Report a cura di Giuseppe Caterino
I God Is An Astronaut sono una band che sembra appartenere a un universo tutto suo, vista l’ampiezza di genere che il post rock del trio abbraccia in termini di fanbase. Dal metallaro tout court al semplice ascoltatore di rock a 360°, passando per alternative fan e via dicendo, difficile trovare qualcuno non disposto a spendere parole positive per il combo irlandese. Del resto, i Gods rappresentano uno di quei rari e felici incontri tra esecuzione, emozione e sonorità eteree e spaziali che, pur in una certa particolarità della proposta, non sfociano in un elitarismo smaccato; e questo sembra aver giovato tanto alla band quanto ad un genere strumentale che vede gli Irish, pur in buona compagnia, come uno dei metri di paragone principali per un certo filone musicale. Il Magnolia milanese gode di un ottimo spazio estivo, che, complice una giornata finalmente fresca, risulta piacevolissimo, e con noi troviamo un buon numero di spettatori (diremmo un buon trecento, a occhio e croce), nonostante l’area esterna della venue non sia troppo gremita. Per cause lavorative arriviamo solo quando il gruppo di supporto, gli italiani Platonick Dive, stanno ringraziando dopo l’ultimo pezzo, quindi giusto il tempo di ordinare una birra allo stand – sempre fornitissimo – e ci mettiamo in attesa degli Astronauti di Glen Of The Downs.
GOD IS AN ASTRONAUT
I laser on stage iniziano a librarsi sul pubblico assieme ad un crescendo strumentale che pian piano zittisce il sound d’attesa, facendo avvicinare tutti i presenti al palco; i God Is An Astronaut, senza troppi fronzoli, imbracciano gli strumenti e, in formazione a cinque, attaccano con “Medea”, dall’ultimo uscito “Epitaph”. La prima cosa che possiamo constatare è che i suoni sono assolutamente all’altezza della situazione, aspetto molto importante in un concerto quasi totalmente strumentale, se escludiamo giusto qualche vocalizzo di Torsten Kinsella. La band decide di aprire con un pezzo introduttivo che si prende i suoi tempi e che decide di metterci il suo tempo per entrare nel vivo, ed infatti quella che viviamo è un’esperienza posata, misurata, in cui entriamo in una situazione intima che dosa le emozioni con sapienza, portando ad alzare il livello in momenti sapientemente preparati. Quando infatti viene annunciato di voler ripescare qualcosa di vecchio e si parte con “The End Of The Beginning”, molte sono le braccia alzate, ed effettivamente l’esecuzione della title track del primo album è straordinaria: i due bassi si intrecciano con i sintetizzatori, alla luce di un ritmo di batteria ipnotico e una prova rimarcabile in generale, cui seguono altri due pezzi particolarmente ben salutati, provenienti da quello che forse è il disco più noto della band: è “All Is Violent, All Is Bright”, infatti, l’album con maggior offerta di brani, e di seguito “Fragile” e la title track vedono un pubblico ormai in piena sintonia con la formazione. Anche grazie ad uno stageset formato di luci cangianti, laser ed effetti di scena azzeccati, si è creata infatti un’atmosfera di comunanza tra palco e parterre, e quando questo accade si forma come un’impalpabile energia qui ben presente. Lo show prosegue tra vari punti della discografia, tra qualcosa di meno noto (non sembrano in moltissimi quelli ‘sul pezzo’ con l’ultimo lavoro della band) e momenti salutati a gran voce come “Remembrance Day” o la bellissima “Suicide By Star”, suonata in maniera davvero coinvolgente subito dopo una fugace presentazione dei musicisti. Tocca a una doppietta formata da “From Dust To The Beyond”, altro richiamo dagli esordi, ed “Echoes”, coinvolgente come su disco, a chiudere per qualche minuto il sipario, prima di un velocissimo encore – visto che, come ci dice Kinsella, sperano di farcela a suonare due canzoni causa tempi un po’ stretti. Per fortuna di tutti ce la fanno: “Helios/Herebus” viene seguita da un velocissimo saluto prima di introdurre “Fire Flies And Empty Skies”, canticchiata da quasi tutti e suonata con una foga che ha donato al pezzo una dinamica che ci riporta bruscamente coi piedi per terra quando gli strumenti, ahinoi, dopo un’ora e mezza esatta, si zittiscono per mandarci tutti a casa, con ancora i suoni astronomici dei Gods a risuonarci nelle orecchie.