Report e foto a cura di Riccardo Plata
L’edizione 2010 del Give It A Name, festival itinerante nato nel 2005 e che ogni anno porta in giro per l’Europa il meglio della scena punk rock attuale, sarà ricordata come una delle più pop-oriented di sempre, ma non per questo come una delle meno riuscite. Dopo la defezione dei The Gallows, il bill del festival vedeva infatti affiancati, oltre ai nostrani Andead impegnati nel ruolo di apripista, nuove leve ancora poco note a queste latitudini (The Friday Night Boys, The Swellers), band in ascesa (Madina Lake, Story Of The Year) e nomi già affermati nel panorama mainstream punk (Sum 41, A.F.I.). Una line-up variegata per oltre sette ore di musica che neanche le ceneri dell’ormai noto vulcano islandese sono riuscite a fermare…
FRIDAY NIGHT BOYS
E’ un Alcatraz gia discretamente gremito quello che accoglie i Friday Night Boys, quartetto americano di recente formazione e dedito ad un canonico pop-punk piuttosto scontato, sulla falsariga dei vari Fall Out Boy, Panic At The Disco, All Time Low e via discorrendo. Nulla di particolarmente esaltante dunque, ma, nonostante dei suoni non proprio ottimali, gli estratti del loro debut album “Off the Deep End” riescono ad intrattenere nella mezz’ora a loro disposizione la frangia più minorenne del pubblico in sala e a non infastidire troppo le orecchie dei quasi altrettanto numerosi genitori.
THE SWELLERS
Rapido cambio palco ma non cambia di molto la sostanza con i The Swellers: sempre di pop-punk si tratta, anche se rispetto ai Friday Night Boys la quantita di sudore sul palco appare maggiore. Il quartetto originario del Michigan riesce infatti, soprattutto sul repertorio più datato tratto da “Beginning of the End Again”, a mescolare la ruffianeria del pop-punk del terzo millennio con la carica dell’HC californiano degli anni ’90, spostando l’ago della bilancia dai Paramore ai No Use For a Name degli esordi e riuscendo così a far tremare un po’ le transenne e a riscaldare la security con i primi stage diving.
MADINA LAKE
Dopo il succulento antipasto rappresentato dai Friday Night Boys e dai The Swellers, il primo piatto forte della serata è rappresentato dai Madina Lake, quartetto con all’ attivo due dischi su Roadrunner. Sono passate da poco le 18.30 quando i tre musicisti si presentano sul palco di bianco vestiti, per dare vita ad una lunga intro strumentale che culmina con l’entrata in scena del cantante Nathan Leone. Ed è proprio il biondo (e scalzo) singer il mattatore di un’esibizione che, grazie anche ad alcuni trucchi di scena (palloncini giganti carichi di coriandoli e nastri filanti), riesce a coinvolgere tutti i presenti, sopperendo all’innegabile pochezza del songwriting con la carica on stage e l’interazione con il pubblico. A conti fatti dunque una piacevole sorpresa, soprattutto nella prima parte dello show incentrata sull’ultimo e più diretto “Atticus in the Eden”.
STORY OF THE YEAR
Dopo la sorpresa in positivo rappresentata dai Madina Lake, il contrappasso arriva puntuale con la scialba prestazione offerta dagli Story Of The Year, band tra le più accreditate alla vigilia in virtù dell’ottima resa dal vivo di album come “The Black Swan” e “In The Wake Of Determination”. Pur avendo a disposizione una discografia zeppa di potenziali singoli, il quintetto di St. Louis non é riuscito a trasportare sul palco l’energia che lo contraddistingue su disco, offrendo una prestazione in ombra sotto ogni punto di vista (suoni, luci, prova vocale e strumentale). Di necessità virtù, ed ecco che qualche timido pogo si scatena tra le prime file di un Alcatraz giunto ormai alla sua capienza massima, ma canzoni come “Wake Up”, “The Black Swan” e “We Don’t Take Anymore” avrebbero meritato ben altro trattamento di quello riservato loro da un Dan Marsala in stato di disgrazia. Da rivedere in un altro contesto, sperando sia stata solo una serata storta.
SUM 41
Acclamati a gran voce da un Alcatraz sempre più gremito, dopo una lunga attesa – dovuta probabilmente ai noti problemi di viabilità derivanti dalla nube islandese – si presentano finalmente on stage i Sum 41. La band canadese, orfana della sua anima metallara, si presenta comunque con una formazione a quattro, forte del nuovo guitar player Dave “Brownsound” Baksh, valido sostituto anche se un po’ anonimo in quanto a presenza scenica. Poco presente risulta essere anche il bassista Jason (lo sguardo perso nel vuoto non sembra propriamente dovuto alla fatica del viaggio…), ma a garantire lo spettacolo ci pensano il batterista Stevo e il frontman Deryck, il primo dettando i tempi (velocissimi) della serata ed il secondo facendo cantare il pubblico a squarciagola sulle note delle varie “Motivation”, “In too Deep” e “Over my Head”, accolte con un boato da un’audience qui in gran parte per il quartetto dell’Ontario. Sul finale c’è anche spazio per una nuova cover dei Rolling Stones – “Paint It Black”, cantata però dal nuovo chitarrista, decisamente più a suo agio alla sei corde che dietro al microfono – prima degli inevitabili “Still Waiting” e “Fat Lip”, senza dimenticare l’immancabile divertissement metallico di “Pain for Pleasure”. Concerto breve nella durata ma lungo nella memoria, almeno fino alla prossima calata italica dell’ex Mr. Lavigne e compari.
A. F. I.
A dispetto della posizione di headliner, quando arriva il momento degli AFI è sufficiente un colpo d’occhio per rendersi conto di come la folla a ridosso del palco sia notevolmente diminuita, segno di un’accoglienza tiepida nei confronti del quartetto californiano e di un entusiasmo che, eccezion fatta per il consueto drappello di ragazzine adoranti nelle prime file, si mostrerà ben al di sotto dei livelli di guardia per tutta la durata dello show. Se ciò sia frutto di uno scarso appeal nei confronti del pubblico italiano o di una proposta eccessivamente laccata rispetto al resto del bill non ci è dato saperlo, sta di fatto che gli A.F.I. degli anni ’90 – capaci di dare alle stampe, sotto l’egida della gloriosa Nitro Records di Dexter Holland degli Offspring, autentiche bordate hardcore come “Very Proud of Ya” e “Shut Your Mouth and Open Your Eyes” – avrebbero spazzato via tutto l’Alcatraz nel giro di un paio di canzoni. Quella che ci troviamo davanti, ormai da una decina d’anni a questa parte, è invece la versione più mainstream degli A Fire Inside, una versione per certi versi decisamente fuori contesto – si vedano in proposito le movenze efebiche del tatuatissimo singer, agghindato e coreografato come un Marco Mengoni qualunque – eppure ancora capace di stupire anche i detrattori e i miscredenti grazie ad uno show di prima grandezza. Forti di una scenografia semplice ma efficace e di un impianto luci degno di un musical di Broadway, le nuove (“Medicate Me”, “End Transmission”, “Miss Murder”, “Love Like the Winter”) e le vecchie (“Silver and Cold”, “The Days of the Phoenix”) hits assumono un fascino quasi teatrale, ben bilanciato dalla fisicità con cui i quattro si muovono sul palco. A conti fatti dunque, nonostante la timida risposta del pubblico, la loro esibizione chiude in bellezza questa edizione 2010 del Give It a Name, per molti degli astanti terminata con un’ora di anticipo ma che per chi scrive giunta al culmine proprio con gli show di coloro che portano il fuoco dentro.