MASTODON
Persi Evergrey e Mudvayne a causa di un ingorgo sull’autostrada A1 e dei soliti casini con gli accrediti, il primo gruppo che abbiamo avuto modo di visionare nella giornata di sabato è stato quello dei Mastodon, atteso da un buon numero dei presenti se non altro perché era la prima volta che si esibiva in Italia. La band del bassista/cantante Troy Sanders si è resa protagonista di un gran bello show, squisitamente fisico e “ignorante”, nel quale ha proposto diversi brani dall’ultimo “Leviathan” e anche un paio di estratti dal debut “Remission”. Le centinaia di concerti tenuti negli ultimi anni hanno senz’altro rodato ed affiatato il gruppo, che on stage si è rivelato davvero compatto e preciso, abilissimo nel riproporre fedelmente le proprie composizioni. Eroe della performance il batterista Brann Dailor, semplicemente tentacolare!
DRAGONFORCE
I Dragonforce sono stati visti solo in parte, ciò a causa di un’intervista agli Obituary che si è svolta proprio durante il loro concerto! Ci è comunque parso che la band del chitarrista Herman Li abbia dato prova di essere in possesso di un’ottima tecnica e di avere una buona confidenza con il palco. Il pubblico, dal canto suo, ha nel complesso dimostrato di gradire abbastanza l'”extreme power metal” dei nostri e si è fatto spesso trascinare nei cori dal frontman ZP Theart. Certo, molti si sono anche chiesti che cosa mai ci facesse una formazione così poco popolare e, per certi versi, modesta a questo punto del bill, ma tutto sommato – almeno a show concluso – in giro per l’arena si sono uditi più commenti positivi che critiche.
STRAPPING YOUNG LAD
Come era auspicabile prima del concerto, certe allucinate frenesìe psicotico-metropolitane prendono forma e volto quando Mr. Devin Townsend e i suoi Strapping Young Lad salgono sul palco del loro primo GOM. L’apertura spetta all’intro “Velvet Kevorkian” e poi di seguito la bellissima “All Hail The New Flesh”, entrambe tratte dal capolavoro “City”. I ritmi sono sempre alti, i volumi purtroppo no, ma la macchina da guerra Gene Hoglan concede comunque virtuosismi udibili da chiunque presente in quel di Bologna. Il buon Devin, particolarmente ispirato, pesca canzoni anche dagli ultimi lavori e, tra le tante, ci sentiamo di menzionare le ottime “Shitstorm” e “Relentless”, le canzoni che forse più di tutte sono riuscite a diffondere il malato e schizoide verbo degli Strapping tra tutti gli esaltati presenti. Non vengono purtroppo prese in considerazione canzoni tratte dal primo, storico “Heavy As A Really Heavy Thing”… peccato, ma posta in chiusura arriva come un treno la velocissima “Detox”, che i fonici hanno però la brillante idea di tagliare alla fine. La risposta comunque è stata ottima e un ciarliero Devin ha salutato il pubblico in delirio, ovviamente con la speranza di replicare al più presto con maggiore tempo a disposizione e con un suono migliore. Pazzi!
OBITUARY
Una prestazione di John Tardy appena discreta e dei volumi “da oratorio”, i quali hanno relegato le chitarre al semplice ruolo di comparse, hanno purtroppo rovinato in parte lo spettacolo degli Obituary, che si sono presentati sul palco del GOM piuttosto carichi ma che alla fine non sono per nulla riusciti a replicare il fantastico concerto dello scorso ottobre. La scaletta proposta è stata ottima – con “Cause Of Death”, “By The Light”, “Chopped In Half” e “Slowly We Rot” a mietere i maggiori consensi fra i fan – ma sono mancate quasi del tutto quella potenza e quel groove che i nostri sono in grado di sprigionare quando suonano in condizioni ottimali. Come dicevamo, anche John Tardy ci ha messo del suo, cantando più di un passaggio un po’ con fare pressapochista. Nel complesso si è comunque trattato di un’esibizione decorosa (tra l’altro ben accolta dal pubblico), ma il concerto tenuto da headliner a Reggio Emilia è rimasto ad anni luce di distanza!
LACUNA COIL
Solito buon concerto per il sestetto milanese, che nell’ora a propria disposizione ha avuto modo di presentare tutti i suoi piccoli classici, da “No Need To Explain” a “To Live Is To Hide”, per arrivare agli hit single “Swamped” e “Heaven’s A Lie”. Rodati come sono da centinaia di show tenuti in giro per il mondo, Cristina Scabbia e tutti i musicisti della band non hanno ormai più nulla da imparare da nessuno per quanto riguarda presenza scenica e impatto live. Continua invece a lasciare un po’ perplessi la figura del cantante: a volte viene infatti seriamente da chiedersi che cosa ci stia a fare Andrea Ferro nel gruppo se, in un’ora di concerto, canterà effettivamente tra i cinque e i dieci minuti! Intendiamoci, è normale che al centro dell’attenzione ci debba stare Cristina, però l’apporto di Ferro è spesse volte meno che minimo: sembra quasi messo lì più per coinvolgere il pubblico che per altro. Accantonando queste considerazioni, comunque, c’è da sottolineare il fatto che la band ha dimostrato di essere matura e sufficientemente esperta per suonare come supporto diretto dei due headliner. La folla l’ha acclamata senza sosta e alla fine le ha tributato un grosso applauso. Crediamo che per i Lacuna Coil ci sarà stato di che essere soddisfatti…
SLAYER
Quindicimila persone pronte alle 19.30 a varcare i cancelli degli inferi sono un bel riscontro su quella che è la reale attesa per l’ennesima calata italica del quartetto californiano. Gli Slayer, al loro terzo GOM, sanno bene come ripagare i loro adepti e – come consuetudine negli ultimi tour – tocca al sinistro e ferale intro “Darkness of Christ” aprire il loro concerto. L’esecuzione dell’incalzante “Disciple” – estratta dal mediocre “God Hate Us All” – mostra subito la verve di quattro musicisti fieri e fedeli ai loro ventennali intenti; quattro musicisti che però, come natura purtroppo vuole, sentono anche il peso degli anni! Specialmente il buon Araya si dimostra sin dalle primissime battute piuttosto fiacco, cosa che conferma il fatto che la sua voce, tour dopo tour, se ne stia irrimediabilmente andando. Poco male, comunque, perché quella che gli Slayer ci hanno preparato è una setlist killer, forse la migliore proposta nella nostra penisola da dieci anni a questa parte. Infatti, come un rullo compressore che lascia tramortiti, vengono tirate fuori dal cilindro, oltre ai soliti classici (“War Ensemble”, “Dead Skin Mask”, “South Of Heaven”, “Chemical Warfare”…), hit ottantiane del calibro di “Necrophiliac”, “At Dawn They Sleep” e addirittura “Black Magic” e “Show No Mercy” (da brivido) dal debut del 1983! Come se tutto ciò non bastasse, trovano poi spazio anche “Blood Red” e “Born Of Fire” da “Season In The Abyss” e l’inaspettata “Silent Scream”, canzone estratta dal bistrattato (almeno in sede live) “South Of Heaven”. Fortunatamente, non paghi della violenza regalataci, arrivano puntuali i rintocchi di Dave Lombardo che aprono “Raining Blood”, capolavoro che ha il compito di chiudere lo spettacolo lanciando l’indiscusso Slayer-manifesto, ovvero “Angel Of Death”! Con quest’ultimo pezzo si chiude un buonissimo concerto, magari intervallato da troppe pause ma nonostante questo assai coinvolgente. Un concerto che ha soddisfatto ma che comunque pone un inquitetante interrogativo sul futuro live per il “vecchio” screamer della band…
IRON MAIDEN
Il concerto degli Iron Maiden al Gods Of Metal ha spiegato in modo chiaro ed inconfutabile il perché la band di Steve Harris e soci sia praticamente l’ultimo baluardo (e mi riferisco alla capacità di far smuovere decine di migliaia di persone) a livello mondiale di quel fenomeno chiamato New Wave Of British Heavy Metal. Centinaia di band sono sparite, decine di altre hanno assistito ad un drastico calo di popolarità, soltanto la Vergine di Ferro sembra invece diventare sempre più grande e famosa anche dopo oltre venticinque anni di onorata carriera. La magia sprigionata da Bruce, Steve, Nicko, Dave, Adrian e Janick ha stregato il Gods Of Metal in un concerto dedicato esclusivamente ai primi quattro dischi in studio dei Maiden: l’intro “Ides Of March” manda letteralmente in visibilio l’intero Parco Nord di Bologna e l’entrata di Bruce Dickinson, con l’incedere di “Murders In The Rue Morgue”, ha lasciato tutti a bocca aperta. L’air raid siren nonostante i quarant’anni superati da un bel pezzo salta, corre, incita la folla con la stessa energia e vivacità degli esordi, regalandoci nel contempo una performance vocale impeccabile. Anche durante l’esecuzione del repertorio firmato Paul Di’Anno – ci riferiamo a “Drifter”, “Iron Maiden”, “Prowler” e la fantastica “Remember Tomorrow” – il frontman inglese non fa rimpiangere il suo predecessore. Ed ancora i Maiden non ci lasciano tirar fiato, perché la loro “Phantom Of The Opera” lancia migliaia di persone in un canto scatenato e adrenalinico, pari soltanto a quando Bruce ha intonato “The Trooper” indossando la divisa delle giubbe rosse! Oltre a queste chicche c’è spazio anche per qualche canzone che da tempo non veniva proposta nel repertorio della band, mi riferisco all’epica ed immortale “Where Eagles Dare”, introdotta dai virtuosismi del solito Nicko in grande spolvero. Certo, la band non ha dimostrato “grande amicizia” sul palco, a parte qualche sorriso tra Janick e Bruce, ognuno sembrava una realtà e sé stante, amalgamata alla perfezione soltanto nel momento di suonare le storiche canzoni. Chi ama gli Iron Maiden è sicuramente uscito dal Gods Of Metal con il cuore pulsante di ricordi e di una magia che fino ad oggi nessuna nuova formazione ha saputo nemmeno lontanamente ereditare. Questi vecchi ragazzi del metallo sono ancora vivi ed in gran forma, come se il tempo per loro si fosse fermato, quasi a farci sperare che la nostra band preferita non smetterà mai di calcare i palchi per noi sino alla fine dei tempi.
EXILIA
Appena giunti all’Arena Parco Nord di Bologna attaccano a suonare i milanesi Exilia, crossover band piuttosto violenta e abbastanza fuori dal contesto del secondo giorno del Gods. La particolarità del gruppo è sicuramente la voce femminile di Masha, potente e graffiante, che colpisce come un pugno nello stomaco l’ascoltatore. Più noti all’estero che in Italia e, complice anche l’orario, gli Exilia attirano solo qualche sparuto gruppo di persone, che si dividono equamente tra fan e semplici curiosi attirati dalla band. Ad un primo ascolto viene spontaneo il paragone con i Guano Apes, anche se poi l’influenza di Korn e a tratti Slipknot si fa più evidente. Il concerto comunque non lascia particolari spunti per essere ricordato, salvo una sparata di Masha contro il giornalismo musicale italiano, reo di ignorare la band. Comunque la carica di energia profusa è notevole, anche se un sound caotico impedisce di cogliere le sfumature che il sound dei ragazzi deve offrire. Tra alternative, crossover e nu metal si arriva alla fine della mezz’ora abbondante messa a loro disposizione. Da risentire in un contesto e in un orario più consoni alle potenzialità della band.
EXTREMA
Gli Extrema, storica heavy band italiana, erano destinati a suonare il primo giorno della manifestazione, ma a causa dell’inserimento nel bill dei Mudvayne sono stati dirottati al secondo giorno. Poco male, visto che i ragazzi offrono uno spettacolo diretto e violento, fatto di sudore, rabbia, birra e musica violenta. Gli Extrema ci regalano una quarantina di minuti scarsa di buona musica, attirando un discreto capannello di persone, tra le quali spiccano i die hard fan della band, sempre pronti a rispondere alle sollecitazioni di GL e Tommy; il resto del pubblico segue di buon grado l’esibizione, pur senza sbattersi più di tanto. La maggior parte dei pezzi viene estratta da “The Positive Pressure Of Injustice” e soprattutto dal criticato “Better Mad Than Dead”, e dal vivo tutte le composizioni vengono riproposte con una furia heavy molto maggiore delle versioni su disco. Un plauso va soprattutto al nuovo batterista Paolo, che al suo esordio assoluto con la band si è trovato a dover suonare alla platea più grande d’Italia, cavandosela egregiamente. Anche loro sono fustigati dal suono abbastanza scadente, ma ne risentono meno di altri anche perché la loro esibizione ha puntato su un impatto quasi hardcore, assolutamente senza fronzoli. I ragazzi hanno proposto anche una canzone inedita intitolata “New World Disorder” che sembra riportare il gruppo su binari più heavy che mai. Esperti, coinvolgenti e cattivi, gli Extrema superano l’esame del Gods Of Metal grazie ad una prestazione sanguigna e convincente.
HAMMERFALL
Accompagnati da un telone raffigurante le cime innevate delle montagne che ricorda la copertina del singolo “Blood Bound” irrompono sulla scena gli Hammerfall. L’arena per la prima volta nella giornata tende a riempirsi, gli svedesi sembrano rendersi conto della situazione e a più riprese ringraziano il loro numeroso pubblico per essere accorso in massa nonostante l’orario. I fan dal canto loro danno segno di apprezzare la scaletta scelta dalla band, che ha proposto brani estratti da tutti i suoi lavori. Purtroppo gli Hammerfall hanno dovuto fare i conti con un suono piuttosto deficitario: se nelle prime file si sentiva tutto più o meno distintamente, man mano che si indietreggiava la situazione peggiorava enormemente. La band ha tenuto un concerto discreto, reggendo bene il palco e dimostrando oramai di essere perfettamente rodata. Un plauso va fatto sicuramente ai due axeman Oscar Dronjak e Stefan Elmgren, autori di una performance convincente e mai esageratamente sopra le righe. Joacim Cans, probabilmente pompato dal pubblico, in alcuni frangenti ha chiesto troppo alla sua ugola e nel complesso è stato autore di una prestazione appena sufficiente. Da segnalare l’assoluta assenza di qualsivoglia scenografia fantasy e/o guerresca, fatto salvo per il telone menzionato all’inizio: l’atmosfera quindi è piuttosto sobria e adatta a concentrarsi solo sull’aspetto musicale dello show. I tre quarti d’ora a loro disposizione scorrono via abbastanza in fretta, tra nuovi brani e vecchi classici della band, tra i quali hanno spiccato “Renegade”, “Hammerfall” e “Heeding The Call”, in assoluto gli anthem più cantati dal pubblico. Finché si ascoltano per tre quarti d’ora, gli Hammerfall sono ben sopportabili e a tratti piacevoli, poi cominciano a diventare noiosi: compito eseguito, ma nulla più.
BLACK LABEL SOCIETY
Thrasher, glamster, defender, punk, rastoni, Tommy degli Extrema, Masha degli Exilia, Joey Belladonna: cosa unisce questi personaggi e questi mondi cosl distanti tra di loro? Tutti erano ll per vedere all’opera il biondocrinito Zakk Wylde con i suoi Black Label Society, una delle band del momento anche grazie al successo del loro ultimo lavoro “Mafia”. Per i Black Label Society vale la pena di usare un aggettivo spesso utilizzato a sproposito, soprattutto in ambito heavy: veri, o per meglio dire, “true”. L’attitudine di Zakk e dei suoi compagni traspare in maniera assolutamente evidente sia dalla musica proposta che dall’aspetto e dall’iconografia della band. Oggigiorno nessuno suona come la Black Label Society, a parte forse il side project Down, e dal vivo esce tutto quello che su un piccolo e anonimo CD non riesce a stare. I tre quarti d’ora di concerto hanno lasciato a bocca aperta i fan, Zakk h un personaggio, o meglio, un uomo dal carisma strabordante, anche solo vederlo suonare la chitarra mette i brividi. La band, forse per il contesto o forse per lo scarso tempo a disposizione, sceglie di suonare composizioni piuttosto dure, anche se la melodia h sempre e comunque rintracciabile. Il talentuoso leader stupra la propria sei corde e, aiutato da convincenti backing vocals, interpreta come dio comanda tutte le canzoni, sputando spesso e volentieri come se volesse buttare fuori tutto quello che ha dentro. Concerto sensazionale, uno dei migliori della giornata, letteralmente indescrivibile a parole: se la Black Label Society dovesse passare nei dintorni di casa vostra farsela sfuggire sarebbe un errore imperdonabile.
YNGWIE MALMSTEEN
Dopo la tournee europea a supporto di “Attack”, torna in Italia (e per la prima volta al Gods Of Metal) Yngwie Malmsteen con la sua band, alla ricerca ancora una volta di entusiasmare i presenti con le sue acrobazie da funambolo della chitarra e con le sue trovate sceniche da vero guitar hero pieno di egocentrismo. Il tempo che viene concesso al combo guidato dallo svedese è ristretto (45 minuti circa), ma nonostante il sound abbastanza deprecabile che ha accompagnato la band dell’eccentrico chitarrista e l’esecuzione non certo impeccabile dietro il microfono dell’ennesimo singer che si trova ora alla corte del lungocrinito (e, per l’occasione, anche dimagrito!) Yngwie (trattasi questa volta di Doogie White), lo show si rivela buono ed efficace grazie all’esecuzione di veri highlight provenienti dagli anni ’80 come “Rising Force”, “Don’t Let It End”, “Never Die”, “Demon Driven”, “I’ll See The Light Tonight” e le strumentali “Far Beyond The Sun” e “Trilogy”. Per finire uno show che possiamo considerare di buon livello, il chitarrista decide di omaggiare uno dei suoi idoli, ovverossia Mr. Ritchie Blackmore, eseguendo la cover di “Burn” con tanto di distruzione finale di una delle sue amate Fender Stratocaster, i cui resti vengono gettati al pubblico come testimonianza di uno show da ricordare, nel bene e nel male.
ACCEPT
C’era una grandissima attesa per la prima calata italica dopo la reunion della band teutonica, e la cosa è percepibile solo dal fatto che, nonostante l’ora non propizia (gli Accept hanno infatti dato inizio al loro show nel primo pomeriggio), la performance dei cinque tedesconi è stata tra quelle che più hanno raccolto affluenza di pubblico all’interno della giornata di domenica. Ma non tergiversiamo, ed andiamo al dunque: lo show della band è stato assolutamente fantastico, tanto da far annoverare gli Accept tra i veri trionfatori della giornata di domenica, dato che lo spettacolo messo in piedi da Udo Dirkschneider (che se la cava ancora benissimo nonostante l’età continui ad avanzare!) e soci è stato pressoché perfetto; non sono non è mancato il classico repertorio di ‘pose giuste’ da very heavy metal kid (ragazzi, questi cinque sono rimasti giovani nell’anima, è questo che conta!), ma gli Accept sono riusciti a concentrare in una sola ora di repertorio, suonandoli perfettamente e con notevole coinvolgimento, i loro maggiori classici, corredandoli anche da una serie di chicche: e allora via, per la gioia dei molti presenti, a song come “Restless And Wild”, “London Leatherboys”, l’inaspettata “Monsterman”, “Son Of A Bitch”, “Breaker”, “Metal Heart”, “Head Over Heals”, ed in chiusura le classicissime “Balls To The Walls” e “Princess Of The Dawn”. Grandissimi ora, come vent’anni fa… promossi a pieni voti!
ANTHRAX
E’ tempo di reunion anche per la band americana, ed ecco così presentarsi sul palco la storica formazione di “Among The Living”, con Dan Spitz e Scott Ian alle chitarre, Charlie Benante alla batteria, Frank Bello al basso e, finalmente, Joey Belladonna alla voce. Ed è proprio “Among The Living” la canzone scelta dalla band per riaprire le danze alla calata italica della reunion; la band pare assolutamente in forma nonostante, purtroppo c’è da ammetterlo, la voce di Joey non si riveli più la stessa di una volta, dimostrando qualche incertezza specie sui toni più alti. Ad ogni modo gli Anthrax mettono in piedi una buona set-list, coronata da molti classici (“I Am The Law”, “N.F.L.”, “Indians”, “Antisocial”, “I’m The Man”, “Got The Time”) e da un paio di chicche, ovvero l’opener di “State Of Euphoria”, la discreta “Be All, End All” e l’entusiasmante “Medusa”, assolutamente inattesa per tutti i presenti. Sono stati tralasciati dalla scaletta alcuni highlight come “Metal Thrashing Mad”, “Madhouse”, “A.I.R.” (c’è da dire che il tempo concesso alla band era anche abbastanza limitato), ma nonostante questo allorché gli Anthrax abbiano lasciato il palco, si ha ancora la sensazione che il tempo sia passato solo in parte, dato che, voce di Belladonna a parte (un po’ sottotono, come già sottolineato), questi ragazzi sembrano ancora in grado di rivaleggiare con il glorioso passato.
MEGADETH
C’era molta attesa per vedere in azione i Megadeth, oramai ridotti a progetto solista di Dave Mustaine (sempre che non lo siano sempre stati), dopo l’uscita di “The System Has Failed”, album che ha diviso pubblico e critica tra chi lo definisce un convincente ritorno al passato e chi invece pensa si tratti di un’astuta mossa di Mustaine per tornare nelle grazie dei vecchi fan dopo le pessime uscite che lo precedevano. Non c’è molto da dire, dal vivo i Megadeth possono dare ancora lezioni a molti giovincelli, nonostante i componenti della band siano piuttosto statici (soprattutto rispetto agli indiavolati Anthrax che li hanno preceduti) e Mustaine sembra colto da buonismo fulminante, mandando baci e saluti a tutti. Il live set è composto quasi principalmente da vecchi classici ed estratti dall’ultimo album, tra le quali va segnalata “Blackmail The Universe”, canzone mediocre ma che sembra aver avuto una gran presa sul pubblico. MegaDave canta con la solita voce sgraziata ma efficace e alla chitarra non perde un colpo, ben supportato dai suoi musicisti che, seppur preparati, non valgono quanto Menza e Friedman. Ovviamente le vecchie canzoni hanno fatto scatenare e cantare a squarciagola la maggior parte dei presenti: da “Tornado Of Souls” a “Skin Of My Teeth”, fino a giungere al conclusivo trittico da infarto – “Symphony Of Destruction”/”Peace Sells…But Who’s Buying?”/”Holy Wars” – durante il quale i fan sembrano in estasi mentre la band continua imperterrita a sciorinare con convinzione partiture e riff che hanno fatto la storia del (thrash) metal. Il climax si è raggiunto con l’esecuzione della discreta “A Tout Le Monde” che in sede live, cantata da migliaia di persone, mette i brividi. Buono show quindi, viene la tentazione di domandarsi perché ormai Mustaine non continui la sua avventura con i Megadeth soltanto dal vivo…
MOTLEY CRUE
Ecco il momento che tutti aspettavano: una delle band più irriverenti, eccessive e appariscenti della scena heavy rock mondiale finalmente alla portata di tutti gli appassionati di genere del Bel Paese! E possiamo dire sin da subito che l’attesa è stata abbondantemente ripagata, poiché i Motley Crue hanno messo veramente in piedi uno show di tutto rispetto, scenograficissimo, professionale e ottimo sotto tutti i punti di vista. Partiamo dalla scenografia: un telone a stelle e strisce tanto semplice quanto essenziale fa da sfondo ai giochi da palco dei quattro folli americani, che si portano sul palco un buon seguito di spogliarelliste, spettacoli pirotecnici e simpatiche scenette che vedono per protagonista soprattutto l’eccentrico Tommy Lee (classicissima anche se di notevole effetto la scena in cui il drummer dei Crue chiede a tutte le ragazze tra il pubblico di mettersi – letteralmente – a nudo per lui, riprendendo il tutto con una piccola cinepresa), oggi ricoperto in viso da uno strato di face-painting che lo rende più simile ad un clown pazzo, più che ad una persona normale. Passiamo ora al lato più importante dello spettacolo, e cioè – ovviamente – quello sonoro. La sorpresa più grande viene rappresentata, in questo caso, dal frontman Vince Neil: infatti, se tutti gli altri eseguono il loro compito con bravura e coinvolgimento, come ci si sarebbe aspettato da dei musicisti preparati come loro, il dubbio sulla voce di Vince rimaneva, prima dello show; dubbio che viene letteralmente spazzato via dopo i primi pezzi della set-list, che dimostrano come il tempo per lui non sia passato, dato che la sua voce regge perfettamente il confronto col passato e non fa rimpiangere nulla dei bei tempi andati. “Girls, Girls, Girls”, “Dr.Feelgood”, “Live Wire”, “Home Sweet Home”, “Red Hot”, “Ten Seconds To Love”, “Kickstart My Heart”, “Wild Side”: quale rocker degno di tale nome non ha desiderato di sentire, almeno una volta nella vita, tutte queste piccole grandi perle offerte dai Crue nello show di stasera? Eccoci accontentati, con uno show assolutamente entusiasmante che ha visto soddisfatti tutti i presenti dopo la chiusura pirotecnica con la cover di “Anarchy In The U.K.”, e ha visto anche l’esecuzione della nuova “Sick Love Song”, che ha convinto la maggior parte del pubblico (anche se non il sottoscritto!) rilanciando a dovere i quattro glamster statunitensi nel nuovo millennio. Un altro gruppo per il quale il tempo sembra essersi fermato, che ha regalato un momento magico e delle emozioni irripetibili ai ventimila presenti all’Arena Parco Nord in quel di Bologna, e la prova che il pensionamento per i vecchi dinosauri del rock può essere rimandato ancora di altri vent’anni… avanti così!