Report a cura di Carlo Paleari
C’è una cosa che funziona molto bene nell’attuale industria dell’intrattenimento dal vivo, oltre ai seguitissimi tour d’addio: la riproposizione di uno spettacolo di classici del passato. Talvolta si tratta dell’anniversario di un singolo album, magari riproposto nella sua interezza, spesso invece si tratta di una carrellata di canzoni provenienti dal periodo più noto e amato di un artista. Glenn Hughes, bisogna dirlo, pur non avendo mai rinnegato i suoi anni nei Deep Purple, non si può dire che si sia limitato a riposare sugli allori, con una produzione artistica davvero impressionante. Da qualche tempo, però, il cantante e bassista sta girando il mondo con uno show interamente composto da classici dei Deep Purple, riscuotendo un comprensibile successo. Anche in Italia, dove ci è capitato spesso di vedere il buon Hughes suonare in locali minuscoli e mezzi vuoti, questa scelta si rivela vincente, con il bergamasco Druso che si guadagna un bel sold out in prevendita. Siamo andati dunque a vedere cosa ha preparato The Voice Of Rock per questo tuffo negli anni Settanta!
GLENN HUGHES
Dagli amplificatori del Druso iniziano a diffondersi delle voci del passato, brevi spezzoni radiofonici che ci riportano al California Jam, uno degli episodi più epici della carriera di Glenn Hughes. Fa quasi strano pensare come l’artista in procinto di salire sul palco di un club della provincia di Bergamo si fosse trovato più di quarant’anni fa di fronte ad una folla oceanica di trecentomila spettatori. Glenn e la sua band salgono sul palco e danno fuoco alle polveri con due pezzi da novanta, “Stormbringer” e “Might Just Take Your Life”, mentre il pubblico li acclama a gran voce. Alla chitarra troviamo Søren Andersen, chitarrista tecnicamente molto dotato e tutto sommato rispettoso del materiale storico chiamato a maneggiare; dietro le pelli, invece, siede Fer Escobedo, batterista potente ma privo di quel tocco elegante e fantasioso che ha reso grande Ian Paice; mentre alle tastiere giganteggia Jesper Bo Hansen, a nostro parere il migliore della serata assieme a Mr. Hughes. Glenn, da parte sua, appare in ottima forma e incanta il pubblico con la sua voce, le sue movenze e il suo atteggiamento hippie fatto di messaggi di pace, amore e condivisione.
Lo spettacolo continua con uno dei momenti più interessanti della serata, la splendida “Sail Away”, un grande ritorno che rappresenta benissimo la grandezza dei Deep Purple Mk III, seguita a ruota da uno dei pezzi più amati dal pubblico, “You Keep On Moving”, cantata a squarciagola dai presenti guidati dal basso pulsante di Glenn. Se fino a questo punto il concerto ha avuto una struttura tradizionale, tocca a “You Fool No One” andare a stravolgere la consuetudine, con un brano che rappresenta, nel bene e nel male, il fulcro dell’intera serata. Come da tradizione delle grandi esibizioni dei Deep Purple negli anni Settanta, questo gioiello tratto da “Burn” viene dilatato all’inverosimile, fungendo da vera e propria passerella per una serie di interventi solisti per tutti i musicisti. Non abbiamo misurato il tutto cronometro alla mano, ma non crediamo di sbagliare di molto nel dire che l’esecuzione di questo brano sia durato in totale una buona mezz’ora. Di base apprezziamo questo ritorno all’improvvisazione di quegli anni, tuttavia dobbiamo dirlo, il risultato è stato a nostro parere altalenante. In primo luogo per una questione di sostanza: nei Deep Purple queste lunghe improvvisazioni erano l’espressione di una band, con le sue differenti personalità e i suoi tratti distintivi; in questo caso, invece, il pubblico sta assistendo al concerto di un artista solista e, pur riconoscendo il gesto di voler condividere il palco con i propri collaboratori, siamo certi che la gran parte dei presenti avrebbe volentieri fatto spazio a qualche brano in più rispetto ai tre lunghi momenti solisti dei singoli musicisti. Inoltre, ascoltare nel 1974 le fughe strumentali di Ritchie Blackmore, Jon Lord ed Ian Paice significava assistere alla performance di artisti dall’inventiva fuori dal comune, giganti del proprio stumento, la cui ombra finisce immancabilmente per oscurare la personalità di Andersen, Escobedo e Hansen.
Chiusa questa lunga digressione, si torna ai grandi classici, prima con “Mistreated”, un brano che Glenn Hughes non fa mai mancare nei suoi concerti solisti, e poi con una scelta curiosa: Glenn e la sua band, infatti, chiudono lo spettacolo con la celeberrima ed abusata “Smoke On The Water”. Come è noto a chiunque, si tratta di una canzone appartenente al patrimonio della formazione Mark II, quindi in parte stupisce la sua presenza in un concerto solista di Hughes; tuttavia, ricordiamo come questa venisse abitualmente inclusa nei concerti tenuti dai Deep Purple durante la militanza di Hughes, spesso accompagnata, come in questa occasione, da una cover di “Georgia On My Mind” (composizione resa celebre da Ray Charles).
Mancano ormai poche battute prima di chiudere la serata e, naturalmente, non può che essere “Burn” ad infiammare il pubblico del Druso, con una versione tirata e potentissima di uno dei brani più amati dai seguaci dei Deep Purple. Glenn saluta il suo parterre tra le acclamazioni e promette di tornare ancora, mostrando come il tempo della pensione non sia ancora arrivato per lui. Forse questo non sarà stato il miglior concerto di Mr. Hughes a cui abbiamo assistito, ma ammettiamolo: di fronte ad una selezione di brani di tale fattura e portata storica, è praticamente impossibile tornare a casa insoddisfatti.