Introduzione a cura di Marco Gallarati
Report a cura di Marco Gallarati, Carlo Paleari e Maurizio “MoRRiZz” Borghi
Foto di Barbara Francone (Roadrunner Records – www.roadrunnerrecords.it)
E finalmente ci siamo! I festeggiamenti per il decimo anniversario del più importante festival rock/metal italiano, il Gods Of Metal, possono ordunque cominciare! Quattro giorni di musica, birra, Sole (si spera) e divertimento attendono il popolo metallico e hard-rockettaro italiano e non, per un totale di più di quaranta band che si andranno ad esibire on stage. Dopo il trasloco bolognese degli ultimi due anni, l’edizione 2006 del GOM torna a Milano, nella sede che forse, più di ogni altro luogo della città lombarda, merita l’onore di ospitare un evento di tale portata: il parco dell’Idroscalo, il cosiddetto “mare dei milanesi”. La località precisa prescelta è la zona denominata Punta Dell’Est, un grande spiazzo verde, con un viale alberato ed uno spazioso tendone per il servizio catering del festival (finalmente dotato di una buona scelta di cibarie e beveraggi). Il palco, della grandezza ideale, risulta però posizionato in una zona non troppo felice, soprattutto in previsione della notevole massa di persone che presenzieranno al ritorno dei Guns’n’Roses in terra italica dopo svariati anni: la struttura è stata infatti montata tra la cancellata che delimita il parco e gli stand presenti lungo il viale alberato, avendo, come area di visuale, soltanto il ristretto quadrato compreso tra la lunghezza del palco e l’ingombrante impianto del mixer, posto ad una trentina di metri di fronte allo stage; tutto ciò, quindi, potrebbe ostacolare non poco la visione delle persone che andranno ad occupare le file più posteriori. Problemi di visibilità, in questo giovedì 1 giugno, primo giorno del festival, comunque non ce ne saranno, in quanto, soprattutto a causa della giornata lavorativa, l’affluenza non sarà eccezionale, pur essendoci in programma gli spettacoli di molti big del metal estremo, a cominciare dai precursori Venom, proseguendo per i veterani Sodom e Testament e finendo con gruppi ormai affermati nel metal-biz quali Nevermore, Opeth e Satyricon, senza considerare poi il carisma southern dei Down e del loro frontman. La bella e calda giornata di beltempo sarà favorevole agli accorsi, sebbene in serata il cielo diventerà grigio e un venticello piuttosto freddo sferzerà le stanche membra dei presenti. Da registrare con pesante disappunto, il cattivo presagio (poi non andato a buon fine) del ritardo di due ore e un quarto nell’apertura dei cancelli: il disguido sembra esser stato causato dalla commissione di vigilanza che doveva visionare il sito, prima di dare l’ok all’apertura…commissione giunta, a sua volta, in altrettanto grave ritardo! A parte questo brutto prologo – che ha ovviamente avuto delle ripercussioni sulle setlist dei gruppi impegnati – la giornata dedicata al metal estremo è stata molto piacevole e, prima di lasciarvi alla lettura dei singoli report, possiamo assicurarvi che le band che si sono esibite nella parte centrale del bill sono state le più seguite e acclamate, lasciando ad Opeth e Venom, venuti, purtroppo per loro, dopo il debosciato show di Phil Anselmo, l’ardua missione di chiudere senza sbadigli l’inaugurazione del Gods Of Metal 2006. Buona lettura!
CAPPANERA
Ad aprire ufficialmente le danze della decima edizione del GOM, arrivano i Cappanera, la band creata da Dario e Rolando Cappanera, rispettivamente chitarrista e batterista della attuale Strana Officina – nonchè parenti ed eredi naturali degli sfortunati Fabio e Roberto, storici e compianti fondatori del gruppo di cui sopra – formazione prevista come headliner della giornata dedicata al metal italiano. L’unica pubblicazione musicale del combo risale ormai al 1998 e prende il nome di “Materializin’ Dream”; poi, il silenzio totale. Tenendo conto del fatto che i Cappanera sono italiani e che l’esibizione della Strana Officina è in programma l’indomani, è chiaro come la ventina di minuti di spettacolo dei quattro ragazzi sia giusto un appetizer per permettere ai più mattinieri di riprendersi dall’estenuante attesa ai cancelli e di iniziare a preparare le orecchie per l’arrivo dei pezzi grossi. Una rapida manciata di pezzi power-thrash senza troppi fronzoli e via! Subito sotto un altro…
AMORPHIS
Probabilmente fatti suonare in una posizione – la seconda – un po’ penalizzante per loro, i finnici Amorphis presentano, per la prima volta di fronte all’audience italiana, il nuovo cantante Tomi Joutsen, salito sul palco come versione smagrita e più mobile del grande Max Cavalera, con tanto di rasta ondeggianti e maglietta verde brillante. La band è parsa piuttosto in forma, i suoni sono risultati decenti e l’esibizione è stata accolta in modo positivo. Per i fan accaniti della formazione, la scaletta proposta dagli Amorphis dev’essere stata assolutamente soddisfacente, visto che, oltre a tre estratti dall’ultimo “Eclipse” (“Leaves Scar”, “The Smoke” e “House Of Sleep”), il gruppo ha riproposto molto materiale vecchio, fra cui “Against Widows”, “In The Beginning” e addirittura “Sign From The North Side” dal debutto “The Karelian Isthmus”. Evidente come Joutsen ami cantare in growl molto più del suo predecessore Pasi Koskinen. E questo non può che farci immenso piacere…
CALIBAN
I Caliban hanno suonato in sostituzione dei defezionari della penultim’ora Dimmu Borgir e c’era qualche piccolo dubbio sull’accoglienza che i fan italiani avrebbero tributato ad una delle band più “poser” dell’amato-odiato movimento metal-core. Il gruppo di Andy Dörner, pur avendo ricevuto tre-quattro antipatiche bottigliate, ha però dimostrato di avere carattere, coesione e forza, tirando fuori dal cappello uno show fisico, intenso e potente. Certo, chi parte prevenuto nei confronti del trend del momento avrà avuto di che lamentarsi, magari soprattutto per la somiglianza dei classici breakdown da mosh, un po’ tutti uguali, però bisogna ammettere che i cinque tedeschi hanno fatto la loro figura, soprattutto nel finale affidato al classico “The Beloved And The Hatred” e a “Goodbye”. Diciamo pure che una rappresentanza del metal-core, per rendere più completo il giorno estremo del GOM, ci voleva proprio!
SATYRICON
La band di Satyr sale sul palco mentre sugli astanti batte un Sole a picco che poco si adatta alla musica proposta dai norvegesi. Bisogna dire, comunque, che la cornice non è riuscita a spegnere la sulfurea esibizione dei Satyricon, anche perché il materiale più recente della band, intorno a cui si è concentrata gran parte dell’esibizione, è ormai ben lontano dalle gelide e oscure atmosfere evocate nei primi lavori. Il pubblico si accalca numeroso davanti al palco mentre le casse del Gods Of Metal vomitano le note dei vari estratti dall’ultimo “Now, Diabolical”. La title-track, in particolare, riscuote un successo inaspettato, complice la buona presenza scenica di Satyr, che si rivela un ottimo intrattenitore, capace di coinvolgere ed incitare il pubblico. Dopo delle trascinanti versioni di “K.I.N.G.” e di “Filthgrinder”, i Satyricon ci tengono ad omaggiare le loro radici, accennando l’introduzione di “War Pigs” dei Black Sabbath, a cui segue un estratto da “Volcano”, “Fuel For Hatred”. A chiudere la performance, infine, viene riproposta la classicissima “Mother North”, tratta dal capolavoro “Nemesis Divina”, che suggella definitivamente un’esibizione convincente sotto ogni aspetto. Infine vale la pena di spendere due parole per Phil Anselmo, che si è gustato tutto il concerto dal fondo del palco, agitandosi con trasporto e acclamando i Satyricon come il migliore dei fan.
SODOM
Potenti e inarrestabili come un carro armato, salgono sul palco i Sodom, uno dei gruppi cardine del thrash metal tedesco. Il trio, senza troppi complimenti, si è lanciato nella solita guerriglia di riff assassini che hanno deliziato le orecchie dei presenti, soprattutto gli appartenenti alla vecchia guardia che hanno salutato con gioia il ritorno in Italia della band di Tom Angelripper. I tre musicisti, fregandosene della scaletta preparata, decidono praticamente sul momento cosa suonare: vengono così proposti classici come “Outbreak Of Evil”, “Napalm In The Morning”, “Ausgenbombt”, “Sodomize”, “The Saw Is The Law” e “Remember The Fallen”. Il pubblico partecipa con trasporto al massacro e la band sembra apprezzare la calda accoglienza, congedandosi dispiaciuta di non poter continuare alla fine del tempo a disposizione.
NEVERMORE
All’ingresso dei Nevermore la prima cosa che salta all’occhio, naturalmente, è l’assenza di Steve Smyth, affetto da gravi problemi di salute che l’hanno obbligato ad abbandonare temporaneamente il gruppo. La band di Warrel Dane, dopo aver augurato una pronta guarigione al loro compagno, si è lanciata in uno show micidiale, che sottolinea nuovamente la forma ritrovata, in particolar modo del cantante. I Nevermore ormai sono di casa al nostro Gods Of Metal (è la loro quarta apparizione!) e il pubblico sa cosa aspettarsi. L’assenza di Smyth da una parte diminuisce il muro sonoro creato dalla band, ma dall’altra rende molto più chiara e limpida l’esecuzione delle parti di chitarra ad opera di Jeff Loomis, che, a parere di chi scrive, può entrare di diritto nel novero dei migliori chitarristi in ambito metal degli ultimi quindici anni. Dane, intanto, ammalia il pubblico con la sua voce, spazzando il ricordo della sbiadita performance del 2004. La scaletta del concerto ripercorre il periodo più recente della band, dai brani nuovi come “Final Product” e “Born”, fino ai classici di “Dead Heart In A Dead World” (“The River Dragon Has Come”, “The Engines Of Hate” e “Narcosynthesis”), senza dimenticare il controverso “Enemies Of Reality”, da cui vengono tratte la title-track e “I, Voyager”. Lo show, infine, si chiude con la lunga “This Godless Endeavor”, scelta a nostro parere non felicissima, dato il tempo limitato a disposizione, che ha comportato l’esclusione dei brani più vecchi (l’unico estratto dal materiale meno recente della band è stato “The Seven Tongues Of God”). Nonostante questo, la band riesce lo stesso a dare vita ad uno show di grande spessore, che percuote il pubblico con la sua incredibile violenza. Sempre grandi!
TESTAMENT
Sull’onda del successo della recente reunion, tornano in Italia i leggendari Testament, pronti ad annichilire il pubblico con gli immortali brani del loro primo periodo. La band è, come sempre, una macchina da guerra impressionante, con Chuck Billy a fare da mattatore con la sua energia inesauribile e un Alex Skolnick in piena forma a lanciarsi in scorribande chitarristiche mozzafiato. La scaletta ripercorre prevedibilmente quella proposta nei recenti concerti: si inizia con l’accoppiata “The Preacher”/ “The New Order”, per poi continuare ricostruendo un vero e proprio greatest hits del periodo classico della band con “Electric Crown”, “Souls Of Black”, una devastante “Into The Pit”, “Burnt Offerings” e “Practice What You Preach”. I Testament non concedono un attimo di tregua, il pogo si scatena senza pietà e davanti al palco si alzano nuvole di polvere. Skolnick e Peterson macinano riff su riff e la prestazione non cala mai d’intensità, fino alla conclusiva “Disciples Of The Watch”. Stupisce, in effetti, la posizione in scaletta per questa storica formazione, che sia per valore storico che per qualità avrebbe potuto occupare posizioni ben più elevate. Una certezza.
DOWN
Attesissimi e acclamati, Jimmy Bower, Pepper Keenan, Kirk Windstein e Rex Brown stendono il tappeto rosso per l’entrata dell’icona dell’ignoranza, della volgarità e della rozzezza metallica: l’indistruttibile Phil Anselmo. Boato per il texano che, berretto in testa e in discreta forma fisica (anche se ovviamente alticcio e sbiascicante), sfoggia tutto il suo repertorio di inarrivabile sconceria e sboccatezza: subito dopo la prima strofa del primo pezzo, Anselmo interrompe la band per aizzare la folla con la classe di un orango sborniato, regalando perle quali “adesso voglio vedere un fottuto moshpit grande almeno quanto il mio membro, il che vuol dire che dev’essere davvero enorme!”. Di sicuro, Phil non ha perso la sua presenza scenica e il suo amore per il pubblico, trattandolo con tanta umiltà da essere rispettato e tanta aggressività da essere tutt’ora una icona del metal, mentre la band si dimostra abbastanza rocciosa da non rimanere oscurata dall’ex-Pantera. “New Orleans Is A Dying Whore”, “Eyes Of The South” e “Ghosts On The Mississippi” sono i momenti più caldi di uno show dilatato dalle continue sparate di Phil, ma assolutamente il migliore della giornata. Un’oretta esaltante che fa venire voglia di birra! E la conclusione di tale performance spettacolare non poteva altro che essere una frase del calibro: “Noi siamo i Re di quello che facciamo. Avvicinateci pure, ma avvicinateci con rispetto, altrimenti vi ucciderò a mani nude!”. Idolo.
OPETH
Ancora sghignazzanti, divertiti e semi-increduli per la sfacciataggine primitiva dello show dei Down, l’arrivo degli Opeth suona un po’ come quello di un serio professore appena dopo una spensierata ora di educazione fisica: tutti a posto, fermi immobili, ad ascoltare la lezione. Il combo svedese, è chiaro, non è gruppo da festival, così come la loro musica non può essere pienamente apprezzata all’aperto, fra lo spettacolo di un branco di bisonti allo stato brado (Down) e quello di un incantatore di serpenti (Cronos e i Venom). Comunque sia, Mikael Akerfeldt e soci, pian piano, riescono ad imporsi sul pubblico, pur essendo drammaticamente statici nell’esecuzione dei pezzi – cosa che, su di un palco grande come quello di un festival, è purtroppo lampante. Sei pezzi suonati, in circa un’ora di spettacolo, tratti da sei album diversi: “The Grand Conjuration” ha aperto le danze, seguita da “White Cluster” e dall’ottima “Closure”, allungata a dismisura in una versione molto psichedelica. Intervallate dalle originali trovate ironiche di Akerfeldt (il suo umorismo è particolarmente inglese, non ci è dato sapere quanto sia realmente apprezzato dal metallaro medio), si susseguono poi “The Leper Affinity”, “Deliverance” e la conclusiva “Demon Of The Fall”, a chiudere un buono show, anche se non esaltante. Probabilmente, pur riconoscendo il grande apporto che gli Opeth stanno dando al metallo mondiale, altri gruppi, fra quelli in programma lo stesso giorno, meritavano maggiormente la posizione di vice-headliner, Testament su tutti. Ma tant’è…tocca ai Venom!
VENOM
Una scenografia piuttosto spartana ed un muro di amplificatori fanno da contorno all’entrata in scena dei cosiddetti padri del black metal Venom, introdotti on stage da un’intro sulfurea piuttosto azzeccata. Senza più Mantas e Abaddon, il solo Cronos è rimasto a reggere in piedi l’impatto carismatico della band, ma bisogna dire che il vocalist/bassista è in grado di tenere benissimo il palco da solo, pur potendo contare sull’apporto del chitarrista Mykvs e del batterista Antton, certo non due mostri di tecnica e bravura. L’inizio della performance è affidato a due pezzi davvero storici, ovvero “Black Metal” e “Welcome To Hell”, ma è con “Die Hard” che si ha l’apice dello spettacolo: a duettare con Cronos, com’era prevedibile, sale di nuovo sul palco Phil Anselmo, letteralmente mostruoso nell’elevare a potenza il livello di partecipazione del pubblico. A pezzo concluso, a metà strada tra un fan incredulo ed un bimbo a cui hanno regalato il giocattolo che desiderava da secoli, Phil ha abbracciato Cronos e inneggiato agli altri due, inginocchiandosi pure in segno d’adorazione! E, sinceramente, vedere Anselmo che si complimenta con uno sconosciuto (pure un po’ incapace) di nome Antton la dice lunga sulla genuinità di un personaggio quale l’ex-singer dei Pantera! Ma torniamo agli headliner, i quali, fra innocui petardi, rapide fiammate infernali ed esplosioni abbastanza stordenti, continuano il loro viaggio all’Inferno, inanellando “The Evil One”, “Countess Bathory”, “Satanachist”, “Warhead” e “Metal Black”, prima di bissare con altri due pezzi epocali: “In League With Satan” e “Witching Hour”. Lo spettacolo, e con esso la prima giornata del Gods 2006, si va così a concludere, lasciando le luci sinistre del palco ad accompagnare gli astanti verso un tranquillo defluire. Tutto sommato, per i Venom si è trattato di una prova abbastanza convincente, seppur la band è la rappresentazione vivente di come la nomea acquisita nel corso degli anni, spesso sopravvalutata, sia a volte più importante del valore effettivo di un gruppo. Quando il presente riuscirà a sconfiggere il passato, allora sì che saremo di fronte ad una nuova epoca metallica…