mostra delle discrete linee melodiche che saranno sfruttate sicuramente ancora di più in futuro.
LEGION OF THE DAMNED
Gli olandesi sono saliti sul palco sulle note di “Sermon Of Sacrilege”, intro molto oscura che ha lasciato subito dopo spazio a “Cult Of The Dead”, traccia che apre il loro omonimo nuovo album. Il thrash metal dei nostri è di quello scolastico, ma molto efficace. La canzone ha subito scatenato il pogo, basata com’è su una ritmica varia che si presta ad accelerazioni e ai soliti break thrash metal. Dal nuovo album sono state proposte anche la granitica “House Of Possession” e la bella “Necrosophic Blessing”. Queste si sono alternate ai classici del gruppo olandese, la massiccia “Werefolf Corpse”, arrivata quasi subito nel suo possente incedere così come “Bleed For Me”, song dotata di un groove molto trascinante, e l’altra buona “Sons Of The Jackal”. La setlist è stata abbastanza lunga, oltre quaranta minuti di concerto e francamente dopo un po’ la proposta musicale del combo ha stufato. Soliti riff, tutti molto scolastici, dopo quattro o cinque canzoni la sensazione è che se ne ha abbastanza. Chiusura dello show affidata al loro anthem , “Legion Of The Damned”. Rimane da capire il perché del cambio di nome della band, che una volta si chiamava Occult e che sostanzialmente produceva album della medesima qualità con le medesime sonorità. Infine, l’ultima pecca del concerto, gli assoli di chitarra senza l’altra sei corde ritmica: assolutamente da bandire nel metallo pesante, andrebbero proibiti tale è la sensazione di povertà sonora che ne consegue (vale anche per i Keep Of Kalessin).
OBITUARY
La folla si è assiepata compatta sotto il palco quando si sono spente le luci, e una vera e propria ovazione è partita alla comparsa dei cinque americani sul palco. John Tardy è arrivato con la sua solita mise, felpa e pantalone corto, ed ha cominciato a urlare nel microfono come solo lui sa fare. I suoni, inizialmente bassi, sono cresciuti fino a creare un muro sonoro compatto e potente, assolutamente perfetto. Così com’è stato perfetto il death metal dei nostri, spesso death and roll, ma spesso – e ci riferiamo ai pezzi vecchi – death metal ferale. Dal deludente “Xecutioner’s Return”, loro ultima fatica, sono state estratte “Face Your Gods” ed “Evil Ways”, e poi via via i classici del gruppo conditi dagli assoli di chitarra ad opera di un “virtuoso” Ralph Santolla che li rende un po’ troppo tutti uguali (ora che Allen West è fuori di galera potrebbe anche tornare nei ranghi, no?). Abbastanza dimenticato il buon “Frozen In Time”, dal quale è stata estratta solamente la veloce fantastica “On The Floor”, la quale ha scaldato la platea all’inverosimile. Il materiale datato ha ovviamente goduto del maggior successo, complici i volumi degli strumenti che sono aumentati man mano col passare del tempo fino a raggiungere nel finale una potenza veramente maestosa. “Dying” ha fatto la sua comparsa e le sue note hanno veramente riempito il locale con quell’incedere potente e preciso, potremmo dire chirurgico. Poco dopo è arrivata puntuale “Slowly We Rot”, come da copione, e lì si è toccato – al solito – l’apice dello show. Gli Obituary hanno suonato convinti, col piglio degli headliner come a far sentire il peso della loro storia e questo si è prodotto in quasi un’ora di devastazione sotto forma di death metal d’annata.
AMON AMARTH
Cambio di palco, con le testate degli strumenti tutte spostate di lato, in maniera tale che questo sembri ancora più grande, pronto ad accogliere l’orda vichinga. Di lì a poco infatti sono saliti i cinque svedesi, con il cantante imperioso nella sua grandezza fisica. L’intro era sparata a volumi assurdi, ma al momento di suonare sono stati calati. Erano più alti quelli degli Obituary. Il suono era troppo impastato, con il basso che copriva un po’ tutto e le chitarre che quindi non riuscivano a far emergere le linee melodiche che sono l’essenza delle composizioni dei vichinghi. Si è partiti comunque con “Twilight of the Thundergod”, dall’ultimo lavoro, dal quale sono state estratte anche “Guardians of Asgaard” (una di quelle che ha riscosso i maggior consensi), “Tattered Banners and Bloody Flags” e “Free Will Sacrifice”. Suonate anche “Fate of Norns” dall’omonimo album, “With Oden on Our Side” e “Under the Northern Star” dal penultimo lavoro del gruppo. L’immancabile “Victorious March”, dal primo album dei nostri – prossimo di ristampa con tante aggiunte, come ha specificato Johan Hegg sul palco – si è contraddistinta dal lotto per la sua originalità e maggior vigore. Quell’album rimane il capolavoro del gruppo, almeno della prima era, così come “Versus The World” rimane quello del loro secondo periodo. “Death In Fire” è infatti arrivata puntuale fra l’ovazione dei presenti ed ha evidenziato una carica veramente fuori dal comune, un pezzo veramente immortale che ha deliziato i tantissimi presenti all’Estragon. Gli Amon Amarth hanno salutato il loro pubblico, salvo tornare poco dopo per il bis finale dove hanno promesso di tornare presto. I cinque vichinghi hanno conquistato il pubblico bolognese consacrandosi veramente a star del genere: ne hanno fatta veramente tanta, di strada.