Introduzione a cura di Davide Romagnoli
Report a cura di Giovanni Mascherpa e Davide Romagnoli
Leviatano della Bibbia dell’Underground mondiale, il nome Godflesh torna nelle terre nostrane per progredire il suo messianico messaggio di industrial e post-metal marcio e incrinato, così come era stato circa un quarto di secolo fa, ora con il nuovo incandescente lavoro “A World Lit Only By Fire”. Il tempo passa ma i lividi restano. Ad accompagnare le sferragliate rugginose e industriali degli inglesi, i nostrani Syk e Hungry Like Rakovitz. Justin Broadrick come Leonard Cohen: “Your pain is no credential here / It’s just the shadow of my wound“. Abominevoli sassate sadiche e metalliche colpiscono la cornice, altrettanto rugginosa, della ferrovia milanese che scorre di fianco al Lo-Fi.
HUNGRY LIKE RAKOVITZ
Agli Hungry Like Rakovitz la cattiveria non manca. Proprio no. E non gli manca nemmeno la spigolosità e l’umoralità di chi non si accontenta di far bene una cosa sola, e vuole estendere il raggio d’azione in diversi ambiti. Il concerto dei bergamaschi tocca quindi punti di abrasione notevoli spostando il baricentro in vari punti dello scibile musicale: attacchi grind totalmente folli, agguati hardcore quadrati e foschissimi, sguazzamenti maialeschi nello sludge. Oltre e sopra a tutto, gli straripamenti di rabbia alla Converge, decisamente credibili alla luce della voce scorticata di Rubens e dello sfascio isterico della chitarra di Enrico. I primi minuti, a dire il vero, non sono poi così entusiasmanti: il suono è troppo granuloso e non abbastanza netto e tagliente, la voce non erompe con chiassosa protervia dalle casse e si rimane immersi in un’indefinitezza di fondo non esattamente soddisfacente. I quattro prendono campo un poco per volta, e ai miglioramenti del sonoro va di pari passo una discesa negli inferi della psicosi. Spicca nell’insieme il drumming frastagliato e cuneiforme, una mitraglia sincopata argutamente mobile e scevra di forzosi indottrinamenti da parte di un solo genere. Il singer guadagna sicurezza e, dopo aver cantato alcuni brani sul limitare del palco, se ne scende e si mette a sbraitare a pochi centimetri dal pubblico. Un invasamento totale che sfocia in urlate assassine anche senza il microfono davanti – e si sentono lo stesso – prima della fenditura completa degli spazi antistanti lo stage sull’ultimo pezzo, quando Rubens carica a testa bassa i presenti come un toro in una corrida. Performance concreta per i bergamaschi e buona introduzione alle follie a venire.
(Giovanni Mascherpa)
SYK
Difficile trovare qui dalle nostre parti un gruppo come i Syk. Un po’ fuori di testa come i Melt Banana, un po’ doomeggianti come i Candlemass, un po’ Converge, un po’ Enslaved, la triade dei Syk offre un mash-up di impatto e interesse assoluto. Una sezione chitarra-batteria come quella degli Psychofagist e una voce come quella del terzo elemento Dalila Kayros, un immaginario come quello di ambivalenze di carattere storico nei confronti del passato e del futuro della condizione umana, partiture sghembe e ben suonate, non possono fare altro che risultare non solo un preludio più che interessante per il main act della serata, ma anche una conferma di sicurezza, merito e indubbia fiducia per una band di alto livello. L’esordio “Atoma” viene presentato durante la serata e conferma, se non amplifica, le sue buone carte. Synth, chitarra e batteria si amalgamano in un pastiche sonoro potente e tagliente, frutto di ritmiche dispari e rumori di fondo, una voce che assottiglia il confine tra angoscia e rabbia e una performance che non nasconde alcun minimo timore. Magma sonoro proveniente da un vulcano grind come l’emblema Psychofagist, magma che scorre inesorabile e si porta via tutto quanto trova sotto di sè, inglobandolo, con una bellezza rara. Prova superata per una formazione da tenere sott’occhio.
(Davide Romagnoli)
GODFLESH
Se lavorate di sottrazione a quello che avete nella vita, se togliete di mezzo i momenti piacevoli, appaganti, felici, inebrianti di essa, se lasciate soltanto doveri, obblighi e grigiori assortiti, cosa rimane? E soprattutto, come lo descrivereste? Nel caso non sapeste rispondere, potranno farlo per voi i Godflesh, che sull’alienazione dell’individuo hanno costruito simulacri sonori gelidi e stritolanti. Una colonna sonora asettica e rassegnata, per una visione del mondo offuscata da pece e cenere. La visione che poteva avere Broadrick dalle sue finestre, in quella Birmingham crivellata di impianti industriali, severe ciminiere, inquinamento, povertà e mancanza di prospettive. Qui, dove il solo immaginare un futuro diverso da quello di spaccarsi la schiena in fabbrica per un salario da fame doveva essere uno sforzo inimmaginabile, è scaturita una descrizione musicale asciutta e apocalittica dei clangori dell’industria pesante, della produzione di massa senz’altro vero scopo che la distruzione del pianeta. Un mondo butterato, amorfo, quello dei Godflesh, che mai hanno trovato pace e redenzione, e con “A World Lit Only By Fire” sono tornati a tuonare e martellare, sadici come tiranni, precisi e metodici come il macchinario di una catena di montaggio. Il Lo-fi è pienotto quando, con una buona mezz’ora di ritardo, parrebbe per qualche pedale degli effetti non proprio in ordine, Broadrick e Green si appropriano del palco. Arriva il rumore, sotto forma di un rugginoso e slabbrato agglomerato generato dalle distorsioni di basso e dalle sevizie della chitarra. Noi rimaniamo nel mezzo, tra il martello dei due strumenti ‘suonati’ e l’incudine della batteria programmata, personaggio fuori scena, sultana implacabile a cui tutto è sottomesso. Il paradosso di un’esibizione del duo albionico è che l’elemento preponderante è uno strumento artefatto, impostato in precedenza per essere sempre uguale a se stesso, sera dopo sera. Broadrick si sbraccia a inizio show per attutire le luci, così che i due musicisti diventino due fantasmi nel buio, sagome appena percettibili; tutta l’attenzione è sui televisori alle loro spalle, dove vengono proiettate immagini in alcuni casi assonanti al concept fosco della band, in altri sibillinamente colorate e solari, seppure sempre indefinite, difficili da comprendere. L’unico filo conduttore possibile è quello dell’oppressione del nonsenso, di una minaccia costante e invincibile sulla nostra mente, mandata in cortocircuito da tutti gli input che le vengono vomitati addosso. Oltre al contorno visivo di prim’ordine, i seminali industrial metaller inglesi sfoderano una forma scintillante: l’immaginazione corre, sui binari di una ferrovia che porta carbone a centrali energetiche, a loro volta pompanti linfa per un’industria famelica, intenta a produrre a più non posso l’inutilità materiale del nostro tempo. Un processo bulimico, ce lo vediamo davanti nelle metronomiche, divelte, partiture di qualsiasi episodio offertoci stasera. Non si respira, non c’è un alleggerimento che sia uno. La musica dei Godflesh è battente, sentenziante, un bastone che ti colpisce sempre uguale, nello stesso punto, allo stesso marziale ritmo. A sentire le urla nella pause, a nessuno dispiace lo sbilanciamento verso l’ultima release in studio: più di metà set è infatti dedicato a “A World Lit Only By Fire”, al quale Broadrick sembra credere parecchio, se si permette di dargli tutto questo spazio a discapito di molti dei suoi cavalli di battaglia del passato. Questi comunque arrivano, provocando un palese visibilio: “Christbait Rising” e “Spite” sono pugni nella bocca dello stomaco, le si ascolta piegati in due. A “Crush My Soul” segue una breve pausa, poi è una simbolica “Like Rats” a calare l’ultima sprangata su un’audience provata – è l’una passata – ma soddisfatta di questo ritorno sulle scene. Oggi come ieri, sui Godflesh si può sempre contare.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
New Dark Ages
Deadend
Shut Me Down
Life Giver Life Taker
Carrion
Towers of Emptiness
Christbait Rising
Streetcleaner
Spite
Crush My Soul
Encore:
Like Rats