Foto di Moira Carola
Report di Carlo Paleari
Sono un po’ di anni ormai che Glenn Hughes porta in giro per il mondo il suo prezioso passato con i Deep Purple.
Il cantante, infatti, pur avendo alle spalle un discografia solista ricchissima, ha deciso, per la gioia di molti fan, di portare in scena uno spettacolo interamente incentrato sulle canzoni scritte durante la sua militanza nella band al fianco di David Coverdale.
Per questo nuovo tour era inizialmente circolata la notizia che Glenn avrebbe suonato per intero l’album “Burn”, che lo scorso febbraio ha compiuto ben cinquant’anni; in realtà non è stato esattamente così, come vi racconteremo a breve, tuttavia il disco del 1974 sia stato ugualmente il protagonista della serata e il pubblico dell’Alcatraz di Milano, che ha potuto assistere alla seconda delle due date previste in Italia, è potuto tornare a casa più che soddisfatto della serata.
C’è una particolarità tutt’altro che scontata nella formula dello show che GLENN HUGHES sta portando in scena da un po’ di anni: non solo, infatti, il cantante ha deciso di omaggiare il materiale dei Deep Purple, ma ha scelto di farlo seguendo anche la filosofia e la forma dei concerti di quegli anni. Solo otto canzoni in scaletta, per un concerto che è iniziato alle 21 spaccate e che si è concluso quasi due ore dopo, in un tripudio di assoli, improvvisazioni e fughe strumentali, esattamente come quello che possiamo ascoltare in documenti storici come “Made In Japan”, “Live In London” o nella registrazione del “California Jam”, che vide i Deep Purple esibirsi di fronte a duecentocinquantamila persone.
Ed è proprio un estratto radiofonico di quell’evento a fare da preludio all’ingresso dei musicisti sul palco che, senza indugio, si lanciano subito in una convinta versione di “Stormbringer”.
Chi vi scrive aveva avuto modo di assistere ad un concerto analogo nel 2018, al Druso in provincia di Bergamo, e sei anni non sono certo pochi per un artista ormai settantaduenne; eravamo quindi curiosi di testare dal vivo le condizioni vocali di Glenn, che si sono rivelate semplicemente fuori scala rispetto alla totalità dei suoi coetanei. Certo, se fino a qualche anno fa la sua voce era pressochè perfetta, ora si incomincia a percepire qualche momento di calo, ma veramente si parla di piccole imperfezioni, a fronte di una tenuta che ancora oggi è quasi inumana. Il concerto prosegue con un’energica “Might Just Take Your Life”, seguita a ruota da uno degli episodi migliori della serata, ovvero “Sail Away”, un brano che all’epoca non veniva mai suonato dal vivo e che, invece, conferma tutto il suo enorme potenziale in questa sede live.
Il fulcro dell’intera serata, invece, arriva con “You Fool No One”, che viene dilatata fino ad una durata complessiva superiore ai trenta minuti. In questa lunga jam, tutti i musicisti hanno potuto avere il loro spazio, consentendoci di apprezzare lo stile fortemente influenzato da Ritchie Blackmore di Søren Andersen; l’uso posato e intelligente dell’hammond di Bob Fridzema, e soprattutto la follia animalesca del batterista Ash Sheehan, che si è reso protagonista di un lungo assolo stracolmo di virtuosismi e trovate sceniche. In tutta onestà, pur riconoscendo la sua evidente maestria ritmica, questa parte sarebbe potuta essere asciugata un po’, in favore magari di una canzone in più, ma capiamo anche che queste pause siano anche utili a preservare la voce del cantante.
Naturalmente non può mancare il blues disperato e potente di “Mistreated”, una canzone che negli anni Settanta era totale appannaggio di Coverdale, ma che il buon Glenn ha recuperato nel corso degli anni facendola diventare un suo punto di riferimento; così come non poteva mancare anche un omaggio alla cosiddetta “Mark IV”, ovvero la formazione che, con Tommy Bolin, ha firmato quel disco clamoroso di “Come Taste The Band”. Anche in questo caso, Glenn lucida l’argenteria, scegliendo i due brani più noti, ovvero una potentissima “Gettin’ Tighter” e “You Keep On Moving”.
In tutto ciò il cantante non smette mai di incitare la folla, di ringraziare e diversi minuti del concerto vengono riempiti solo dalle sue parole e dai suoi ricordi. Ci racconta del tentativo mai andato in porto di tornare a suonare con Blackmore, Lord e Coverdale, quando il tastierista era ancora in vita; condivide con noi la gioia e la gratitudine di poter continuare a portare in scena questa musica, grazie alla sua voce, definita un dono venuto dal cielo; a volte ci racconta anche delle cose palesemente non vere, come il fatto, a suo dire, di aver suonato “Gettin’ Tighter” in ogni singolo concerto solista della sua vita fin dagli anni Settanta in onore di Tommy Bolin.
Alla fine, però, quello che conta davvero è la musica e quando il concerto si chiude con l’immancabile “Burn”, l’intero pubblico dell’Alcatraz si ritrova a cantare, salutando con entusiasmo l’ennesimo ottimo concerto di questo instancabile artista.
Poche soprese, almeno per chi segue assiduamente la sua carriera, ma tanta sostanza e, soprattutto, una raccolta di classici entrati tutti di diritto nella Storia. Cosa ci aspetterà, quindi, la prossima volta? Un nuovo omaggio ai Deep Purple? Un tour con il suo materiale solista? Un ritorno all’esperienza con i The Dead Daisies? O, chissà, magari sarà la volta di un nuovo album con i Black Country Communion. Di certo, vista la forma stratosferica del cantante, la pensione non sembra proprio rientrare tra i piani di Glenn.