A cura di Loredana Miele e Yari Lanci.
In un Centrale del Tennis gremito e delirante, abbiamo assistito alla data romana del tour dei Giganti della sei corde che, come ormai di consueto, hanno offerto uno spettacolo di musica e tecnica strabiliante, per uno show di grande levatura artistica che mette d’accordo tutti, sia i fan più incalliti, musicisti venuti a godere della perizia dei Grandi Maestri dei nostri giorni, sia i più semplici e tuttavia altrettanto numerosi appassionati.
STEVE VAI
Entrati a Roma apparentemente in perfetto orario sulla tabella di marcia per trovarci puntuali sul posto all’apertura dei cancelli, all’uscita numero 6 del raccordo anulare siamo costretti ad ingaggiare un’epica battaglia contro la mostruosa creatura che risponde al nome di Concerto di Eros Ramazzotti Allo Stadio Olimpico, che ci ostacola strenuamente e che ci impedisce di raggiungere il Centrale del Tennis fino a scontro concluso, cioè soltanto dopo la fine del set di Robert Fripp. Tale entità infatti genera nella zona dell’Olimpico un ingorgo da ora di punta che mai ci si aspetterebbe di trovare di mercoledì sera, e la lotta è dura… Arriviamo, quindi, trafelati, giusto in tempo per assistere all’inizio del set di Steve Vai che, seduto al centro del palco, apre il suo concerto con “I Know You’re Here” imbracciando la sua tripleneck bianca. Il Centrale è strapieno, sia i posti a sedere in platea che gli spalti sono un formicaio di entusiasmo e devozione! E’ un boato continuo quello che accompagna la performance della super line-up che accompagna Vai: Billy Sheehan, Tony Mc Alpine, Jeremy Coulson (batteria) e Dave Weiner (chitarra ritmica) vengono accolti da un delirio di applausi, e quando la scaletta entra nel vivo con “Giants Balls of Gold” e “Answers” si raggiungono picchi di inaudito visibilio, con la sei corde di Vai che quasi umanamente PARLA, e con gente che urla, si alza in piedi lanciando gioiosi “SEI UN PAZZO!” al chitarrista più teatrale e perfezionista che la scena odierna conosca. “Reaper”, “Juice” e “Whispering A Prayer” seguono a ruota con le mostruose esibizioni a manici e mani incrociate dei componenti della band che tutti conosciamo – ma che vedere dal vivo lascia sempre e comunque talmente di stucco da non riuscire a crederci – per non parlare della meravigliosa “Bangkok/Bullwhip”, durante la quale Vai sfodera tutto il carisma che gli è proprio giocando a continui botta-e-risposta con il pubblico, facendo cantare un lato o l’altro degli spalti del Centrale solo rivolgendo lo sguardo verso le tribune. I suoni tuttavia non sono proprio perfetti come ci si aspetterebbe da un artista meticoloso come Vai, specialmente quelli della batteria non sono tutti nitidamente distinguibili, e qualche volta lo stesso Sheehan non gode di volumi adeguati. Questo naturalmente non crea in ogni caso alcun problema alla riuscita dello spettacolo, che prosegue con “Get The Hell Out Of Here” e si conclude con una “For The Love Of God” da brividi, in cui è il pubblico che inizia a cantarne il tema, guidato da Vai che infine fa letteralmente esplodere sul pubblico quella che forse è la più bella ed intensa ballata strumentale mai scritta negli ultimi vent’anni, struggente e disperata. Il set di Steve Vai si chiude così, “Walking the fine line… between pagan, and christian”, con un pubblico dagli occhi lucidi, commosso e impazzito, che rende omaggio ad una esibizione ancora una volta priva della benché minima sbavatura esecutiva. Steve Vai ha di nuovo emozionato, strabiliato, stregato il suo pubblico con uno show, come da copione, di una qualità eccezionale.
JOE SATRIANI
“Are you ready for Joe?”, chiede un sorridente Steve Vai al pubblico prima di congedarsi. Sì. La domanda è retorica, del resto. Un quarto d’ora per il cambio del palco, ed ecco che lo stage è inondato di luce blu: il piccolo axeman fa il suo ingresso insieme a Jeff Campitelli e a Matt Bissonnette, per iniziare quello che senza dubbio è il miglior set della serata. Satch, solo con basso e batteria, ha infatti un groove spettacolare, che si sarebbe tentati di giudicare di gran lunga superiore a quello di Steve Vai accompagnato dalla sua megaband se non fosse per la radicale diversità dei due spettacoli. Steve Vai è un perfezionista, un sofisticato e maniacale ammaliatore, là dove Satriani offre da sempre un’attitudine molto più rock’n roll, godendo e mostrando il puro divertimento di un musicista che suona con una passione senza eguali. E allora eccolo, il piccolo Satch in scarpe da ginnastica, jeans e occhialoni da sole, prendere il proprio posto all’estrema sinistra del palco e aprire le danze, è proprio il caso di dirlo, con “Hands In The Air”: sì che ora si balla! Satriani ha dei suoni perfetti e potentissimi, la sua chitarra suona ad un volume da capogiro e questo pezzo, come tutti gli altri tratti dal recente “Is There Love In Space?”, ha un impatto live davvero… di ferro! Il bellissimo tema portante di sapore rock anni ’80 fa muovere ormai tutti, astanti seduti e in piedi, scatenando un boato pazzesco quando il pezzo si conclude per essere seguito nientemeno che dal “Satch Boogie” e da “Cool #9”, una dietro l’altra. Qui non ce n’è più per nessuno, naturalmente, il rock e il blues hanno ormai preso possesso del Centrale del Tennis ed è tutto un applaudire, ballare, gridare, anche quando agli splendidi cavalli di battaglia appena citati segue “Gnaahh”, dal trascinantissimo riff portante e dal sound a metà tra l’onirico e il… fluttuante, si direbbe, come tutto “Is There Love In Space?”, del resto. I pezzi del nuovo album, lo ripetiamo, hanno un impatto live veramente notevole: “I Like The Rain” (per la quale Satriani si porta anche dietro il microfono) e la leggermente più cadenzata “Up In Flames” sfoderano peraltro un tiro incredibile, e concludono la prima metà di un set che fino a questo momento ha mantenuto un’andatura serenamente sostenutissima, avendo Satriani tirato fuori dal cilindro una sequela di brani dal groove irresistibile, che più irresistibile non si può. Mantenuti la tensione e il divertimento a livelli molto alti, arriva ora il momento di rallentare il ritmo dello show e del feeling: ci pensa la dolcissima “Always With Me, Always With You” a dilatare e ad espandere le emozioni, portandosi dietro un applauso lunghissimo e sognante, anche se forse spetta all’incredibile ed intensissima “Searching” la palma di momento-brivido della serata, insieme al penultimo brano della setlist di Satriani. “Searching” è infatti un piccolo capolavoro il cui ascolto lascia nelle viscere un nodo di melodie che si intrecciano senza scampo contorcendosi languidamente, stridendo e gridando, rincorrendosi e sfuggendosi l’un l’altra fino a riprendersi e ricomporsi nel caldissimo abbraccio finale dei due temi portanti. Quasi naturalmente seguita dalla notturna e sognante “Is There Love In Space?”, l’atmosfera è ormai satura di bruma e stelle. Il pubblico è rapito, e Satriani stesso sembra non vedere più, non sentire più nient’altro che il suono del proprio strumento, nemmeno stia componendo in questo stesso istante. Sarà soltanto l’aggressiva “War” a riscuotere il pubblico da questo momento così profondamente onirico, e riportarlo per tutta la sua durata con le natiche ben piantate al suolo, sebbene la mente vaghi, vaghi ancora verso scenari lontani e devastati… ma il tutto dura relativamente poco. Perché di nuovo il palco è saturo di luce blu… e sette note sono sufficienti per far scoppiare il più forte boato di questa serata, quelle con cui si apre dell’arpeggio iniziale di “Flying In A Blue Dream”. Per il gran finale del proprio show Satch ha scelto certamente uno dei pezzi più belli della sua carriera, ed eccoci di nuovo trascinati via, scivolati nella liquida e vischiosa atmosfera di un sogno fotografato con nitidezza disarmante ormai quindici anni fa, e che in molti oggi continuano volentieri a sognare. Ultimo capitolo: “Ice 9”, tornata alla luce dal lontano “Surfin’ With The Alien”. E’ il delirio, e qui si chiude lo show del Mastro di Feste del G3, coadiuvato anche da un contributo di Robert Fripp in persona, show che ha registrato una performance spaventosamente pulita di Campitelli e Bissonnette, che in questa sede sono stati a dir poco eccezionali. Spettacolare. Veramente.
G3
La “G3 experience”, come ormai gli stessi musicisti che ne prendono parte amano chiamarla, ovvero il gran finale totale tutti-sul-palco, si apre con l’esecuzione di “Red”, brano dei King Crimson che qui assurge al ruolo di tributo allo schivo genio di Robert Fripp. Segue la malatissima “The Murder” di Steve Vai, al cui termine viene annunciata la presenza di un ospite a sorpresa: per la jam session finale su “Rockin’ In A Free World” fa la sua comparsa nientemeno che Stef Burns, allievo di Satriani, già con Alice Cooper e attuale chitarrista del Vasco nazionale. Burns qui tralascia, ahinoi, la sua vena spiccatamente blues, ma il suo suono grezzo e rockettaro costituisce un gustosissimo terzo incomodo per la coppia Vai/Satriani, e tutti insieme non lesinano duelli/duetti passandosi il testimone l’uno con l’altro fino ad un impressionante finale a sei mani, ognuno con una mano sulla chitarra dell’altro. Stef Burns non ha per niente intenzione di fare la figura del chitarrista pulito e precisissimo, e forse proprio per questo il gran finale diverte di più, trascinando tutto il Centrale in un applauso infinto e in un coro sul ritornello di “Rockin’ In A Free World” che sarà arrivato anche alle orecchie dei vicini dell’Olimpico. Grande musica, per tre ore e venti di continuo spettacolo. Se c’è qualcuno che ancora si chiede se valga la pena o meno di assistere ad un concerto di questi grandi chitarristi, be’… la risposta è naturalmente sì. Qui non c’è solo tecnica. Qui c’è feeling, groove, genio, sregolatezza e soprattutto tanto, tanto divertimento. Certo che ne vale la pena!