Report a cura di Carlo Paleari
Fotografie di Michele Aldeghi
Torna per tre date in Italia il G3, progetto ideato nel 1996 da Joe Satriani per portare sul palco tre guitar hero per tre set separati che poi si uniscono in una grande jam finale. Nel corso degli ultimi vent’anni, mantenendo come costante il padrone di casa, Satriani, si sono succeduti numerosi assi della sei corde, come Steve Vai, Yngwie Malmsteen, Eric Johnson, Paul Gilbert, Robert Fripp, Michael Schenker, Steve Morse, Steve Lukather e molti altri. L’edizione del 2018 vede la presenza di John Petrucci, funambolico chitarrista dei Dream Theater, e Uli Jon Roth, virtuoso dallo stile neoclassico che ha scritto alcune pagine meravigliose negli Scorpions. La data di Milano ha come cornice il Teatro degli Arcimboldi e regala al pubblico uno spettacolo pantagruelico che, al netto dei cambi palco tra un artista e l’altro, supera comunque abbondantemente le tre ore di durata!
ULI JON ROTH
Il primo a salire sul palco degli Arcimboldi è il baffuto chitarrista tedesco, che apre le danze con la maestosa “Sky Overture”, composizione strumentale che mette in chiaro le sue qualità. Artista dallo stile più lontano dai due compagni di viaggio, per storia e stile, Uli Jon Roth regala al pubblico un hard rock con melodie ariose influenzate tanto da Hendrix quanto da Vivaldi. Al contrario dei due show successivi, quello di Roth è un concerto fatto di canzoni, meno tecnico, con la chitarra in primo piano, certo, ma costruito in maniera classica, con una formazione allargata che comprende Niklas Turmann (voce e chitarra), David Klosinsky (chitarra), Nico Deppisch (basso), Corvin Bahn (tastiere) e Michael Ehré (batteria). D’altra parte Uli di grandi canzoni ne ha scritte e la scaletta lo dimostra: “Sun In My Hand”, “We’ll Burn The Sky” e “Fly To The Rainbow” bilanciano perfettamente momenti di virtuosismo ad altri più immediati, con il chitarrista a far cantare la sua celebre Sky Guitar. Culmine del suo show, la splendida “The Sails Of Charon”, brano che rappresenta forse la summa dello stile dell’artista teutonico e che questa sera raggiunge splendide vette di poesia. Ottimo inizio.
JOHN PETRUCCI
Se Uli Jon Roth è stato accolto da un caloroso applauso, l’ingresso di John Petrucci è accompagnato da una vera ovazione. Una buona fetta del pubblico è evidentemente qui per il chitarrista dei Dream Theater che, come avrà modo di sottolineare, si sente perfettamente a suo agio nel teatro meneghino, che ha accolto pochi mesi prima lui e Mike Mangini con la loro band madre. Questa sera, infatti, è proprio Mangini ad accompagnare John, assieme al solido Dave LaRue al basso. Formazione essenziale, ma il muro sonoro creato dai tre è impressionante. La scaletta si apre con una versione metallizzata di “Wrath Of The Amazons”, curiosa rivisitazione di un pezzo della colonna sonora di Wonder Woman, a cui si aggancia “Jaws Of Life”, estratto dall’album solista del chitarrista, “Suspended Animation”. Il primo brano predilige il groove e il suono ribassato e martellante delle chitarre, mentre il secondo lascia spazio al virtuosismo più funambolico. Il pubblico in teatro può godere anche di un paio di chicche inedite: il primo brano, giustamente intitolato “The Happy Song”, è un pezzo solare, con una melodia quasi pop su cui si inerpica il rapidissimo shredding di Petrucci che viaggia alla velocità della luce; il secondo, invece, “Glassy-Eyed Zombies”, si incupisce e lascia spazio ad atmosfere più spettrali e metalliche. Completano la scaletta due pezzi noti agli appassionati del G3: “Damage Control” e “Glasgow Kiss” sono due composizioni che prendono l’ascoltatore e lo trascinano in un vortice progressive in cui i musicisti si incastrano e dialogano con naturalezza e invidiabile maestria. Lo show di Petrucci è estremo, in questo senso, e non lascia vie di mezzo: lo spettacolo dei tre musicisti è un concentrato di tecnica debordante, come un ottovolante dal percorso intricato che lascia senza fiato. Si rischia di sacrificare qualcosa a livello emotivo, forse, ma questa sera il pubblico è preparato e attento e si gusta ogni singola nota con trasporto.
JOE SATRIANI + G3 JAM
Tocca ora all’irriducibile Joe Satriani, che viene accompagnato da Bryan Beller al basso, Joe Travers alla batteria e il grande Mike Keneally a dividersi tra tastiere e seconda chitarra. Il padrone di casa ha da poco pubblicato un album intitolato “What Happens Next” e quindi questo tour dei G3 rappresenta un’ottima occasione per testare dal vivo le nuove composizioni. Quasi tutta la prima parte del concerto, infatti, vede il chitarrista presentarci alcuni estratti dalla sua ultima fatica, come la potente “Energy”, seguita subito da “Catbot”. Bellissima ed elegante “Cherry Blossom”, accompagnata da un video ad ambientazione orientale con fiori di ciliegio e pagode; mentre “Thunder High On The Mountain” risuona fragorosa come un tuono in una serata temporalesca. Lo stile di Satriani, così come il suo stare sul palco, è debordante e ironico. Il chitarrista scorrazza per il palco del teatro con i suoi occhiali scuri, tra assoli taglienti, riff fragorosi e composizioni camaleontiche e cangianti. Efficacissima come sempre la riproposizione del classico “Satch Boogie”, che infiamma la platea, così come anche la parte conclusiva dello show che regala due gemme come la delicata “Always With Me, Always With You” e “Summer Song”. La band supporta il chitarrista con eccezionale solidità, ma su tutti spicca Mike Keneally, che aggiunge spesso un tocco in più sia con il discreto, ma importante, apporto delle tastiere, sia quando imbraccia la sei corde per affiancare Satriani in un infuocato duetto. Se queste tre performance singole non fossero bastate a saziare l’appetito del pubblico, la chiusura del concerto non può che accontentare anche il palato più esigente. Tornano sul palco John e Uli e, con l’aiuto di Niklas Turmann, la ‘big band’ si lancia in una versione infuocata di “Highway Star” dei Deep Purple. Scelta che si rivela azzeccatissima visto il background dei musicisti coinvolti: Uli Jon Roth ha uno stile con molti punti in comune con quello di Blackmore; Petrucci con i Dream Theater in passato ha già avuto occasione di cimentarsi con i Deep Purple, arrivando a riproporre l’intero “Made In Japan”; e Satriani può vantare addirittura una breve militanza nella band subito dopo l’abbandono di Blackmore, prima dell’arrivo di Steve Morse. Il brano viene riproposto con energia e il dialogo strumentale tra chitarra e organo dell’originale viene tradotto in un avvicendarsi tra i tre giganti della chitarra. Si prosegue con un altro classico senza tempo come “All Along The Watchtower”, brano di Bob Dylan che però ha raggiunto il suo massimo splendore nella versione di Jimi Hendrix. Qui è Uli Jon Roth a sentirsi a casa: da anni, infatti, il chitarrista tedesco ripropone questa canzone (anche nella parte vocale), dichiarando di anno in anno il suo amore per Hendrix. Splendido anche il momento di improvvisazione centrale che lascia emergere le diverse sfumature di stile dei tre chitarristi. Terzo ed ultimo classico affidato ad “Immigrant Song” dei Led Zeppelin, che cala ‘il martello degli Dei’ sulla platea milanese. Anche in questo caso la canzone è nell’Olimpo dei capolavori assoluti, sebbene forse la resa finale sia leggermente inferiore rispetto ai due episodi precedenti. Si chiude così questa ultima incarnazione del G3 e il pubblico può congedarsi soddisfatto, travolto da uno tsunami di chitarre elettriche, suonate da tre maestri del loro genere. A chi toccherà la prossima volta?